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Il Campionato Italiano Ragazze-Allieve a Squadre era una gara particolare. Era unica. Non esistevano prove interregionali o regionali a squadre. Treviso era un unicum nell'anno.

Fu per questo, e solo per questo, che ingoiai il rospo. Ma mi dissi che una volta finita la gara, avrei detto a Vincenzo che smettevo, inderogabilmente.

Prove nazionali, campionati regionali... La finale nazionale a Riccione... non me ne fregava nulla, avrei smesso, dopo aver dato l'ultima prova di serietà, quella che a me non era mai mancata.

Anita, pur avendo fatto mille battute su Costanza e sua madre, ci si accostò per passarsi quei lunghi momenti che ci dividevano dal salire in pedana. Pensai che si fossero trovate: due più interessate ad apparire che a fare bene il lavoro in pedana.

I nostri due padri, come al solito, erano parcheggiati uno a fianco all'altro e parlavano, parlavano e parlavano. La madre di Costy, inzeppata dentro dei leggins che sovrastavano delle Ishikawa che costavano come tutto il mio equipaggiamento di scherma, faceva caterve di foto con sorrisi a 48 denti.

L'inno nazionale, in mezzo a una che odiavo e una che perculavo.

Vincenzo ci guardò, cercando di scandagliarci per bene. Sentiva che c'era qualcosa che non andava. Cercò di cavarci qualcosa con gli occhi, ma ci ostinammo nel nostro mutismo. Così si limitò a dare i turni.

«Lodato, Ferri, Venturi, Ferri, Lodato, Venturi, Ferri, Venturi, Lodato».

Come da accordi, avrei aperto ed avrei chiuso, per il girone a tre con la Scherma Torino e le padrone di casa di Treviso. Presi un enorme respiro, mi calai la maschera. Ero Kikka Lodato, non ero l'ultima arrivata, ero l'atleta di punta della nostra squadra, del nostro circolo, ero lì per portare tutte in cima.

Invece venni investita dalla voce rimbombante di Vincenzo, per una prova opaca, appena sufficiente per riuscire a vincere 39 a 37 con Treviso e 45 a 42 con Torino. Una prova misera, deludente, sottolineata dai lunghi silenzi dei nostri padri che fissavano perplessi la pedana. La differenza stoccate ridotta a un misero +5 e 84 stoccate messe a segno su 90, ci relegarono al diciottesimo posto sulle 56 squadre, nonostante la vittoria del girone.

«La peggior squadra vincente nel girone» sottolineò Vincenzo, scuotendo la testa per la delusione.

Per un soffio guadagnammo il turno di bye, che passammo nervosamente a guardare le altre tirare. Ancora oggi mi chiedo se quel turno di bye abbia cambiato le carte in tavola, regalandoci una terribile lunga pausa in quella situazione di merda.

Sembravamo tre corpi estranei, tre entità tenute assieme a viva forza, come le calamite avvicinate dal lato dello stesso polo. Ogni sguardo rivolto a noi, mi pareva portarsi dietro pensieri al sapore di commiserazione, sembravano urlare "Ma come? Loro, così forti, messe così male?".

La madre di Costanza si precipitò da lei, in pausa, per farle vedere una foto che le aveva scattato, presa mentre si spostava i capelli di lato per infilarsi la maschera, viso serio, sguardo concentrato. Mi parve che si chinasse a parlarle più vicino all'orecchio, lanciandoci un paio di sguardi furtivi.

Lei si limitò ad annuire, come a confermare alla madre che la colpa non era sua, era di "quelle altre due", colpa mia e di Anita.

Eppure, al contrario, era la prima volta in tutta la mia vita che gli errori altrui mi sembravano più gravi dei miei. Per la prima volta, da anni, mi convinsi che quelle prestazioni così sotto l'aspettativa, fossero colpa di qualcun'altra. Costanza era evidentemente tesa, ben lontana da quell'atteggiamento sicuro, quasi ammiccante, che aveva di solito. Aveva dato un apporto molto basso fino a quel momento, giocherellava con il cellulare rigirandoselo nelle mani senza nemmeno accenderlo, mentre Anita sembrava rimuginare sugli errori. Quando scendemmo in pedana contro la Cesare Pompilio Genova, Vincenzo ci guardò per un lungo attimo, prima di scandire l'ordine:

«Lodato, Ferri, Venturi, Ferri, Lodato, Venturi, Ferri, Venturi, Lodato».

Altra pausa interminabile. Iniziavo ad odiarle, a metterle nel fascicolo dei motivi per cui volevo smettere, al più presto. Anche subito. Avrei smesso subito se avessi potuto, se quell'etica di merda che mi costringeva ad allenarmi praticamente tutti i giorni non mi dicesse di continuo che non sarebbe stato corretto lasciare le compagne orfane in piena competizione.

Fu uno sbuffo esasperato di Vincenzo a rompere quel silenzio pesante come un macigno. Rialzò lo sguardo su di noi, sapendo che di lì in avanti, a prescindere da tutto, in ogni assalto ci si giocava il tutto per tutto.

«Inizia una gara nuova. tutto quello che è successo finora, è nel passato. La scherma è così: ogni punto fatto è un punto del passato. E' solo uno scalino in meno nella scala che dovete ancora percorrere, conta lo scalino successivo, non quello precedente. E se è un punto avversario, beh, belle mie, non cambia nulla, quarantacinque punti dovevate fare, quarantacinque punti dovete fare, quarantacinque punti. La scherma è questo: quarantacinque stoccate. Le avversarie ne mettono una? Quarantacinque stoccate. Le avversarie ne mettono quarantaquattro? Quarantacinque stoccate».

Silenzio, ancora silenzio, maledetto silenzio.

«Fate del vostro meglio» ci incitò col suo solito tono burbero, che però quella volta sembrava quasi nascondere una preghiera.

Il nostro mutismo strideva letteralmente con tutti gli incitamenti e le direttive che tuonava da fondo pedana. Quei sedicesimi furono una pena infinita, un lento girarrosto punto a punto, con una tensione terribile, davanti a una squadra che voleva vincere per confermare la classifica dopo i gironi che ci vedeva sotto di loro.

Dopo aver conquistato un paio di punti di vantaggio, feci difesa nell'ultimo assalto, la loro ultima, una ragazza della mia taglia che usava l'arma nervosamente e in maniera abbastanza imprevedibile, tentò l'ultimo assalto a nove decimi dalla fine sul 41-40. Puntò il mio piede, tenuto forse qualche centimetro troppo avanti, me ne rendo conto, fu un errore da parte mia.

Ancora oggi giuro che non so se mi colpì non dando sufficiente pressione o se il bottone della sua spada ebbe un malfunzionamento. Il segnapunti non suonò ed io, per riflesso, vedendola sbilanciata in avanti, la infilzai alla schiena.

42-40. Esultai. Eravamo ancora vive.

Incredibilmente.

Poi mi tolsi la maschera, sentivo l'aria mancare. Mi inginocchiai, ansante e con la vista che si faceva via via più scura. Vincenzo in due balzi fu da me.

«Stai bene?».

«Acqua, dammi acqua».

Corse e tornò in un lampo. Bevvi, mangiai due quadretti di cioccolata fondente, respirai con lunghi ed ampi respiri, imitandolo come mi aveva detto di fare, per regolarizzare un corpo che mi sembrava dovesse implodere da un momento all'altro. Così, lentamente, tornai a una condizione accettabile.

La vidi con la coda dell'occhio, guardarmi.

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