6. Una Mamma Per Amica 2.0 - Joanne

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𝄞 Talking to the Moon – Daniel Jang

«Com'è andato l'ultimo esame?» domandò mia madre attraverso il telefono.
«Bene», risposi in fretta. Non avevo intenzione di parlarle delle mie difficoltà. Mi concentravo talmente tanto sulla tecnica che alla fine perdevo di vista il resto e, come aveva suggerito Mr. Smith, se non riuscivo a intrattenere un vecchio, come avrei fatto col mondo intero? Fuori di lì sarei stata solo una delle tante brave ma non troppo e la cosa non mi stava bene per niente. Non mi bastava l'ipocrisia del poco ma buono. Io volevo tutto o niente.
Per fortuna mia madre aveva talmente tante cose cui pensare da non prestare caso alle mie risposte sintetiche. «Hai intenzione di venire a trovarmi questo fine settimana?»
«Forse, non lo so», risposi incerta. Non era bello passare del tempo da sola con lei, non faceva altro che farmi pesare il fatto che mi aveva cresciuta da sola, perciò preferivo starle lontana. Le telefonate duravano poco e potevamo fingere di essere l'emblema del rapporto tra madre e figlia, praticamente una mamma per amica 2.0.
«Non ci vediamo dall'inizio dei corsi», mi ricordò lei. «E sto a Brooklyn, non in una cittadina sperduta nel culo dell'Amazzonia.»
Avrei voluto farle notare che la strada era uguale anche se fatta al contrario, e che avrebbe potuto benissimo prendere la sua piccola automobile e raggiungermi per un pranzo, mentre io dovevo farmi accompagnare da Karter o, in alternativa, utilizzare i trasporti pubblici.
Non lo dissi.
Io ero la figlia e lei la madre, quindi in termini di rispetto, del suo rispetto, dovevo essere io ad andare da lei. «Penso di potercela fare questo sabato dopo il lavoro», la informai senza entusiasmo.
«Perfetto!» esclamò.
Non mi aspettavo che mi dicesse di riposarmi e di farmi il viaggio domenica mattina. Per lei, non avendo avuto un figlio al liceo, non ero sufficientemente stanca.
«Perfetto», rimarcai infilandomi lo zaino in spalla.
«Ci vediamo, piccoletta», interruppe la telefonata senza attendere risposta e io gliene fui grata.
Sgusciai fuori dalla mia camera e, come se non bastasse la telefonata, mi imbattei in Parker Baine e ci mancò poco che finissi gambe all'aria.
«Rossa, hai idea di quanto costino le scarpe che mi hai appena calpestato?» grugnì il biondo, guardandomi dal basso verso l'alto.
Non risposi, non avevo voglia di discutere con lui. Non capivo per quale ragione me lo ritrovassi sempre in mezzo, da qualche tempo. Non abitava al residence e poteva darsi appuntamento con Karter anche fuori di lì; quindi, l'unica soluzione che mi veniva in mente è che stesse cercando di marcare il territorio. Un territorio che non gli apparteneva e che impregnava con il suo profumo da riccone. A Parker piaceva ostentare quello che possedeva ed era davvero irritante.
«Joanne che non risponde per le rime...» sentii la voce di Karter dietro di me. Era appena uscito dalla sua stanza che stava proprio di fronte alla mia. «Ha ricevuto la telefonata!» concluse raccogliendo il mio zaino che era finito a terra durante lo scontro con Parker.
«Già», mormorai infilando le braccia dentro gli spallacci.
«La telefonata?» cercò di capire Parker.
Io e Karter rispondemmo all'unisono.
«Mia madre.»
«Sua madre.» Poi lui aggiunse: «Che vuole stavolta?»
«Vuole che vada a trovarla, questo weekend», sibilai con una smorfia.
«Mi sembra un'ottima idea», si intromise Parker, camminando dietro me e Karter.
Arrestai il passo e mi voltai a guardarlo. Ci mancava poco che riuscissi a fare un giro completo del collo a mo' di esorcista. «Stai cercando di liberarti di me?»
«A dire il vero è tua madre che ti reclama. Io sto solo dicendo che è una cosa buona.» Fece spallucce. «Una cosa buona per me.»
«Ti accompagno io», mi assicurò Karter, prendendomi una mano.
«Cosa?» strillò Parker, stringendo il braccio di Karter con forza. «Io avevo intenzione di uscire insieme e...» si bloccò, assumendo il colorito di un camaleonte rosso del Madasgar. Le sue intenzioni non erano poi così indecifrabili, data la sua reazione.
«E?» incalzò Karter.
«E niente: uscire, fare le cose che fanno i ragazzi della nostra età.»
Karter ghignò: «Tutte le cose?»
Parker annuì. «Possiamo andare a scolarci un po' di roba, se preferisci.»
«Non era a quello che mi riferivo.» Karter gli dedicò un'occhiata ammiccante. Quindi, si rivolse a me. «Immagino che partirai dopo il lavoro, no?»
Annuii.
«Abbiamo fino a mezzanotte», informò il biondino.
«Come Cenerentola», borbottò quest'ultimo, in risposta.
Karter allargò un sorriso innocente: «Non posso lasciarla andare da sola», spiegò. «E neanche voglio, in realtà.»
Sorrisi e mi tuffai su di lui, letteralmente.
Karter rischiò di perdere l'equilibrio ma era così abituato ai miei attacchi improvvisi che riuscì comunque a restare in piedi e a circondarmi con le sue braccia. «Prima o poi finiremo col culo a terra», mormorò sulla mia spalla, tra una risata e l'altra.
«Sembri suo padre» bofonchiò Parker. «E lei una piovra assassina», mi insultò, guardandomi con disgusto. «Il colore dei suoi capelli fa male agli occhi; ma come fai a starle sempre così vicino?»
Karter rise. «Ci sono abituato. Ormai è dal primo anno di asilo che questi ricci mi incendiano le iridi.»
Io indirizzai un dito medio a Parker e continuai a stritolare il mio amico con gambe e braccia. Era chiaramente invidia, la sua, e non mi importava che fosse il possibile amore shakespeariano di Karter; se voleva stare con lui, doveva accettare il compromesso della mia esistenza e non sembrava riuscirci molto bene.
«Avete idea di quante persone vi stiano guardando, in questo momento?» grugnì Parker.
Karter mi spostò la massa di ricci e sorrise a un gruppo di ragazze che si erano fermate a poca distanza da noi, parlottando in tono sommesso. «Che guardino! Sono nato per essere ammirato, d'altronde», disse dandomi uno scappellotto sul sedere, dove aveva ancorato le mani per sostenermi.
Parker strinse i pugni lungo i fianchi. «State dando uno spettacolino indecente», scattò, andandosene.
«Parker!» lo chiamò Karter, ma il biondo non si voltò.
«Penso sia geloso», mormorai scivolando via dal corpo del mio amico.
«Lo penso anche io», concordò con me. «Solo che non ha motivo di esserlo.» Mi lasciò un bacio sulla fronte e seguì il ragazzo a grandi falcate, lasciandomi sola.
Rimasi a fissare il cemento per un tempo indefinito. Fare quel percorso senza Karter al mio fianco non era così complicato di solito. Ma farlo con la consapevolezza che stesse correndo da lui, beh quella era tutta un'altra storia.
«Young!» una voce mi giunse alle spalle. Una voce che non avevo piacere di sentire. Keaton Allen stava correndo verso di me.
«Per quale ragione mi stai parlando?» domandai glaciale.
Keaton mi afferrò una mano. «Ho visto il tuo amico correre in direzione di Baine. Allora è frocio davvero!»
Io la ritrassi senza esitazioni e lo guardai in cagnesco. «E tu sei un coglione, davvero!» replicai infastidita.
Mi piazzò entrambe le mani sui fianchi e mi attirò a sé. «Lo sono stato a lasciarti andare.» Nel suo sguardo notai la sincerità di quelle parole e ne fui devastata. Preferivo che fosse un bugiardo, oltre a uno stupido idiota.
Le dita di Keaton finirono sulla mia schiena. «Mi dispiace per come sono andate le cose. Non volevo lasciarti e solo che è insopportabile, vedervi insieme. I tuoi occhi si accendono, quando lui entra in una stanza; mi sentivo minacciato dalla vostra amicizia. E, cavolo, puoi biasimarmi per aver dato di matto trovando le sue mutande nel tuo letto?»
Rimasi a rifletterci qualche istante. Era così che si sentiva Parker? Mi vedeva come una minaccia?
Keaton prese a giocare con un ricciolo ribelle e mi sollevò il mento con due dita. I suoi occhi verdi erano dolci e affettuosi. «Vorrei solo un'altra possibilità.»
Fu insopportabile sentire quella richiesta e ritrovarmi a pochi centimetri dalla sua bocca mi fece ribrezzo. Mi piaceva Keaton. Era un bel ragazzo e, a discapito di quello che pensava Karter su di lui, era anche dolce e, se si impegnava, riusciva anche a diventare simpatico. Solo che il pensiero di Karter era diventato mio e io non riuscivo più a filtrare quello che provavo, senza chiedermi cosa avrebbe fatto lui.
«No.»
Keaton allargò gli occhi e le iridi diventarono ancora più verdi. «No?»
Mi ricordai all'improvviso cosa mi avesse spinto a uscire con lui, ma i suoi occhi non erano abbastanza. «No, mi dispiace. Non siamo in sintonia e...»
«E Karter ti piace di più di quanto ti sia mai piaciuto io», mi interruppe.
«Siamo solo amici, ne hai avuto la prova.»
«Da parte sua», replicò senza umorismo. «Ma se preferisci continua a raccontarti questa stupida favoletta a cui credi solo tu e, forse, quell'idiota del tuo amico coreano!»
«Karter è americano quanto te!» sbottai severa.
Keaton emise un ringhio basso e si staccò bruscamente da me. «Se ci ripensi, fammelo sapere.»
Restai attonita davanti all'entrata della Juilliard mentre lui mi sfilava davanti con la sua camminata aggraziata da ballerino e sorrideva ad alcuni compagni di corso che lo seguirono dentro.
Io, per essere sempre in linea con la mia natura goffa, li seguì e quasi mi ritrovai con il naso rotto dalla porta che si richiudeva. Quella giornata era iniziata nel peggiore dei modi e pensare che mancavano ancora dodici ore, e forse di più, alla sua fine.

Firts Girly LoveWhere stories live. Discover now