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La Scherma Castiglione aveva iniziato ad attirare l'attenzione: era un posto tranquillo, c'erano pochi galli nel pollaio, perchè Vincenzo abbassava la cresta a chiunque, ed i risultati ci avevano procurato un nome.

Oltre a dieci bambini che tiravano nel pomeriggio con tute enormi che li facevano sembrare astronauti, mettemmo assieme un gruppo GPG formato da diciassette atleti, di cui cinque trasfughi dai circoli schermistici del vicinato.

Daniele Nanni, particolarmente sicuro di sé tanto da piantare un circolo che lo aveva allevato fin dai sei anni di età per mettersi nelle mani spicce di Vincenzo, divenne in poche settimane una specie di leader. Il padre lo aveva portato fin lì nel tentativo di non farlo smettere e disperdere quello che lui riteneva "un gran talento".

Pare che in realtà volesse preservarlo da un clima non sereno nella precedente sala, dove diversi ragazzi (o forse diversi genitori) lo consideravano il "cocco" dell'allenatore. Era un problema non raro, nel nostro sport: genitori con troppe aspettative, adolescenti frustrati dai risultati ritenuti non all'altezza, si coagulavano alla ricerca di capri espiatori.

Vincenzo non si espresse mai chiaramente sul talento di Daniele, voleva che parlassero i fatti. Il nostro Maestro lo puntava, lo stuzzicava e poi lo infilzava continuamente, lavorando sull'equilibrio emotivo e sui cali di attenzione che erano a volte abissali.

Daniele aveva la stessa età di Edoardo Monti. Io adoravo Edoardo, e lui era anche bravino, era stato allenato bene da Vincenzo e aveva fatto diversi bei piazzamenti negli anni del GPG, senza però vincere mai nulla.

Con Edoardo andavo d'accordo perché aveva un modo di fare gentilissimo, era bello da vedere in azione seppure non un fulmine di guerra, e quando si toglieva la maschera e arcuava la spada tra le mani, era semplicemente la perfezione. Avevo una tremenda cotta per lui, che si accentuò quando andò in terza media e i suoi capelli iniziarono ad avere perennemente un riflesso biondo irresistibile.

Edo dava l'idea di essere interessato ad Alessia Riciputi, una ragazza del suo anno che da poco si era messa a tirare con noi, ma lei non dava molta corda e così Edoardo si accorse di Anita, facendo un paio di battute sempre educatissime, ma comunque sempre battute. Probabilmente fu l'ultimo sulla faccia della terra ad accorgersene: lei era cambiata molto nel giro di un anno e mezzo. Il suo carattere forte e senza peli sulla lingua aveva perso gli atteggiamenti da maschio ribelle e si era vestito del corpo di una adolescente.

Prendemmo l'abitudine di fare forsennati quadrangolari: io, Anita, Edo e Dani. Il canovaccio era più o meno sempre lo stesso: io vincevo, Dani e Anita litigavano, Edo ci guardava divertito. Continuamente punzecchiati da Vincenzo, che da Daniele pretendeva sempre il 200%, ottenendolo quasi mai. Diventammo lo show della seconda parte dell'allenamento.

Anzi, diventarono.

Anita e Daniele erano in perenne testa a testa. Lui sempre pronto a sottolineare cosa lei non facesse bene, lei a rispondergli per le rime.

«Any, ma ti piace Daniele?» le chiesi una sera, prima che iniziasse un film.

«Ma chi? Il pallone gonfiato? Scherzerai» mi rispose, ridendo, «poi sicuro che quello ci prova con tre alla volta».

Poi, dopo un lungo silenzio aveva aggiunto «Magari, se smette di fare l'idiota».

Ero convinta che si sarebbero messi insieme, se non fosse che Daniele, sicuro di sé com'era, puntava a standard "più elevati".

Mi ricordo quando ce lo disse proprio chiaramente: «Cerco standard più elevati di voi due». Io mi limitai a replicare acida che chi vola troppo alto fa il botto più grosso quando cade, d'altronde in cuor mio mi interessava solo Edo, quindi non ci diedi importanza. Anita, invece, lo rincorse spada alla mano per tutta la palestra, e, quando riuscimmo a fermarla, lanciò un anatema.

«Davide infame
per te solo le lame».

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Anita aveva proprio preso di mira Daniele, con quella storia degli standard più elevati. Iniziò a dare forfait per i quadrangolari e ad andare in escandescenze ogniqualvolta lui diceva qualcosa.

la fine dell'epoca dei quadrangolari aveva costretto il povero Vincenzo ad anticipare l'inizio degli allenamenti in vista di quella gara già agli ultimi giorni del 2016.

«Da stasera, iniziamo a ragionare "da squadra". Da una parte Fabbri, Magnani e Nanni. Dall'altra Lodato, Venturi e Fabbri. Tutte le sere finché non vi dico io di cambiare le squadre».

Fabbri e Magnani erano due nostri coetanei, bravini ma nulla di che. Daniele veniva sempre schierato come ultimo in pedana, per destabilizzarci, e cercare di soffiarci punti. Costanza Fabbri era la terza ragazza che Vincenzo aveva scelto per Treviso. Di un anno più giovane, fluida nei movimenti e perfettamente consapevole del suo corpo, mi stava particolarmente sulle scatole perchè si vedeva lontano chilometri come fosse una finta acqua cheta, che sotto sotto si credeva la social star del circolo. Si era piazzata tra le prime otto in tutte le prove interregionali dell'anno prima. Era arrivata quell'anno, con appresso sempre la madre che la incoraggiava e spalleggiava nella sua gestione dei social network, dove imperversava in mille pose e mille video.

«Che mamma ritardata» commentò Anita un pomeriggio in cui ci trovammo a guardare il profilo della mamma di Costanza, ricolmo in parti uguali di foto con labbra a culo di gallina e piani di tre quarti della figlia, trattati pesantemente con qualsiasi tipo di filtro. Per la cresima di Costanza aveva una gallery di video e fotografie che, guardata con connessione dati, era in grado di prosciugare anche l'abbonamento internet mobile più voluminoso.

«Vabbè ma lei non è da meno, il suo profilo è la fiera del selfie».

Non è che noi fossimo immuni. Anche i nostri profili erano pieni di selfie, ma erano foto con un grado di scemitudine infinitamente più alto del suo. Lei se la credeva un botto, e sfruttava un sacco il fatto che la famiglia era ricca: foto in città d'arte, in piscina, alle terme, nelle più disparate boutique.

«Se la crede tipo la Ferragni di Castiglione».

Risi alla battuta, poi le ricordai che in realtà abitava dalle parti di Santa Maria Nuova. Anita non mollò la presa.

«Ma hai mai visto suo padre?».

«No, perché? Dai, dai, racconta» chiesi, in fibrillazione.

«No, manco io l'ho mai visto, ma perché lavora come uno schiavo ventiquattro ore al giorno per pagare gli outfit della moglie. Gucci, Fendi e D&G come se piovesse. Kikka noi siamo le stronze che comprano da Miss Sixty e qua c'è gente che va ai tornei con le magliette di Moschino».

Fui costretta a saltare la prova interregionale a Faenza del 6 gennaio 2017 a causa di una influenza che mi aveva steso. A stento riuscivo a reggere il telefono per sentire i messaggi di Anita che mi faceva la telecronaca di come stava andando. Il quinto posto finale, mi lasciò un grande amaro in bocca per lei, sconfitta ai quarti dalla Giorgetti. ancora lei.

«Quella la metto sotto. Giuro, la metto sotto, la spiattello, ci faccio i coriandoli, cazzo» mi disse mentre tornava in macchina.

«Anita, parla bene» era stato il commento serafico del padre, salito a Faenza assieme al mio.

Già, mio padre mi aveva abbandonata a casa con l'influenza, mezza morta, per seguire il resto del circolo alla prova interregionale. Capite? Che Padre degenere, mi abbandonava malata a casa per soddisfare la sua sete di eventi sportivi.

«Papà, fermati a prendere il gelato!» urlai al telefono. Sentii solo una risata, ma il gelato arrivò, per lo meno.

AllieveWhere stories live. Discover now