CAPITOLO VII

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Il tempo è una condanna. Una maledizione. Ero finita in un abisso. Un lungo abisso nero, dal quale non c'era via d'uscita. La mia mente deragliava, non pensava razionalmente. Brancolava nell'oscurità, perduta e confusa. Quanto tempo era passato? Per quanto tempo ero chiusa lì dentro? In alcuni momenti pensavo che fossero trascorse solo poche ore, in altri credevo fossero giorni. Non dovevo perdere il senno, dovevo restare lucida. Dovevo ricordare a me stessa perché ero lì. L'unico modo per tener chiara la mente era pensare. Dovevo pensare per non perdere me stessa.

C'era un forte odore di urina, la mia. La paura aveva preso il controllo del mio corpo. Chiusi gli occhi. Mancava l'aria. Sentivo i miei polmoni andare a fuoco. Sarei morta soffocata?

Il signor Phillips sarebbe arrivato presto, era tutto ciò che mi ripetevo. Forse... forse mi avrebbe persino portato dell'acqua.

E se non fosse arrivato nessuno? Se il signor Phillips fosse morto? Ma no, no, no...

Una lacrima mi scivolò sulla guancia. Continuavo a pensare a mia madre. Desideravo ardentemente la sua presenza in quel momento. Desideravo il suo conforto, qualche parola dolce, una carezza sui capelli...

Mi avevi promesso di essermi sempre accanto, ma mi hai mentito. Non sei qui. Sei lontana, così lontana. E non hai la minima idea di quello che mi sta succedendo. O forse sì? Mamma, riesci a sentire la mia paura?

Ci fu un rumore di passi. Delle voci. Erano venuti a prendermi, finalmente? Rimasi in ascolto, con le orecchie tese e il cuore in gola. Cercai di distinguere la voce del signor Phillips tra quel brusio, ma non mi sembrò di sentirla. Mi spostai verso il fondo del mio minuscolo rifugio, ansiosamente. Era lui? Non lo capivo. Per un momento le voci si acquietarono e pensai che probabilmente si fossero allontanati.

BAM!

Sobbalzai, lanciando un gridolino di spavento. Stavano dando dei colpi alla porta chiusa. Ci fu un altro sonoro colpo, ma la porta non cedette.

L'avevo chiusa dall'interno.

Mi accovacciai a terra e affondai la testa tra le ginocchia.

Dopo ancora un calcio i cardini si staccarono dall'uscio e la porta venne scaraventata per terra. Una luce abbagliante invase lo stanzino e i miei occhi non riuscirono a distinguere le figure scure che avevo dinanzi.

«Santo Dio...» fece una voce, sospirando. «C'è una puzza terribile qui dentro...»

«È qui! L'abbiamo trovata!»

Erano voci sconosciute, di certo non appartenevano a nessuno del mio equipaggio. Mi nascosi il viso tra le mani, le tempie mi pulsavano. Sentii una figura avvicinarmisi e mi strinsi ancor di più nelle spalle, tremando visibilmente. Mi sollevarono da terra così bruscamente da farmi male. Non avevo abbastanza forze per riuscire a stare in piedi; barcollai pericolosamente e uno di loro fu costretto ad afferrarmi da dietro per evitare che finissi a terra. Al tocco di quegli uomini mi dimenai come non mai. Calciai e li spintonai via, lontano da me.

«Sta un po' ferma, ehi!» si lamentò uno di loro, ma quando notò che non ebbi intenzione di ubbidirgli, mi assestò un calcio allo stomaco. Il dolore fu intenso e per un attimo mi tolse il respiro. Mi afferrarono tutte e due le mani e me le portarono dietro la schiena, trattenendo i miei inutili tentativi di fuga.

«Non osate toccarmi... No...!»

«Taci», ordinò uno dei due uomini. Mi trascinarono fuori dallo sgabuzzino. Le mie gambe cedevano ad ogni passo; erano costretti a tenermi sotto le ascelle per far sì che rimanessi in posizione eretta. La mia testa ciondolava e continuavo a strizzare gli occhi per la troppa luce. A poco a poco, ricominciai a distinguere le assi del pavimento, le mie scarpe, il mio vestito di seta azzurro, stropicciato e con delle macchie di sporcizia lungo tutta la gonna. Non avevo la forza di sollevare la testa e di posare lo sguardo sui due uomini. D'un tratto, non so come, mi ritrovai sul ponte. Sentii il calore del sole accarezzarmi la pelle arida e secca. L'aria fresca mi fece respirare a pieni polmoni. Ero fuori da quel tugurio, finalmente, da quel maledetto sgabuzzino che probabilmente era stato l'unico luogo sicuro su quella nave fino a pochi istanti prima. I due uomini mi mollarono così all'improvviso che persi l'equilibrio e finii a sbattere la fronte per terra.

«Portate dell'acqua!» urlò qualcuno.

«Che vuoi fare?»

«Quella là puzza come una fogna! Non vorrai presentarla in questo stato al Capitano, no?»

«Mmh.»

Cercai di sollevarmi. Se dovevano uccidermi o peggio volevo guardarli dritto negli occhi, perché mi ricordassero, che ricordassero bene la mia faccia colma di disgusto. Ma poi qualcuno mi diede un calcio e mi fece ribaltare di nuovo a terra. Strinsi i denti, cercando di trattenere i gemiti. Non potevo dar loro la soddisfazione di sentirmi urlare. Non erano degni di udire il suono della mia voce. Non avrebbero ottenuto niente da me.

Niente.

«Sta giù. Non ti muovere, capito?» ordinò una voce, urlando.

Non risposi, ovviamente. Desideravo solo che la facessero finita presto. Che si sbrigassero, perché non avevo nessuna voglia di prolungare ancora quel tormento, quel terrore che mi attanagliava le viscere e non mi mollava più. Non seguivo i loro discorsi. Non mi importava. Ero troppo spaventata per collegare le parole, per associarle a qualcosa. Le loro chiacchiere erano soltanto rumori sordi per le mie orecchie.

Venni inondata di acqua. Me la gettarono addosso con i secchi, come fossi un animale. Era gelida. Così gelida... Per un attimo pensai che mi stessero pungendo tutto il corpo con delle lame, ma non era così. Era l'acqua ghiacciata a darmi quella sensazione. Non riuscivo a respirare, mi sembrava di affogare. Tentavo di allontanarmi, ma qualcuno mi spintonava indietro se cercavo di scappare. Capii che la posizione migliore da assumere in quella situazione era supina, con la faccia rivolta verso terra e le ginocchia strette al petto. Una posizione fetale.

Quando finalmente terminarono di lavarmi, mi lasciarono in pace per un po'. Sentivo il sole cocente asciugarmi la pelle e la nave sotto di me dondolare dolcemente. Mi parve un'attesa infinitamente lunga.

«Bene, adesso portiamola dal Capitano.»

Mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono via. 

Il Tesoro del MareOnde as histórias ganham vida. Descobre agora