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Tornai a tirare dopo l'influenza solo il lunedì della settimana in cui era programmata la prova a squadre, e fui accolta da una novità che mi distrusse psicologicamente: Any che baciava Edo prima di andare a cambiarsi.

Non so bene cosa mi successe dentro. Si accumularono così tante sensazioni e così tante parole da dire che mi bloccai. E quando dico che mi bloccai, intendo letteralmente: fui un fantoccio senza anima per tutto l'allenamento tanto che Vincenzo mi prese da parte e, abbandonando i toni solleciti che aveva usato fino a quel momento per svegliarmi dal mio torpore, mi chiese se andasse tutto bene.

«Non mi sento bene, non so, forse sono stanca».

Parve pensare a cosa dire, forse a come dirlo.

«Sei sicura?».

«Si, si, tranquillo» mentii io.

«Allora vai a casa. Meglio se ti riposi».

Strappai mio padre all'ennesima lunghissima discussione sulla finale del torneo olimpico di pallanuoto a Barcellona 92, e lui parve quasi scocciato del fatto che dovesse portarmi a casa in anticipo. In macchina mi fece un paio di domande di rito, poi fortunatamente mi lasciò stare.

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Altre volte avevo pensato "Smetto". Lo avevo pensato quando avevo perso la finale dell'interregionale 2013, quando avevo perso il quarto a Caserta, quando la Giorgetti mi mandò a casa ai quarti a Riccione. E tante altre volte quando magari i risultati non erano stati all'altezza delle mie personali aspettative, quando confrontavo la mole di allenamenti che facevo con i piazzamenti che ottenevo. Però poi arrivava mio padre, mi abbracciava, diceva due idiozie, paragonava quella che mi sembrava una disfatta a un qualsiasi episodio sportivo dal 1850 al giorno prima, e mi dava un risvolto diverso.

E io ripartivo. Sempre.

Ma quella era una questione ben diversa. Quella era la mia amica, forse più stretta, che mi soffiava l'unico ragazzo per cui mi batteva veramente il cuore.

Kikka tutto ok? Mandami un vocale dai

Non avevo voglia di mandare nessun vocale ad Anita, non avevo voglia di parlarle. La scoperta della nuova "coppia" mi aveva atterrata. Non risposi, non aprii nemmeno il messaggio per evitare le spunte blu. Le scrissi solo la mattina seguente dicendo che mi ero addormentata perché non mi sentivo bene.

E la cosa peggiore è che Treviso arrivò in un attimo come un pugno in pieno volto. Con la terribile notizia che, proprio come da noi richiesto precedentemente, io e Anita eravamo in stanza assieme, con i padri relegati non quella a fianco. Per educazione, all'atto della prenotazione, avevamo chiesto a Costy se voleva fare la tripla con noi, ma aveva declinato, forse con una punta di imbarazzo, dicendo che avrebbe alloggiato con la madre. Probabilmente in un 5 stelle in cui avrebbe fatto dodici selfie nella piscina e altri dodici sulla terrazza vista arco alpino.

Io e Any. Da sole.

Io e la mia pugnalatrice alle spalle. E il fatto è che si vedeva a pelle che si sentiva a disagio, magari si sentiva addirittura in colpa per l'orribile settimana di allenamento che avevo fatto a ridosso di quell'evento.

La settimana di allenamento era stata veramente orribile, mi ero sentita inutile e mi aveva pesato tutto in quei giorni. Ma ero una persona tutto sommato introversa e quindi non avevo parlato con nessuno di tutti i miei tormenti. Anita non mi aveva chiesto e da questo avevo capito che evidentemente si sentiva in qualche modo responsabile di quello che stava succedendo. Ma, nello stesso tempo, da lei non era venuto nemmeno un tentativo di spiegazione, per cui alla fine della fiera ci eravamo ritrovate in viaggio verso Treviso con due padri che continuavano a parlare della Jugoslavia ai mondiali di Italia '90 e noi due dietro che ci dedicavamo ai rispettivi cellulari, partecipando zero alla conversazione.

Tutto il viaggio fino alla sistemazione in camera fu una pena, ma nel momento in cui chiudemmo la porta e ci trovammo faccia a faccia la pena lasciò il posto all'astio.

«Non mi rivolgi parola da una settimana perché adesso sto con Edo?» mi attaccò, senza girarci tanto attorno.

«Secondo te?» risposi, cercando di controllare la rabbia che sembrava voler eruttare dal mio petto.

«Scusa, non avevo visto la targhetta "riservato"».

«Sei proprio una troia».

E ci mettemmo le mani addosso. Come due stupidissimi maschi che litigano su un fangoso campo da calcio. Noi, espressione di una disciplina onesta, corretta, limpida, nobile.

Noi, avvolte di etica oltre che di bianco, consapevoli di avere un'arma in mano mentre l'avversaria ci è davanti. Noi che salutiamo sempre avversaria e giudici come se fosse parte stessa dell'assalto.

Non contava più niente in quel momento. Ci picchiammo, graffiammo, e tirammo calci negli stinchi. Tra urla, offese e imprecazioni.

Finchè non arrivarono i nostri padri, bussando all'impazzata e costringendoci a riprendere un contegno, che non bastò quando aprimmo la porta. Iniziò un penoso momento in cui fecero mille domande e se all'inizio provammo a dire che stavamo solo giocando, le nostre condizioni fisiche ci costrinsero a confessare.

E per una volta, fecero i padri delusi, scuotendo la testa davanti alle nostre reciproche accuse e decidendo, seppur a malincuore, di dividerci una per camera.

«Federica. Ma che vi è saltato in mente di picchiarvi? Ma veramente un ragazzo vale una amicizia? Ma tra due mesi manco ve lo ricorderete più!»

«Tu la fai facile! Io amo Edoardo! Lo amo veramente! E lo amo da un sacco di tempo, da prima di lei! Lo so!».

«E allora perchè non gliel'hai mai detto, coglioncella?!».

La domanda banale, fatta da mio padre, mi spiazzò, non seppi cosa rispondere, mi addormentai malissimo.

AllieveWhere stories live. Discover now