3. Brother?

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People help the people.
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Avete mai provato quella brutta sensazione di tristezza? Non parlo di quella che si prova quando si perde il proprio cappello preferito, o quando il gelato che state mangiando vi cade sul suolo. No, io parlo di un altro tipo di tristezza. Quella tristezza che vi fa piangere la notte, che vi fa capire d'essere soli, quella sensazione che non vi toglierete mai di dosso, perché ormai lei fa parte di voi. Anzi, per essere più precisi, lei è voi.

Arrivo a casa dopo mezz'ora di ritardo ed un livido violaceo sullo zigomo. Bene. Ora dovrò solo far credere a mia madre d'essere caduta dalla bici che non ho.
«Finalmente sei tornata!» Urla mia madre, mentre io inizio a sbuffare.
«Si, esatto, sono tornata.»
«Fai meno la nervosa e siediti a tavola, è tutto pronto ed apparecchiato.» sorride lei, ma appena alzo lo sguardo il suo sorriso svanisce.
«Cosa è successo?» cerca di avvicinarsi, ma la spingo via.
«Niente. Sono solo caduta.»
«Caduta?» si avvicina nuovamente.
«Ho detto di sì. Ora fammi salire su, non ho fame.»
«Amber, stai bene, vero?»
«Va tutto alla grande, mamma! Ora fammi salire, per piacere.» rispondo più calma, ma nei suoi occhi continuo a scorgere dell'incertezza. «Sono solo caduta, ora però fammi salire.»
Annuisce, per poi tornare a sorridere.
«Quando hai fame scendi giù, ti lascio un po' pollo dentro il forno.»

Sospiro lentamente, per poi salire stanca le scale. Ma ad ogni scalino che supero, mi sento mancare le forze. Forse per la corsa avuta in precedenza, o per lo stress emotivo che ho in questo momento. Non so bene il perché, so solo che vorrei sdraiarmi sul mio letto e non dover mai più uscire di casa.

Apro con lentezza la porta della mia camera, non notando nulla di diverso. Sempre la solita stanza noiosa. Quando ci trasferimmo qui decisi di prendere tutti i mobili bianchi, sicura che avrei dato io colore alla stanza con poster e polaroid poste di qua e di là. Ricordo che quel giorno ero molto felice, saltellavo dalla gioia, credendo che avrei davvero reso la mia stanza un posto colorato. Un posto dove rifugiarsi quando tutti ti deridono. Un posto dove riprendere la proprio energia perduta. Ora è solo un posto dove trascorro la notte.

Guardo fuori la mia finestra, sorridendo al panorama che mi si presenta; avere la proprio stanza al secondo piano ha i suoi vantaggi. Ma ciò che mi occupa la mente ora è una capigliatura crespa e accattivante, con due occhioni castani pieni di confusione. Due occhioni che ho sempre amato, fin da quando ero ancora una bambina. Crescere assieme a Lorenzo non è mai stato molto facile, ma era davvero tanto divertente. Ricordo quando ero caduta dall'altalena, e lui era corso in mio aiuto.
«Un bacio può curarti, giusto?» mi aveva detto. Eravamo solo bambini, eppure ricordo benissimo cosa ho provato.  Non so se è mai stato davvero amore, o solo felicità nel sapere che tu mi avevi "salvato", ma ho comunque provato qualcosa di ormai sbagliato. Qualcosa che mi ero promessa di non riprovare mai più.

La suoneria del telefono ferma i miei pensieri. Chi cazzo sarà alle due del pomeriggio?
Guardo sul display e il nome Jack occupa tutto esso. Sorrido al solo pensiero che almeno qualcuno mi stia pensando.
«Jacky!» esalto.
Jack è praticamente come un fratello per me, anche se non di sangue. Ci vogliamo davvero tanto bene, pur non sentendoci sempre. Studia in un Università non molto lontana da San Francisco, ma comunque non vicina. Così ci vediamo poche volte, se non proprio per niente.
«Il soprannome Jacky fa schifo, dai Amber, da te mi aspettavo di più.» ridacchia il ragazzo dall'altro capo del telefono.
«Come va lì?» Chiedo cercando di non sfiorare per nulla al mondo il mio livido. Proprio per questo, credo io debba metterci su un po' di ghiaccio prima che possa diventare grande quanto il Massachusetts.

«Qui sono tutti dei figli di papà,  in più credo di stare antipatico a mezzo istituto, ma d'altronde il professor Anderson oggi non mi ha punito, per la prima volta in tutto l'anno! Ci credi?»
Rido alla sua affermazione.
«Spacca il culo a quei figli di papà, sono sicurissima che ce la farai anche senza sforzati.»

Jack è abbastanza bravo con la scuola. Non fa molta fatica a raggiungere ottimi voti, gli basta un ora di studio per saper già leggere il greco antico. Anche se visto per la prima volta, assomiglia tanto ad uno di quei giocatori di football del college.
«Ed invece a te come va? Recuperato il tre in fisica?» Chiede con tono pacato. Ah.
«Alla grande..» dico sarcastica. Incomincia a ridere, come se sapesse il mio rapporto con la fisica.
«Manca un anno e potrai uscire da quella gabbia di scimmie antropomorfe!» Mi incoraggia.
«Non voglio uscire da questa gabbia per entrare in un'altra gabbia. Non ha poi così tanto senso...» sussurro più a me stessa che a lui.

Ad un tratto, sento delle voci provenire dal piano inferiore. Tra le due riesco a distinguerne solo una: quella di mia madre, l'altra ha un tono di voce abbastanza basso.
«Jack, credo di star sentend-»
Il tintinnio che indica la fine della chiamata mi risuona nelle orecchie. Mi ha davvero riattaccato in faccia?

Vorrei richiamarlo e dirgliene di tutti i colori, ma in questo momento devo pensare a qualcos'altro. Sento dei passi e poi la porta della mia camera si apre, rivelando un imponente figura dai corti capelli mori.

❝Alone❞ ↬ Lorenzo OstuniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora