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Nessuno poteva rimanere indifferente ad Anita. Aveva iniziato a tirare di scherma a settembre del 2011, a otto anni, e da subito avevamo legato come può succedere solo a due persone diametralmente opposte.

Io ero una posata bambina che ricamava attorno all'avversaria come un ragno, per poi condurla dove volevo io. Adoravo il rosa e quando mi toglievo la giubba e la maschera, guardavo le serie Disney e avevo il diario del Mondo di Patty, oltre a saperne svariati brani a memoria. Lei era sfidante, aveva una battuta tagliente per tutti, si pettinava come un maschio, diceva di essere Aldo Montano e quando ci vedevamo ad allenamento mi raccontava orgogliosamente di quanti etti di carne aveva mangiato la sera prima.

«Mi devi dire tutti i tuoi segreti per essere così brava!» mi aveva detto dopo il secondo torneo interno in cui, sorniona, l'avevo di nuovo battuta.

Mi invitava continuamente a casa sua, a prendere il gelato, al cinema, dove poi però perdevamo mezzo film a parlare tra noi, a raccontarci i nostri rispettivi aneddoti dall'infanzia al giorno prima.

Era uno spasso stare con lei, e i nostri padri, che ci portavano al circolo, avevano preso a portarci anche la sera al cinema, per poi dileguarsi in una sala dove davano film più d'azione o in un pub poco distante. Si erano trovati e se la passavano bene in compagnia, diventando gli alter ego di quelle mamme che fanno delle chiacchiere fuori scuola: loro erano i babbi che parlavano di sport tutto il tempo, mandandoci i selfie mentre bevevano birra. Il merito, non perché fossi sua figlia, era di mio padre, un tipo che attaccava bottone con tutti, raccontava cose a caso, tirava fuori aneddoti sportivi vecchi come lui, e imbastiva intere discussioni.

Mio padre era proprio fissato con gli aneddoti sportivi e con lo sport in generale. Prima della scherma, spaziava dal calcio, al basket, al tennis fino allo sci di fondo e all'hockey su ghiaccio. Se era a casa, potevi stare sicuro che stesse guardando dello sport. Che poi in realtà, non aveva il fisico dello sportivo, a lui bastava guardare. Il padre di Anita inizialmente mi era sembrato uno che parlava pochissimo, era poco "preso" dallo sport della figlia, ma con mio padre era andato subito d'accordo, e ormai erano culo e camicia.

Io e Anita, a livello schermistico siamo cresciute assieme, e sebbene lei avesse una madre che l'aveva praticata in gioventù e un cugino che aveva ottenuto buoni successi una quindicina di anni prima, io ero sempre stata la migliore delle due. Non tanto per la tecnica, quanto per la capacità di essere costante e serena. Mi allenavo praticamente tutti i giorni, cascasse il mondo. Lei invece specchiava la sua scherma nel suo carattere estremamente umorale, nel suo essere un minuto euforica e un minuto depressa, i suoi allenamenti spesso o erano spasmodici, o erano fiacchi e lamentosi.

Ma il fatto che facessimo scherma assieme e fossimo così legate l'aveva spronata a continuare e continuare e continuare seguendo le mie orme, appunto. Non lo dico peccando di modestia, ma perché, alla prova dei fatti, i risultati per il circolo li avevo sempre portati a casa io. Ero riuscita a vincere tre tornei locali nel 2012/2013 e ne avevo vinti altri due nel 2013/2014 arrivando anche alla semifinale di una delle due prove interregionali. L'anno successivo, avevo vinto la prova interregionale al CUSB a Bologna in gennaio e, mentre lei era riuscita per un soffio a piazzarsi tra le prime quattro, io avevo vinto la Coppa Regionale in base ai piazzamenti.

Quello che sicuramente ci aveva portato fino a lì, che mi aveva fatto fare sacrifici, in fin dei conti, era che c'eravamo noi due, era il nostro mondo, fatto di trasferte a condividere auricolari, sguardi d'intesa quando ti toglievi la maschera dopo un assalto andato bene, spalle su cui piangere, braccia in cui festeggiare.

Chi fa sport di squadra sicuramente dirà che non c'è molto di diverso, ma chi fa sport individuali e di nicchia come la scherma sa che è diverso. La solitudine nella disciplina ti costringe a fare affidamento solo su te stessa, a primeggiare anche sulle persone con cui ti alleni, con cui sudi e condividi pezzi di vita, perciò ti affanni, negli altri momenti, a cercare il contatto con chi ti è vicina, fosse anche solo uno sguardo.

AllieveWhere stories live. Discover now