𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 36 (Arya)

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"𝔓𝔬𝔠𝔥𝔢 𝔠𝔬𝔰𝔢 𝔣𝔢𝔯𝔦𝔰𝔠𝔬𝔫𝔬𝔭𝔦𝔲̀ 𝔡𝔢𝔩𝔩'𝔞𝔪𝔬𝔯𝔢"

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"𝔓𝔬𝔠𝔥𝔢 𝔠𝔬𝔰𝔢 𝔣𝔢𝔯𝔦𝔰𝔠𝔬𝔫𝔬
𝔭𝔦𝔲̀ 𝔡𝔢𝔩𝔩'𝔞𝔪𝔬𝔯𝔢"

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Ondate di calore mi investivano il viso, mentre osservavo le fiamme che danzavano nella notte. I miei fratelli stavano discutendo attorno al falò. Tre, Quattro e Cinque litigavano sulla cottura dei dolcetti gommosi dal nome strano, mentre Due cercava di riappacificarli e Otto li fissava come se fossero gli esseri più stupidi del mondo.

Forse lo erano, non potevo saperlo. Il mondo non l'avevo mai visto.

Sette sonnecchiava appoggiata alla mia spalla, i suoi capelli biondi che mi solleticavano la pelle. Mi facevano venire da starnutire, ma non volevo disturbarla.

Uno era seduto vicino a Sei, che strappava ciuffetti d'erba dal terreno. Sembrava imbronciato, il fuoco che gli gettava un alone cupo sul viso. A lui quei dolcetti che si appiccicavano ai denti proprio non piacevano, e neanche gli insetti fastidiosi che infestavano l'aria. In realtà, avevo l'impressione che non sopportasse quelle uscite in generale, nonostante si ostinasse ad accompagnarci comunque.

Io le adoravo, invece. Era bello poter ammirare quei puntini luminosi, che avevo imparato che si chiamassero stelle, e quella palla oggi cicciottella che era la luna. Avevo notato che cambiava forma, anche se non ne avevo ben chiaro il motivo. Me lo sarei fatto spiegare, prima o poi.

Scoccai un'occhiata verso il lago. Una figura alta si stagliava sul molo poco distante, di spalle, e lanciava ogni tanto le pietre nell'acqua facendole rimbalzare sulla superficie. Provai una fitta al cuore. Mi ero accorto che era triste e avrei voluto aiutarlo a stare meglio, solo che avevo un po' paura. Quello che faceva bene a lui, di solito faceva tanto male a me.

Ma forse glielo dovevo, forse mi stavo comportando da ingrato. Era gentile, dopotutto. Ci proteggeva quando i nostri genitori esageravano con le punizioni o con i test, ci dava le caramelle, ci diceva che eravamo speciali e si prendeva cura di noi. Ci amava, amava me. I giochi da adulti si fanno con chi si ama, mi ripeteva sempre.

«Zero?» mi chiamò una vocetta assonnata.

«Mmh?»
«Mi stai stritolando».

Girai il capo e mi resi conto che la stavo stringendo così forte a me da sbiancarmi le unghie. Lasciai la presa, lasciando ricadere il braccio con cui la cingevo. «Scusa» farfugliai imbarazzato.

Sette mi sorrise e si stropicciò gli occhi con i pugnetti. Erano ancora lucidi per il pianto che aveva fatto in segreto, nascosta nella sua cameretta, perché mancavano soltanto un paio di giorni al nostro ritorno in laboratorio.

L'avevo sentita per caso e mi aveva pregato di non dirlo agli altri, perché era già la più piccola e non voleva che pensassero che fosse anche la più debole. Glielo avevo promesso per farla contenta, sebbene non fossi per niente d'accordo. Non immaginavo come qualcuno avrebbe mai potuto credere una cosa del genere.

Fear of SilenceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora