7. Don't ask question, you don't wanna know

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Non c'è nessuno, non un rumore, non una luce.

Tiro ancora la maniglia ma questa non si muove. Studio quello che ho di fronte ma non vedo come potrei uscire, la serratura dall'interno non presenta alcuna chiave, l'unica spiegazione è che sia stata chiusa dall'esterno.

Ma perché? Chi l'ha chiusa non ha notato una lampada accesa, e magari anche me?

«C'è qualcuno?» Porto la voce il più lontano possibile, sbattendo con forza il palmi sul vetro della porta.

Nessuno risponde. Il corridoio è buio e deserto, da quanto posso vedere da qui dentro.

Controllo di nuovo l'ora sullo schermo. È mezzanotte passata, non c'è possibilità che qualcuno sia in giro a quest'ora.

Do altri colpi con le mani, non arrendendomi. Qualcuno dovrà pur sentirmi, non posso essere l'unica qua dentro.

Il mio corpo si blocca, fermando i pugni a qualche centimetro dal vetro, impedendo alle mani di colpirlo ancora, e il fiato lo segue.

«Non è sicuro stare qui» mi riverbera nella mente come se lui fosse di nuovo dietro di me a sussurrarmelo all'orecchio. Se ci penso, posso quasi sentire ancora il suo fiato caldo sulla nuca e quel profumo speziato intorno a me.

Le braccia mi si riempiono di brividi e devo controllare il respiro per uscire dall'apnea in cui sono caduta.

I passi dietro di me quella notte, l'ansia spropositata che avevo, come se inconsciamente sapessi che ci fosse un pericolo.
La strana sensazione che dovrei ascoltare le parole dello sconosciuto...

Altri brividi.

E se me l'avesse detto per farmi paura? No, non può essere. Non mi avrebbe salvata se avesse voluto spaventarmi, e poi, quella non sembrava affatto una frase messa lì per caso.

Voleva che non corressi un pericolo del genere. Ma quale?

Mi allontano dalla porta camminando all'indietro. Devo trovare un'altra uscita.

Studio circospetta lo spazio attorno a me, e nonostante il buio sono convinta di non vedere alcun'altra porta.

«Cazzo.»

Inizio a camminare per il perimetro della stanza, puntando la torcia sui muri per scovare una finestra, o magari un'uscita di sicurezza, ma non c'è nulla se non scaffali e libri.

«Una piantina» mi viene in mente quando lo sguardo mi cade su un atlante impilato sul carrello porta libri. Per legge dovrebbe esserci una piantina degli spazi in ogni aula, quindi, in teoria, dovrebbe esserci anche qua.

Arrivo dietro il banco della bibliotecaria, una scrivania in legno massiccio con sopra di tutto e di più, aprendo i cassetti laterali e richiudendoli con un gesto secco della mano. Non trovo nulla se non fogli bianchi, penne e ricevute di ogni genere.

Un paio di occhiali senza lenti è nascosto sotto a delle scartoffie, e un pacchetto di gomme da masticare vuoto è aperto alla buona affianco a questi.

È un caos unico, nemmeno io potrei essere disordinata a tale punto.

«Dove sarei se fossi una planimetria» penso ad alta voce spostando la testa da sinistra a destra freneticamente. Ho il battito lievemente accelerato per l'agitazione, mentre lo stomaco mi si stringe e si distende a ripetizione a causa dell'agitazione che mi scorre nelle vene.

Mi sento come se stessi scappando da qualcosa. La sensazione di paura che mi attanaglia le viscere e mi secca la gola è quasi inebriante, eccitante. È la stessa sensazione che prova un bambino a giocare a nascondino.

Cast Gold. Follow the rules.Where stories live. Discover now