Zoe - Interludio I - 1/2

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Guardo la tua foto per un tempo lunghissimo e non riesco a crederci: sei tu, Theo

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Guardo la tua foto per un tempo lunghissimo e non riesco a crederci: sei tu, Theo.

C'è così tanto di te in Nina e io, forse per allontanarmi o per cercare di dimenticarti, l'ho sempre ignorato. Ma adesso che uno sprazzo della tua adolescenza è impresso su questa immagine non posso fare a meno di pensarci: è stupido, lo so, ma anche tu hai avuto quindici anni.

Resto immobile, un peso strano mi opprime il torace. Sbatto le palpebre, gli occhi ostinati si riaprono alla prima volta in cui si sono posati su di te. Non è tanto la memoria visiva a infiltrarsi in questi miei pensieri a spirale, quanto il ricordo della pioggia ostinata a Tokyo. Era il 15 novembre del 2006. Quanto veloci sono stati questi sedici anni?

Quel giorno hai aperto la porta di scatto, una reazione istintiva ma decifrabile, considerato il mio indice premuto a lungo sul campanello dell'interno 103, una porta dopo la mia. Ho superato il ballatoio con passi incerti, schiacciata dal peso del pacco consegnato dal corriere con fare nevrotico, anche lui innervosito dallo scroscio continuo dell'acqua e nessuna possibilità di riparo.

Ho realizzato troppo tardi di aver lasciato le chiavi dentro la mia stanza. Quando sono tornata al terzo piano, il vento della tormenta ha fatto il resto. Ingresso chiuso, chiavi dentro e nessuna conoscenza del giapponese. Il panico ha avuto la meglio e attaccarmi al campanello del tuo appartamento mi è sembrata la cosa migliore da fare.

L'unica, forse.

Ora sono di fronte a te: il petto si alza e abbassa a ritmo concitato, fare le scale con le braccia strette attorno al pacco più importante e pesante della mia vita mi ha resa ancora più goffa di quanto non sia già.

«Ho lasciato le chiavi dentro la mia stanza» dico in un rantolo.

Vorrei essere meno drammatica ma non ci riesco. In realtà sono felice che il pacco sia arrivato; lo stringo ancora di più contro il petto, non voglio che l'angoscia di essere rimasta bloccata fuori dal mio stesso appartamento cancelli la soddisfazione di averlo ricevuto. Sento il cartone bagnato piegarsi appena sotto le dita.

«Abiti qui vicino?» mi chiedi in un inglese perfetto, condito da un accento curioso, che addolcisce alcuni suoni e ne rafforza altri. È da un po' di giorni che ti ho sentito parlare al telefono. D'altronde qui i muri sembrano fatti dello stesso cartone sgualcito che ho tra le mani. Realizzo che è per questo che ho premuto l'indice sul campanello del tuo alloggio: non sei solo il mio vicino, sai parlare la mia stessa lingua e per una come me, che in dieci giorni a Tokyo ha solo imparato a farfugliare a mezza voce arigato e sumimasen ai commessi del conbini, questo dettaglio vuol dire casa.

Sicurezza.

«Sì, al 102, sono arrivata a inizio novembre» rispondo, cercando di recuperare un po' di fiato e di salvare quel che è rimasto della mia reputazione.

«Capisco» mi dici in tono lapidario. Forse non c'è più nulla da mettere in salvo qui.

Gli occhi grandi e dal taglio all'ingiù studiano il modo in cui stringo la scatola contro il petto.

«Sai come funziona in questi casi?» chiedo, mentre anche il mio sguardo si prende il diritto di osservarti meglio.

Sei alto, longilineo. Un accenno di rughe rende la tua espressione concentrata ancora più corrucciata di quanto non lo sia davvero. Spigoloso è l'aggettivo che mi verrebbe in mente se mi chiedessero di descriverti. Ti vesti bene: il maglione verde scuro di lana merino è spalmato su larghi pantaloni in tweed grigio. C'è un contrasto anomalo che emana la tua aurea: sei maturo, molto più di me, ma anche spaesato. Smarrito, ma senza che questo ti faccia paura.

Scuoti la testa, un mezzo sorriso compare sulle labbra sottili e illumina il tuo volto in un modo inaspettato. Piacevole, quasi.

«No, ma magari possiamo scoprirlo davanti una bella tazza di tè».

Sbatto le palpebre più volte, sorpresa. Fra tutte le risposte che avresti potuto darmi, questa è davvero la più pericolosa. Affilo lo sguardo, torno sulla difensiva, mentre lancio una breve occhiata alla stanza alle tue spalle. Magari è così che approcci tutte le ragazze: le convinci a entrare nel tuo appartamento con queste insignificanti premesse. Che cosa sarà mai, un'innocua tazza di tè?

Faccio un passo indietro, è breve, ma non passa inosservato. Sollevi una mano davanti la mia faccia, poi scuoti la testa imbarazzato.

«Scusami, è che sono le quattro del pomeriggio e certe abitudini sono dure a morire».

«Inglese?» chiedo a mezza voce.

Faccio finta di leggere l'etichetta stampata sul cartone, anche se è tutta in giapponese e le uniche lettere in alfabeto romanico sono proprio quelle che indicano il mio nome: dottoressa Zoe Elisabeth Harper.

«Scozzese».

Mi correggi come se ti avessi appena insultato e forse è stato davvero così.

«Capisco» mormoro usando il tuo stesso tono e guardandoti di sottecchi. Sembri apprezzare questa risposta, ma non so ancora se hai colto l'umorismo.

«Sono Theodor, comunque, ma puoi chiamarmi Theo».

«Zoe» replico veloce, quasi interrompendo la tua presentazione.

«Fa davvero freddo oggi» aggiungi, mentre ti allunghi verso di me per farti carico del pacco.

«Vieni, entra. Chiameremo il responsabile del residence per chiedere se hanno un passe-partout».

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