D.

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Ho sempre odiato il buio. La sensazione di angoscia che ti toglie il fiato. L'istinto di correre verso l'interruttore più vicino per avere di nuovo sotto controllo il mondo intorno a te.
È ciò che sto provando a fare da circa mezzo minuto, accendere la luce del mio cervello e spegnere quella del mio cuore.
Eppure non ci riesco.
Due iridi verdi sono fisse su di me, le stesse iridi che un tempo rappresentavano il mio tutto. Adesso sono solo due iridi verdi. Bellissime ma non sono più le mie, perciò non contano nulla.

Muovo qualche passo all'interno del bar. È tutto come avevamo progettato insieme: uno stile moderno e ricercato.
Il bancone rigorosamente nero disposto sulla sinistra, i tavolini rotondi sull'altro lato della stanza, le pareti bianche, persino la macchinetta per il caffè era quella che avevo scelto io quasi un anno prima.
Ventisei.
Non era riuscito a modificare nemmeno il nome. Sorrido e vorrei distruggere tutto questo. Non è suo. È anche mio, almeno in parte.
Ventisei. Uno stupido numero che poteva cambiare.
Non dovrei stupirmi, è così tremendamente attaccato ai ricordi da avere come portachiavi quel panda scolorito.

Continuo a passeggiare, faccio come se lui non ci fosse. Ormai la sua presenza non mi fa né caldo né freddo.
Ho sofferto.
Ho metabolizzato.
Ho superato.
Ho raccolto tutta la merda che ci siamo lanciati addosso chiudendola a chiave nel mio cuore.
Ho incartato i ricordi belli con estrema cura ponendoli nell'angolo più nascosto della mia mente.
Ho ricominciato a vivere, senza di lui.
Era sempre stato un ossimoro, per me, accostare quelle due parole eppure si può vivere senza una persona.
È difficile, ti lacera l'anima, ma la vita è più forte dell'amore.
Si vive per amore, non si muore.

Però Ventisei non è il ricordo di un sentimento morto. È un obiettivo, un progetto diviso per due. È un legame che avevamo scelto di avere e che lui ha deciso di costruire senza di me.
Senza di noi.
Questo sarà sempre un ossimoro. Un'utopia.
Ventisei non doveva esistere. Non dovrebbe esistere. Non deve esistere.

So che mi sta guardando, lo straccio ancora tra le mani e la stessa espressione sconcertata dell'ultima volta che ci siamo visti.
Te la ricordi l'ultima volta? Io si.
Ho vomitato per giorni interi perdendo la cognizione del tempo. Continuava a mandarmi messaggi scrivendomi quattro parole:'Non ce la faccio.'
E lo capivo, perché non ci riuscivo neanche io. Aspettavo, inerme, che a quelle quattro fottute parole seguisse il nostro ossimoro, senza di te.
Non le ha mai scritte. Mai. Altrimenti io sarei tornato, mi conosco.
La mia dipendenza da lui era più forte del mio orgoglio e della mia dignità. Era un liquido letale iniettato nelle vene.
Faceva male stargli lontano, ma la dipendenza si cura con la mancanza.

Siamo sopravvissuti a noi stessi.
Io con 10 kg in meno e due tatuaggi nuovi sulla pelle.
Lui con, forse, 10 kg in meno e un bar che porta anche il mio nome. Un bar dove entreranno tante persone e gli chiederanno il perché.
Perché Ventisei? E lui dovrà parlare di me, di noi.
Di un qualcosa che non esiste. Che non deve esistere.
Di un qualcosa che nessuno dovrebbe conoscere, apparte noi.

Lo guardo negli occhi, di nuovo.
Sono sempre verdi, sempre impauriti, sempre incastonati sul suo viso.
Sempre lui. Questa era una certezza. E di una cosa certa non si dovrebbe mai parlare al passato, altrimenti era un abbaglio.

<<Mario.>>

<<Perché?>>

<<Lo sai, perché...>>

<<No, non lo so. >>

Destinati a finire.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora