DICIOTTO

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Buio.

Di nuovo quel maledetto buio.

Damiano ne aveva abbastanza. Voleva uscire, andarsene. In alto davanti ai suoi occhi c'era l'ammiccante lucina della lampada d'emergenza. Sarebbe stato facile estrarre l'MK23 e toglierla dal muro. La tentazione era forte, quasi irresistibile, ma temeva che il malfunzionamento venisse segnalato a quelli dell'assistenza. Era meglio seguire le istruzioni della signorina Necchi, fidarsi di lei. In fondo si trattava di resistere per poco tempo. Lei sarebbe arrivata.

Non riusciva a pensare che lei l'avrebbe tradito. Le sue lacrime, le sue parole gli erano sembrate così sincere. Lei lo aveva cresciuto, era la cosa più simile a una mamma che lui riuscisse a immaginare. E una mamma non ti tradisce.

Mano a mano che i minuti passavano, un senso di angoscia cresceva dentro di lui. I suoni arrivavano molto attutiti attraverso la porta. Non riusciva proprio a capire cosa stesse succedendo fuori. Era diventato bravo a muoversi al buio, a ricostruire una mappa mentale di un luogo sentendolo al tatto. Decise di sfruttare queste sue capacità toccando in giro.

Lo sgabuzzino non era più grande di due metri per tre. Su un lato c'erano degli armadi metallici chiusi, sull'altro riconobbe una macchina per lavare i pavimenti e delle cataste di bidoni contenenti liquidi. Nulla sui muri, eccetto la lampada di emergenza che occhieggiava tentatrice con la sua lucina verde. Provò ad aprire gli armadi, ma gli sportelli resistevano a qualunque suo tentativo e al tatto non trovava maniglie o serrature. Toccò la macchina lavapavimenti e ne riconobbe il sedile, il volante e i comandi sul cruscotto in cui era inserita una coppia di chiavi, una infilata nel blocchetto di accensione e l'altra che pendeva dall'anello che le legava insieme.

Non si sognava neppure di avviare la macchina, anche perché non sapeva se avrebbe fatto rumore. Stufo di stare in piedi, appoggiò a terra lo zainetto, sedette sul morbido sedile e appoggiò le gambe incrociate sul volante. Allungò un braccio per prendere dallo zaino l'avvitatore e lo soppesò.

Quell'oggetto così caro e familiare ora stava assumendo un significato del tutto nuovo ai suoi occhi: non era più il premio conferito dalla fabbrica per la sua efficienza, era il simbolo della sua sconfitta, il marchio tangibile della sua condizione.

Gli avevano detto, riassumendo in parole povere, che era un mezzo idiota privo di fantasia, una specie di robot che potevi mettere a una catena di montaggio, certo di poterlo spremere fino all'esaurimento.

Non era in grado di sviluppare 'rapporti umani complessi', ma cosa voleva dire quella cosa? Che non era in grado di amare, di avere degli amici veri? In effetti non aveva mai avuto una fidanzata, ma lui l'imputava più alla sua timidezza. Si era innamorato, e molte volte, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare il primo passo. E allora? Questo faceva di lui un idiota?

Rebecca del controllo qualità gli piaceva molto. Qualche volta era riuscito a fermarsi con lei alle macchinette delle bibite o a mensa. Forse la conversazione non era stata molto brillante da parte sua, ma ancora una volta, questo faceva di lui un idiota?

E poi la curiosità, l'intraprendenza, la capacità di risolvere problemi che aveva dimostrato nel corso della sua fuga. Per tutte le batterie agli ioni litio! L'aveva fatta in barba a quelli dell'assistenza, che sicuramente avevano un profilo superiore al suo. Aveva portato dalla sua il medico e l'infermiera che erano un B2 e un... quel che era, tanto non sapeva neppure a cosa corrispondessero quelle stupide lettere.

Dato che il dottore era un B, probabilmente la classificazione partiva dalla A. Gli A dovevano essere i fottuti geni, i capi supremi. I B erano laureati come il dottore. E lui era un G. Di lettere ce n'era un bel po' dalla B di dottore alla G di imbecille! Si chiese se esistessero anche altre lettere dopo la G, nella classifica dei cervelli di seconda scelta come il suo.

L'avvitatore era il simbolo della sua categoria. Forse le persone più intelligenti di lui utilizzavano strumenti più complessi per avvitare una vite, strumenti che la sua intelligenza non gli permetteva di usare. O forse tutti usavano gli avvitatori assemblati da Damiano Rossi. I migliori. Fatti da un idiota. Ma quell'idiota ne aveva fatte di cose con il suo strumento da idiota.

La fuga da una prigione di massima sicurezza fatta solo con un avvitatore. Ci si sarebbe potuto fare un film. Una prigione. Era stato un prigioniero.

E uno schiavo. Non c'era vera libertà nella sua vita: credeva in quello che gli mostrava il visore. Aveva ben visto le persone evacuare una strada al comando degli uomini armati, per poi tornarci a lavoro finito, li aveva visti inseguire un falso cane. Lui non aveva mai fatto ciò che realmente voleva, ma ciò che il visore lo induceva a volere. Con i soldi che gli davano acquistava costosi oggetti falsi, falsi mobili, finti televisori, piante di plastica che fingevano di crescere.

Lì sotto era tutto progettato perché gli operai, i G3, fossero felici, ma lo scopo non era la felicità, bensì la produttività. Gli idioti felici lavoravano meglio, producevano di più, non si lamentavano e non chiedevano altro che continuare a lavorare e a produrre.

D'un tratto la porta si aprì interrompendo il corso dei suoi pensieri. La luce proveniente dal corridoio lo rese ancora una volta completamente cieco. Si tirò su a sedere sul sedile della macchina per le pulizie e si fece schermo con la mano.

La signorina Necchi non era sola: affacciato alla porta con lei c'era un uomo. La luce che veniva da dietro non gli permetteva di riconoscere i suoi lineamenti, ma la sua sola presenza gli faceva capire che la signorina non aveva rispettato i patti, lo aveva tradito. Quell'uomo era venuto a prenderlo, a riportarlo giù o peggio. Forse era dell'assistenza. Forse l'avrebbe ucciso.

In preda al terrore, Damiano guardò il cruscotto della macchina. La chiave era girata verso una targhetta con scritto 'off'. L'on' era in alto, bastava girarla, e lui la girò. La macchina lavapavimenti prese vita con una serie di rumori elettrici e pneumatici e i fanali anteriori inquadrarono per un attimo il viso della Necchi e del dottor Ruperti. Poi, comandata dal piede di Damiano premuto forte sul pedale dell'acceleratore, la macchina partì e si schiantò contro la porta chiudendola violentemente.

Non erano riusciti a prenderlo, per il momento, ma era in trappola!

Non erano riusciti a prenderlo, per il momento, ma era in trappola!

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Realtà virtuale - Il viaggio di DamianoWhere stories live. Discover now