***Capitolo 7: Quadri

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Il sole filtrava dal vetro polveroso della finestra del terzo piano, posandosi sulle travi della mansarda e illuminando i ritagli lucidi delle fotografie sulle pareti. La busta bianca sigillata che tenevo fra le mani era gonfia delle mie nuove fotografie sviluppate, appena ritirate dal negozio di Paul. Esitai prima di aprirla, consapevole di che cosa, e soprattutto di chi, avrei trovato in alcuni degli scatti.

Rimaneva vuota ancora una sola delle pareti. Dopo aver acceso la musica nel telefono, salii sopra la sedia e attaccai la prima foto, nel punto più alto.

Solitamente non seguivo un ordine, le posizionavo senza pensarci, come mi capitavano in mano, ma quel giorno decisi di fare una cosa diversa: scelsi di disporle nell'ordine in cui le avevo scattate.

La prima foto ritraeva una panoramica della stazione ferroviaria, come appariva appena ci sbucavi. Attaccai la seconda: i vagoni variopinti. Prosegui con il primo piano del disegno con l'aquila e il signore nascosto nell'ombra che la fissava. Un pilastro squadrato pieno di graffiti e poi finalmente la figura di Aron col volto nascosto nell'ombra, quando ancora era un'ossessione sconosciuta, intento a disegnare sul suo quaderno.

L'ultima era la foto del mio avambraccio con le scritte.

Mi sfiorai distrattamente la pelle, cercando di rievocare il fantasma delle sue mani alzarmi la felpa e marcarmi con l'inchiostro. Aprii gli occhi di scatto e mi affrettai a scendere dalla sedia.
Per un po' contemplai soddisfatta la mia opera, mentre nella stanza suonavano le note delle canzoni. Sospirai e mi accasciai a terra, appoggiando la testa su uno dei tanti cuscini.

Il cielo bruciava fuori dalla finestra sul tetto: l'azzurro stava scomparendo, lasciando spazio a colori più vivaci, rosso fuoco, rosa e arancione. Anche quel giorno stava giungendo al suo termine e quel giorno era precisamente il diciassette aprile.

Sentii contorcermi lo stomaco da una morsa di ansia al pensiero di quello che mi aspettava il giorno successivo. In realtà non avevo idea di cosa mi aspettasse e credevo fosse quello a rendermi così nervosa.

Eppure oltre all'ansia sentivo anche qualcos'altro: eccitazione forse, e qualcosa che somigliava alla gioia. Inutile negarlo: ero contenta di rivedere Aron...sempre che si fosse presentato.

***

La mattina successiva a scuola non riuscivo a rimanere concentrata. Le ore passavano con una lentezza impressionante, tanto che più volte mi chiesi se l'orologio sulla parete dietro la cattedra funzionasse ancora o se sul serio le lancette non si muovessero.

Fuori da scuola cercai di ascoltare Rose mentre mi raccontava della sua giornata, ma ad essere sincera non ricordavo una sola parola del suo discorso.

Camminai per le strade della città come avvolta in una bolla di intontimento e molle inconsapevolezza, tanto da rimanere sorpresa nel vedere la porta di casa davanti agli occhi. Non mi ero resa conto di essere già arrivata.

"Sono a casa!", urlai per poi buttare la borsa sul comodino all'entrata e togliermi le scarpe. Giunta in cucina fui avvolta dal profumo del cibo, ma nemmeno quello riuscì a smuovermi.

"Che c'è, tesoro? Non hai fame?", chiese mia madre, vedendomi punzecchiare il cibo nel piatto senza mangiarlo. La guardai e cercai di sorridere normalmente, ma ne uscì una specie di smorfia.

"Ho solo lo stomaco un po' chiuso, non so perché", la rassicurai. "Mangio più tardi quando mi viene fame, okay?"

Mi alzai sotto lo sguardo confuso dei miei genitori e dopo aver riposto il piatto in frigo, mi rifugiai nella mia stanza.

In realtà quella più confusa di tutti ero io: che stava succedendo? La mia reazione era esagerata. Dovevo solamente fare un'uscita amichevole con un ragazzo che avevo conosciuto un giorno in stazione.

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