Lucilla - Un macchinario rotto - 1/2

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Un passo dopo l'altro mi allontano dal lago.

Il cielo sopra di me, denso di nuvole perlacee, sembra poter trattenere la scarica di pioggia invernale ancora per un po'. Devo essere veloce o arriverò a destinazione con i vestiti bagnati e non credo che avrò la possibilità di scaldarmi.

L'idea del freddo è in grado di farmi venire i brividi più della sensazione del freddo vera e propria, come in una sorta di anticipazione che il mio cervello si diverte a costruire. Odio l'inverno ma non amo nemmeno l'estate. Forse il paradiso, se esiste davvero, è un eterno settembre.

Ho detto a mia madre che oggi sarei passata in farmacia a ritirare le medicine per papà e che poi avrei coperto il turno serale al Cigno Nero. In realtà ho chiesto a Elijah di restare fino alla chiusura del pub. È un buon amico di papà, si conoscono dai tempi dell'Accademia. Quando gli ho detto che serviva un turno extra perché le sue condizioni si sono aggravate e Leonard non è ancora stato dimesso dall'ospedale, non ha battuto ciglio.

«Certo, piccoletta, per voi questo e altro» ha detto con voce commossa.

Gli occhi gli si sono velati di lacrime mentre asciugava un boccale di birra. Io, bugiarda fino al midollo, l'ho guardato dall'altra parte del bancone e ho sorriso debolmente.

«Grazie» ho sputato poi a mezza voce.

Che codarda. Avrei voluto provare qualcosa per le motivazioni a sostegno della mia bugia: un senso di vaga preoccupazione per mio fratello, o la disperazione atroce per le sorti di mio padre. Ma la verità è che sono diventata una sorta di macchinario rotto. Spento, inutilizzabile, quando tutti vorrebbero che portasse a termine il compito prestabilito. Allora faccio finta di funzionare, ma non sempre mi viene bene.

Quando sono da sola, come adesso, smetto di recitare. Anche questo ha un costo, ovviamente, e non sempre sono disposta a pagarlo.

Sento il cuore accelerare i battiti, ho aumentato il passo e il terreno sotto i miei piedi è più scivoloso a causa del fango e delle foglie secche. La mano si infila nella tasca della giacca nera che ho rubato dall'armadio di Leonard in un'altra ondata di rabbia che mi ha assalito in questi giorni. Ho strappato le pagine del suo libro preferito, il Necronomicon di Lovecraft. Ho nascosto il vinile dei Nirvana sotto il mio letto e spezzato il plettro portafortuna.

Non m'importa più niente di lui. Deve soffrire, come ha fatto soffrire me e presto dovrà parlare e dirmi tutto delle sue vere intenzioni su Nina.

Le dita tremanti fanno fatica ad aprire il biglietto che Elliot Black mi ha consegnato nel corridoio dell'Accademia, prima della spedizione di ricerca.

Allargo il palmo della mano e prima ancora di concentrarmi sento il potere Shizen attivarsi: succede sempre in ambienti così umidi come questo, specie quando sono vicina al lago. La sua acqua è stata la prima su cui ho provato il potere e ancora oggi è come se avessimo un legame particolare.

È passato solo un anno da quando Leonard mi ha convinto a risvegliarlo; prima il tutto sembrava una favola lontana e affascinante. Papà mi raccontava spesso la storia di Omega anche se era perlopiù sui dettagli della fazione Shizen che si concentrava la mia attenzione. Alla mente è sempre piaciuto adagiarsi sull'idea che da qualche parte dentro di me un potere sconosciuto dormisse indisturbato.

«È dentro le cellule, nel DNA che ti ho trasmesso: è come una specie di virus che può attivarsi solo con un rituale preciso».

Le parole di papà mi facevano sentire speciale. Passeggiavamo spesso nel bosco attorno al lago; le nostre attività preferite erano catalogare le foglie degli alberi e mantenere i sentieri puliti, così da evitare incidenti a chi si sarebbe messo in cammino dopo di noi. D'estate, invece, andavamo in cerca di more.

Light Academy - L'accademia di luceWhere stories live. Discover now