8.2 Bancarotta

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Rachel

Lasciai il condominio e cominciai a camminare più veloce che potevo. Ad un tratto una macchina mi affiancò e rallentò, abbassando il finestrino. Mi strinsi nel giubbotto e girai la testa dall'altra parte dato che odiavo quelle cose. Mi portavano alla mente fin troppi brutti ricordi.

«Hey Cross, ti serve un passaggio?» la voce era allegra anche se leggermente tesa. In ogni caso, la riconobbi in fretta, senza nemmeno la necessità di girarmi.

«Zack?! Tu che ci fai qui, mi segui per caso?» chiesi un poco in agitazione. Lui inarcò le sopracciglia.

«In realtà sto semplicemente andando al Mexican dato che la festa l'hanno annullata, ma immagino che abbiamo la stessa meta» rispose tranquillo. Odiavo doverlo ammettere, ma un passaggio in quel momento mi era non solo comodo, ma anche estremamente necessario. Salii silenziosamente sul veicolo, misi la cintura e fissai lo sguardo difronte a me.

«Vai più veloce che puoi, devo cominciare fra sette minuti» affermai a mezza voce. Lo notai afferrare saldamente il volante e il cambio, assumendo un atteggiamento davvero serio forse per a prima volta da quando lo avevo conosciuto.

«Posso portartici in cinque» ribatté sicuro come non lo avevo mai sentito. Quelle furono le ultime parole che vennero pronunciate per tutto il viaggio. O almeno, furono sicuramente le ultime che io sentii.

Frenò di fronte al locale con una sgommata.

«Grazie» dissi aprendo la portiera e cominciando a scendere ancora prima che si fosse fermato del tutto, rischiando di perdere l'equilibrio. Fui nello spogliatoio esattamente in orario, ma comunque Maurice non perse l'occasione per lanciarmi un'occhiataccia. Dal canto mio, ero talmente agitata che continuavo a sbuffare per ogni singola cosa.

Appena mi fui cambiata, presi penna e taccuino e da lì cominciò lamia solita routine. Mi aggiravo tra i tavoli facendo le stesse domande e ripetendo le stesse frasi ancora e ancora per tutta la sera.

«Woody, stai bene?» chiese una voce interessata con un inconfondibile accento inglese che mi convinse ad alzare lo sguardo stupita.

«Oh, Aaron, scusami, non ti avevo proprio visto!» esclamai, affrettandomi a porgergli le mie scuse. Lui sorrise ancora prima che io avessi finito di parlare, come a rassicurarmi e dirmi che non era successo nulla di grave. Ricambiai il sorriso seppur solo per qualche secondo.

«Il capo è nello stanzino, nel caso tu voglia parlarci» lo informai trascrivendo sul taccuino delle ordinazioni il taco menù che aveva indicato sulla carta. Sparii in cucina senza aggiungere altro e ripresi poi in discorso non appena gli portai la cena.

«Se vuoi puoi provare a chiedere i turni con i miei oppure no, ma ti conviene parlarci fino a che è di buon umore» lo avvertii di sfuggita alzando il volume mano a mano che mi allontanavo dal suo tavolo. Per tutto il tempo, Aaron non aveva fatto altro che fissarmi con la tipica espressione di chi ha di fronte a sé una pazza psicopatica.

«Crosswood» mi sento salutare mentre sto camminando vicino al tavolo dell'inglese. Ho riconosciuto la voce spensierata e la sua presenza qui mi tediò alquanto. Mi aveva appena accompagnata, sapevo che sarebbe entrato, eppure avevo già delettato del tutto la sua presenza. Serrai gli occhi ed i denti, sbuffando lentamente dalle narici.

«E Aaron» commentò, riconoscevo bene quel tono e non lo sopportavo. «Pensavi di venire a lavorare qui, ragazzino?» domandò con fin troppa insolenza, prendendo rumorosamente posto di fronte a lui. Il mio amico sembrava tutt'altro che a disagio, nonostante un semi-sconosciuto si stesse interessando alla sua vita privata e lo stesse trattando con superiorità. Si limitò a sorridere gentile sistemandosi meglio sulla sedia mentre io lo squadravo alla ricerca di qualche segno di nervosismo, anche il più piccolo. Lui però sene stava lì, rilassato, i gomiti appoggiati sul tavolo rotondo, le gambe incrociate sotto la sedia ed il busto proteso in avanti. Era perfettamente a suo agio, da buon estroverso quale era.

Together RebornWhere stories live. Discover now