Capitolo 1 - A volte è necessario tornare

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Alessandro

Il poliziotto al controllo passaporti, cercò di attirare la mia attenzione sventolandomi davanti agli occhi i miei documenti. «Signore, si sente bene?» Domandò con voce grave e tono seccato.

Mi schiarii la gola, tornando alla realtà. Ancora non mi sembrava vero di aver toccato suolo italiano dopo nove lunghi mesi. Ancora non sapevo se la cosa mi piacesse o meno. O come mi facesse sentire riprendere la mia routine.

«Sì, alla grande. È solo il fuso orario», risposi con noncuranza riprendendo possesso dei miei documenti e avviandomi all'uscita. Il cielo quel giorno era plumbeo e screziato da qualche nuvola più chiara. Avrei davvero desiderato vedere un po' di sole al mio rientro, giusto per rendere meno difficile questo momento.

Come mi sentivo? Scombussolato era la parola giusta. Diviso a metà. Ero felice di essere di nuovo in Italia e di aver finalmente concluso quel dannato stage che non mi faceva più respirare, ma, allo stesso tempo, rivedere i miei genitori mi creava non poco nervosismo.

Il telefono squillò all'improvviso e, parli del diavolo. «Mamma». Il mio tono fu un misto tra lo sfinimento e la stanchezza.

«Tesoro! Aspettavo la tua chiamata!» Gridò con enfasi con la sua voce leggermente stridula.

«Sono appena atterrato».

«Com'è andato il volo? Tutto bene? Ti aspettiamo a casa allora, anche tuo padre non vede l'ora di riabbracciarti!»

Sì, come no. Come se mio padre abbracciasse la gente, l'avevo visto a mala pena abbracciare sua moglie.

«Non adesso mamma, ora preferisco andare a casa mia e riposarmi. Ci vediamo più tardi, oppure direttamente domani», svicolai sbadigliando.

Lei non rispose, ma sapevo che comprendeva il mio stato d'animo. E non solo che ero terribilmente stanco. Sapeva benissimo che non andavo volentieri da loro, motivo per cui da un paio d'anni condividevo l'appartamento con un altro ragazzo. Adoravo la solitudine e starmene per conto mio, ma se dovevo scegliere, preferivo di gran lunga un amico a loro due. Alla fine di una breve quanto impegnativa conversazione mia madre mi salutò, ma non prima di farmi sentire in colpa con i suoi soliti discorsi sull'importanza della famiglia, sui valori dei genitori e tante altre cose che ero abituato a sentire ogni volta.

Ogni volta che mancavo ad uno di quei pranzi infiniti con finanzieri e avvocati, oppure quando non presenziavo alle loro feste nell'alta società. Come se queste fossero occasioni di famiglia. Solo apparenza, quella che piaceva a loro e di cui si nutrivano ardentemente.

Mi ero sempre chiesto se fossi figlio loro, se qualcuno avesse accidentalmente scambiato la mia culla con qualcun altro, perché non c'era spiegazione sulle nostre diversità. Possedevo gli stessi occhi verdi di mia madre e la stessa espressione dura di mio padre, altrimenti avrei potuto dubitare delle mie origini.

Uscii fuori dall'aeroporto con la voglia matta di fumarmi una sigaretta. Non facevo che ripetere a me stesso che avevo quasi smesso, ma era prima che la mia vita cambiasse rotta e piani. Allora ero un ragazzo molto ingenuo. Il Giappone mi aveva aiutato, non potevo negarlo, sebbene avessi odiato profondamente il mio impiego e l'azienda pluripremiata e famosa dove mi aveva spedito mio padre a fare lo stage.

Non avrei mai fatto l'avvocato, come lui desiderava, ma lo avevo accontentato in quel momento per non avere discussioni e scappare. Odiava ciò che io, al contrario, volevo fare della mia vita, ma lui credeva che avessi smesso e per un po' non mi avrebbe rotto le scatole con le sue ramanzine.

Fiori diversi nello stesso vasoWhere stories live. Discover now