10. Autografo

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Katherine Gauthier si fermò a un paio di metri dalla porta, strinse la palla da baseball e dopo un po' di esitazione la infilò di nuovo nella tasca del camice.

Sarebbe tornata sui suoi passi, ma non poteva, perché aveva fatto una promessa. E per lei ogni promessa, anche quella più insignificante, era sacra. Si limitò quindi a ripercorrere solo pochi metri di corridoio, giusto il necessario per raggiungere il distributore delle bevande.

«È per una buona azione» si disse inserendo una moneta da un dollaro. Avrebbe pagato molto di più per evitare quella richiesta che la imbarazzava non poco. Lei che poi di baseball non capiva un accidenti. Lei che considerava i campioni sportivi una razza di ricchi arroganti e senza cervello. E quel Moore, da quanto aveva visto in televisione, non era certo il meglio della categoria. Ma come avrebbe potuto dire di no al piccolo Connor? E comunque ora non poteva certo tirarsi indietro.

Mescolò a lungo il caffè, così a lungo che lo mandò giù quasi freddo.

Quando con determinazione entrò nella stanza numero 10, John Moore sobbalzò.

«È già ora?» chiese pallido in viso.

Katherine si avvicinò con passo spedito e uno sguardo minaccioso verso il letto e tirò fuori dalla tasca la palla da baseball. O almeno ci provò perché la palla rimase impigliata nel bordo della tasca e non ne voleva sapere di uscire.

«Lei è John Moore, vero?» Chiese Katherine con un sorriso imbarazzato mentre cercava di separare la sfera dal camice.

John ridacchiò. «Sì, sono io, ma non si agiti, se no gliela dovranno estrarre in sala operatoria.»

Katherine ricambiò la battuta con una smorfia, diede un forte strattone che strappò parte della tasca e fece cadere la palla che, dopo un sordo rimbalzo, rotolò sotto il letto.

«Non ci posso credere...» sibilò a bassa voce.

John si tirò su e si mise comodo mentre Katherine, quasi sdraiata, cercava di far rotolare la sfera da sotto il letto, aiutandosi con uno zoccolo.

«Ok» disse a denti stretti dopo avere ripreso la palla e una posizione eretta. «Si sarà fatto una pessima idea della sottoscritta» aggiunse porgendogli il piccolo globo di pelle con un movimento secco. «Per cui le chiedo solo un autografo e sparirò alla velocità della luce.»

Si sarebbe seppellita sotto un metro di terra. Lui la scrutava con occhi scuri, curiosi e allo stesso tempo ingenui. Se lo era immaginato diverso, belloccio sì, come lo aveva visto qualche volta in tv, ma di quella bellezza antipatica di chi ha stampato in faccia la convinzione di avere sempre il diritto ai riflettori. Ma John Moore, con quel camice in polipropilene da pochi dollari addosso e quello sguardo da cane bastonato, ora aveva un'aria innocua.

«Posso sapere il suo nome?» le chiese.

«Connor.»

«Connor? Un nome un po' insolito per una donna.»

Katherine arrossì. «No, Connor è il nome del bambino che vorrebbe il suo autografo. Quando ha saputo che lei era qui non riuscivamo più a tenerlo fermo... e meno male che è bloccato a letto» aggiunse, lasciandosi scappare un sorriso.

«Povero Connor» ribatté John incrociando gli occhi carta da zucchero della giovane donna. Due pianeti di acqua tra una costellazione di lentiggini.

«Il mio nome è Katherine Gauthier, sto facendo la specializzazione in traumatologia infantile» fece lei allungando la mano per presentarsi. Si sentiva più rilassata.

«Quindi Connor non può muoversi?»

«No, è caduto da un albero mentre rincorreva il gatto e il ragazzino non è proprio... un tipo atletico.»

«E il gatto sta bene?»

«Meglio di tutti.»

John sorrise e osservò la palla.

«Le piace il baseball, dottoressa Gauthier? Posso chiamarla Katherine?»

«Certo.»

«Certo che le piace il baseball o che posso chiamarla Katherine?»

«Si offende se le dico che non sono mai riuscita a seguirlo per più di dieci minuti? Mio padre era un fan dei Blue Jays e ha provato più volte a spiegarmi come funziona, ma...» fece lei scuotendo la testa e arricciando il naso punteggiato da efelidi.

«No, non mi offendo, non è uno sport che piace a tutti. E poi questo vuol dire che posso chiamarla Katherine.»

Lei abbassò gli occhi imbarazzata.

John tornò ad osservare la palla. «Però non ho niente con cui scrivere.»

«Che stupida! Vado dalla caposala a chiedere se ci può prestare un pennarello» disse lei scattando verso la porta.

«Ho un'idea migliore. Domani non credo potrò alzarmi, ma il giorno successivo passo nel tuo reparto e firmo tutti gli autografi che vorranno quelle piccole pesti. Chiederò a Bernie, il mio procuratore, una borsa di palle nuove di zecca.»

«Sarebbe grandioso» esclamò la giovane dottoressa. «Allora la aspetto prima che la dimettano» aggiunse congedandosi con un sorriso. Un sorriso che le sparì subito dal volto.

«Le posso fare una domanda... personale?» domandò appoggiandosi allo stipite e mordendosi le labbra.

John annuì.

«È vero quello che dicono... i giornali?»

Moore deglutì squadrandola in modo sorpreso.

«No, scusi, sono una stupida. Non dovevo permettermi...» bofonchiò la ragazza, lasciando la presa sulla porta in evidente imbarazzo.

«Katherine, aspetta.»

Lei tornò ad affacciarsi alla stanza. Sentiva il calore propagarsi dalle gote alle punte delle orecchie.

«No, non è vero. I giornali dicono un mucchio di stupidate. E sai, sei la prima persona che mi ha fatto questa domanda da un mese a questa parte. Non me l'hanno fatta i miei genitori, forse sentendosi in colpa, non me l'ha fatta il mio procuratore... Bernie si preoccupa solo di quello che possono pensare gli sponsor... e neanche i miei amici più cari. Nessuno mi ha chiesto: "John ma davvero hai picchiato tua moglie?" Hanno deciso loro se fosse vero o no. Se mi dovevano perdonare o meno o più facilmente se potevano accettare la cosa. Dovevano solo capire come conviverci, magari sparlandomi alle spalle dopo avermi salutato. No, non ho mai alzato le mani su mia moglie... la mia futura ex moglie...»

Katherine annuì riconoscente. Le bastava. Ora era il suo interlocutore che aveva preso colore. Poi era impallidito di nuovo quando un infermiere era entrato nella stanza. Era lì per portarlo in sala operatoria.

«Grazie John, allora a presto» disse lei congedandosi.

«Se sopravvivo all'intervento» si schermì lui fissando l'infermiere.

«Sopravviverai» rispose lei con un sorriso «te lo prometto.»

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