Capitolo 3 - Mentre non ci sei, i treni continuano a partire

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Alessandro

Quando Andrea rientrò a casa era ormai tardo pomeriggio. Alla fine non era riuscito a liberarsi per pranzare con me e io ero uscito a mangiare un boccone con dei vecchi amici dell'Università. Ero stravaccato sul divano, stanchissimo. Il salotto che avevo a Tokyo praticamente non esisteva, l'appartamento era un monolocale microscopico e angusto. Trovarmi di nuovo qui, a casa, mi faceva finalmente respirare. Non era certo in un appartamento enorme, ma il salotto era arioso, con due bellissimi affacci sulla strada, la cucina abbastanza grande per non darsi fastidio in più persone e il tavolo da pranzo poteva ospitare almeno sei persone. 

Tuttavia la cosa che mi era mancata di più, era la camera da letto separata dalla zona giorno. Odiavo addormentarmi con gli odori provenienti dalla cucina. Qui invece avevamo due camere e la mia era la più grande, con tanto di angolo cabina armadio, scrivania e una finestra enorme. Era il mio posto perfetto per disegnare, lì ritrovavo la mia pace e la mia serenità. Certo, non era casa dei miei al Piazzale Michelangelo, ma stavo dieci volte meglio qui, nel mio spazio sicuro, gestito come meglio credevo e come desideravo.

Udii le mandate della chiave che giravano e la porta che si apriva, così mi alzai e andai incontro ad Andrea. Appena mi vide lasciò cadere la borsa in pelle che aveva a tracolla e la busta della spesa, per correre ad abbracciarmi. Era poco più basso di me, più magro e longilineo, ma aveva una presa bella salda sulla mia schiena.

«Non ci credo che sei qui! Mi sai mancato così tanto, pezzo di stronzo!» Disse tirandomi delle pacche vigorose e amichevoli. Lo strinsi a mia volta, anche lui mi era mancato onestamente. Lo guardai in faccia e non era cambiato di una virgola, se non per la barba che portava un po' più lunga del solito e per delle evidenti occhiaie.

«Anche tu mi sei mancato!» Lo guardai negli occhi neri come la pece. «Sembri più stanco di me che ho un fuso di otto ore sulle spalle», lo presi in giro.

Lui si lasciò andare sul divano a peso morto «Lascia stare, mi fanno lavorare come un mulo. È chiaro, sono l'ultimo arrivato ed è normale, ma il mio capo è un tale stronzo». Si passò le mani sul viso. Indossava sempre un sacco di braccialetti al polso sinistro e mi ero sempre chiesto come facessero a non dargli fastidio.

«Capisco, anche a Tokyo i ritmi erano abbastanza serrati, come ti raccontavo».

«Sei felice di essere a casa?» Mi sorrise accavallando le gambe e tirandosi sù. «Stasera dobbiamo festeggiare, ho preso il tuo vino preferito». Sembrò essere tornato in sé e aver dimenticato tutta la stanchezza di poco prima.

«Non dovevi, lo sai, ma non posso dire di no».

«Allora andiamo a stappare la bottiglia!» Si alzò e si diresse in cucina, mentre si spogliava dell'impermeabile. Lo gettò sul divano e afferrò due calici dal mobile sopra la cucina.

«Insomma, cosa mi racconti?» Iniziai seguendolo.

«Beh sai, le solite cose. Io voglio sapere tutto di te, di come ti sei trovato, se hai avuto qualche storiella con qualche bella giapponese!» Versò il vino e mi offrì un calice.

Ridacchiai «Certo che tu hai sempre questo chiodo fisso! Non cambi mai!»

Lui sbuffò portando i capelli all'indietro «E dai si fa per parlare! È ovvio che voglio sapere tutto, anche del lavoro visto che ti ci ha spedito tuo padre. È stato così terribile?»

Ci sedemmo sul divano con i calici di vino ed iniziai a raccontagli a grandi linee del lavoro. Mio padre era molto fiero che io avessi ottenuto un posto in quello studio prestigioso, il mio era un buonissimo inglese perciò non avevo avuto problemi di lingua, più che altro mi ero scontrato con una mentalità molto diversa dalla nostra. Mi aveva fatto bene, mi ero formato un po' di ossa, ma ad Andrea dissi la verità che non vedevo l'ora di tornare a casa e di riprendere le mie abitudini.

Fiori diversi nello stesso vasoWhere stories live. Discover now