Capitolo 34 ✔

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Perciò lo allungo - il dito - e anche se solo idealmente i pensieri cadono, mi pare davvero di sentire soltanto silenzio nella testa, nient'altro che silenzio, pace e tranquillità.

«Ciao.» mi sorride di nuovo e quasi sto cominciando ad odiare questa sua smania di sorridermi ogni due secondi.

«Ciao.» la mia voce ora suona incerta, i ruoli si sono ribaltati e questo perché avevo perso la speranza che mi rivolgesse parola.

«Com'è andata a scuola?» che diavolo di domanda è? Alzo gli al cielo mentalmente, perché se il suo intento è quello di mettermi a mio agio, ha proprio sbagliato approccio.
Non mi piace si giri intorno agli argomenti per indorare la pillola, preferisco le persone dirette e schiette, senza scrupoli e peli sulla lingua.

«Bene - grazie, la prossima settimana ho un compito di storia abbastanza difficile» perché diavolo glielo sto dicendo?
Mi sento una vera stupida e più tesa di prima.
Voglio che vada dritto al punto, spiegandomi perché sia qui di fronte a me, e non che mi chieda come va a scuola - insomma, è palese che lo dica solo per creare un minimo di conversazione.

«Devi tornare a casa subito o puoi venire a fare un giro con me?» questa dovrebbe essere la parte - se ci trovassimo in un film - in cui sono una ragazza diciassettenne libera e indipendente, che - in quanto tale - non deve più ormai chiedere il permesso alla madre per uscire e che può ritirarsi all'ora che preferisce, senza avvisare nessuno, poiché tanto - sottolineo - essendo già diciassettenne non deve dar conto a nessuno, e non ha una madre e un fratello che  - a casa - si farebbero venire le palpitazioni non vedendola rincasare al solito orario.

Ma questa è la vita di Everthy Winter, una diciassettenne per niente libera e indipendente, che deve rincasare.

«Devo tornare a casa per studiare in realtà, sarà per un'altra volta.»

Non è nelle mie intenzioni risultare scontrosa e sbrigativa, ma probabilmente è questa l'impressione che do.
Cerco di non curarmene e gli volto le spalle, incamminandomi verso casa a passo svelto, sia perché è davvero tardi e comincio a sentire fame e sia perché non voglio dica altro che potrebbe mettere in difficoltà la mia volontà di non fare nulla di avventato.

Penso davvero che si sia arreso e sia tornato a casa e che quindi, quasi sicuramente, non lo rivedrò più, ma devo ricredermi quando sento un motore dietro di me, e con la coda dell'occhio, una macchina procedere a passo d'uomo accanto al marciapiede.

Tento di non voltarmi e continuare a fare finta di nulla, ma poi giro la testa incontrando il suo sguardo e sussulto d'istinto.

«Ti do un passaggio, sali dai.» insiste.

Si ferma appena mi blocco pure io, valutando tutti i pro e contro freneticamente.

Oh andiamo, puoi muovere quel culo e salire? Non aspetterà tutta la vita che tu faccia una lista mentale di vantaggi e svantaggi del prenderti un fottuto passaggio.

Sono sicura di avere la coscienza più stronza e acida del mondo. Mio malgrado, devo darle ragione e con un leggero cenno d'assenso, raggiungo la macchina.

Il solito odore di pulito mi colpisce subito, non appena mi appoggio riluttante al sediolino in pelle.

Mormoro un flebile «grazie.» e volto subito la testa verso il finestrino, per evitare di distrarmi a causa di profili di persone accanto a me.

Nessuno dei due fiata e non so se sentirmi sollevata o se interpretare questo silenzio come parole trattenute.

Il percorso è abbastanza breve da fare in macchina, perciò non mi meraviglio quando nemmeno dieci minuti dopo spinge leggermente il piede sul freno e mi ritrovo casa mia alla mia destra.
Sistemo lo zaino in spalla e mi giro per aprire la portiera dell'auto, indecisa se sporgermi per salutarlo o scendere dall'auto e basta.
Alla fine, mormoro un patetico e monotono ciao, del quale non sento la risposta.

» False Brother «Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora