PROLOGO

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Milano

Maggio 2015

Stefano mandò giù un sorso di caffè dal bicchierino di plastica monouso, mentre seguiva con lo sguardo i numeri luminosi che indicavano il piano, sul display nella parete, a mano a mano che l'ascensore saliva. A destra e a sinistra le pareti erano di un vetro immacolato, tanto che avrebbe potuto usarle come uno specchio e darsi una controllata, se non fosse già stato certo di non averne bisogno. Alle sue spalle, una terza parete trasparente mostrava il parcheggio alberato ai piedi dell'edificio, in basso, gli altri due grattacieli che lo affiancavano e sullo sfondo Milano, avvolta in una lieve, morbida foschia.

A Stefano, però, il panorama interessava poco, innanzitutto perché lavorava in quel grattacielo da due anni e ormai la vista aveva smesso di stupirlo, ma anche perché tendeva a evitare le distrazioni. La sua mente girava in continuazione, simile a una di quelle ruote per i porcellini d'India, come diceva a volte sua moglie per prenderlo in giro. Aveva delineato una scaletta precisa della giornata già quella mattina presto, durante il footing al parco, come ogni giorno alle sei. In verità, nel suo lavoro non sempre scorreva tutto liscio e regolare. Anzi, quasi mai. Gli imprevisti si verificavano praticamente ogni giorno e fare programmi era molto difficile, ma Stefano calcolava anche quelli e raramente lo coglievano di sorpresa. Se non ne fosse stato capace, dopotutto, non avrebbe mai lavorato in quel grattacielo.

L'ascensore iniziò a rallentare piano e si fermò con un morbido strattone. Stefano si sistemò meglio sulla spalla lo zainetto nero di Armani e abbassò per un attimo lo sguardo sui gemelli d'argento smaltati d'azzurro. Erano abbinati alla camicia azzurro chiaro e davano un tocco di luce al completo blu scuro che indossava. Si udì un suono lieve, poi una fredda voce femminile annunciò: «Settantacinquesimo piano». La porta automatica dell'ascensore si aprì, scivolando dolcemente e silenziosamente, su uno spazio già occupato da diverse persone in attesa. Sebbene fossero appena le otto del mattino, lì dentro erano già tutti in piena attività. Sulla destra c'era un altro ascensore.

La maggior parte degli uomini e delle donne, tutti in completo elegante, salutò Stefano con cordialità, qualcuno con un semplice «Ciao, Stefano», altri con un più formale «Buongiorno, dottor Ruggero» o un cenno del capo. Lui rispose a tutti con un sorriso e batté con la mano sulla spalla di un collega mentre fendeva la piccola folla con passo sicuro e rapido. Passò accanto a una signora sulla quarantina in tailleur pantalone verde scuro che nel vederselo davanti spalancò gli occhi, poi sollevò una mano per sistemarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e si girò un po', cercando di seguirlo con lo sguardo senza attirare l'attenzione. Stefano se ne accorse a malapena.

Attraversò il pianerottolo, dalle pareti trasparenti come quelle dell'ascensore e il pavimento di marmo candido, e imboccò il corridoio di fronte a sé. Sbucò in un vasto open space affollato di persone che parlavano e camminavano rapidamente, invaso da un chiacchiericcio simile a un rombo costante, dal suono di telefoni che squillavano e dal ronzio di stampanti in funzione. Lo spazio era suddiviso in cubicoli dalle pareti di plexiglass, ciascuno dotato di una scrivania e di un computer, che a Stefano facevano sempre venire in mente le cellette di un alveare fremente di attività. In un angolo due donne e un uomo discutevano con voce sommessa, passandosi una cartellina con dei documenti pieni di numeri. Poco più avanti un uomo sbraitava contro qualcuno nelle cuffie wireless e senza interrompere la tirata fece un gesto di saluto verso Stefano che gli passava accanto.

Al di là dell'open space, un enorme tavolo ovale accoglieva venti postazioni computer, ciascuna occupata da un impiegato con grosse cuffie sulla testa e un'espressione assorta e concentrata. Televisori ultrapiatti fissati alle pareti trasmettevano senza interruzione notiziari economici o mostravano l'andamento delle Borse e ogni tanto, in mezzo ai telefoni che squillavano e ai discorsi che si intrecciavano, un'esclamazione si levava più netta al di sopra del brusio, quasi subito coperta da un'altra.

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