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Od ilxris

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"Ti avevo avvisata, tempo fa. Ti dissi che avresti fatto meglio a non innamorarti di me, sarebbe stato un pec... Více

SINS
Zero: the show starts. Or, maybe, it was already started.
One: the lying lioness.
Two: who was he?
Three: mom and Jason.
Four: surprise!
Five: his name.
Six: chaos.
Seven: nightmare.
Eight: I'm sorry.
Nine: truce? Probably yes.
Ten: memories VS reality.
Eleven: drunk & nasty.
Twelve: promise you won't fall in love with me.
Thirteen: stench of burnt.
Fourteen: a call from the hell.
Fifteen: painting pain.
Sixteen: lost in confusion, like an illusion.
Seventeen: you don't know how things really are, Max.
Nineteen: rollercoaster.
Twenty: rain.
Twenty-one: he needs me.
Twenty-two: silent fire.
Twenty-three: doors.
Twenty-four: blue eyes... please, tell me a lie.
Twenty-five: the quiet before the truth.
Twenty- six: but I know one thing.
Twenty-seven: reason, feeling & some "I don't give a fuck".
Twenty-eight: point of no return.
Twenty-nine: black widow.
Thirty: black widow pt.2.
Thirty-one: let's talk about love.
Thirty-two: confessions.

Eighteen: born again.

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Od ilxris

"Gli incontri più importanti
sono già combinati dalle anime
prim'ancora che i corpi si vedano. Generalmente,
essi avvengono quando arriviamo a un limite, quando abbiamo bisogno di morire
e rinascere emotivamente."
-Paulo Coelho

Cinque ore dopo mi ritrovavo dietro le sbarre di una fredda cella d'attesa.

Una volta arrivata in caserma, scortata dall'auto della polizia, venni controllata da capo a piedi, e, presi i miei documenti, fui sottoposta ad un breve interrogatorio. Per circa una buona mezz'ora stetti seduta ad un tavolo stretto, in compagnia del poliziotto più giovane, che si rivelò un gran parlatore: mi chiese infatti cosa ci facessi nell'ufficio della preside Johnson - la quale scoprii essere stata la mittente della chiamata -, e perché, come aveva detto esplicitamente lei, "avevo fatto irruzione nel suo ufficio come una pazza per minacciarla". Inoltre lo sbirro mi chiese anche per quale motivo, al loro arrivo, stessi facendo paura ad un ragazzino.

Io, dal mio canto, non mi feci scrupoli a rispondergli di farsi educatamente i cazzi suoi, con tanto di sorriso insolente, ché tanto non avrei risposto a mezza delle sue stupide domande.

«Le conviene parlare e darmi una buona motivazione alle sue azioni prima che m'incazzi sul serio e decida di sbatterla direttamente in tribunale, con l'accusa di duplice minaccia e calunnie, aggravata dalla presenza di un minore. Dopo sì che morirebbe dalla voglia di parlare, dietro le sbarre di uno schifoso carcere».

E aveva sorriso il bastardo biondo. Aveva sfoggiato un sorriso da un milione di dollari nel pronunciare quelle parole. Quelle parole che, alla fine, mi convinsero a spiegargli nei minimi dettagli cosa fosse successo, a partire dal pestaggio di Jason. Gli dissi tutto, senza tralasciare nulla. Gli dissi anche che con me, seduta difronte a lui su quella sedia scomoda e traballante, stava solo perdendo il suo tempo, che le persone su cui doveva indagare erano altre, erano gli aguzzini di Jason. E, a quel punto, lui non rise più. Si fece serio e, solo dopo avermi rifilato un'occhiata soppesante, mi aveva fatta uscire dalla stanza, congedandomi con un paio di semplici indicazioni.

«Può fare una chiamata se vuole, giusto per avvisare un familiare di quanto accaduto. Dovrà pagare una multa, firmare un paio di scartoffie e poi sarà libera».

Indubbiamente avevo colto quell'occasione al volo, chiamando l'unica persona che mi era rimasta. Tuttavia quest'ultima non aveva risposto, così mi ero ritrovata a dovergli lasciare un messaggio in segreteria, nella speranza che lo ascoltasse il prima possibile.

Con le mani giunte e lo sguardo rivolto verso il freddo pavimento di quelle quattro pareti scolorite, ad ora speravo solo che colui che avevo contattato arrivasse il prima possibile. E che, ovviamente, pagasse anche la multa, visto che non avevo con me nemmeno un soldo.

Più il tempo passava, più il mio intestino si contorceva dall'ansia che scaturiva dall'idea che potessi venire scoperta, considerando che i miei documenti erano ancora in mano alla polizia. A contatto con gli sbirri, le guardie e il freddo metallo delle sbarre, non mi sentivo per niente al sicuro. Non che avessi paura, semplicemente... ero tremendamente agitata. E spossata. E avvertivo la mancanza incolmabile di Jason.

Mi passai nervosamente una mano tra i capelli. Lanciai l'ennesima occhiata all'orologio posto sulla parete grigia del corridoio. 19.10. Sbuffai.

Avevo chiamato ancora tre ore fa, e ormai iniziavo a credere che non sarebbe mai arrivato. Il mio stomaco brontolò.

«Hai fame?» domandò all'improvviso una voce.

Alzai il capo: davanti ai miei occhi, oltre le sbarre, si presentò il corpo tonico dello stesso poliziotto che mi aveva interrogato poc'anzi, stretto in una camicia azzurra e un paio di pantaloni neri dal taglio molto asciutto, che ne mettevano in risalto la muscolatura allenata.

Sbuffai una risata, alzando gli occhi al cielo nel realizzare che quella domanda era stata volutamente fatta con grande sarcasmo, visto che il giovane teneva tra le mani proprio un bel panino.

Lo guardai con la coda dell'occhio, giusto per non dargli importanza, e lo vidi azzannare con gusto quella che, con tutte le probabilità, sarebbe stata la sua cena. Ne prese un gran boccone, prima che riprendesse a parlare con la bocca piena.

«Il tuo ragazzo non è ancora arrivato?»

A quel punto mi girai.

«Non è il mio ragazzo» tagliai corto, guardandolo come se avesse appena detto la cazzata più grande della sua vita. E beh, in effetti era ciò che aveva appena fatto.

Feci finta di prestare momentaneamente attenzione alle mie unghie, anche se, in realtà, i miei sensi erano in allerta nei confronti del biondo, che non accennava minimamente a volersi spostare. Lo intravidi infatti impegnato a scrutarmi da capo a piedi, attento come un'adolescente difronte alla vetrina di un negozio di videogiochi. Il suo sguardo penetrante mi si riversava addosso in continue ondate di quella che, all'apparenza, sembrava genuina lascivia, e non ci volle molto tempo affinché un'altra delle sue frasi studiate l'accompagnasse.

«E così mi stai dicendo che sei single?» le sue labbra rosee si piegarono in un ghigno divertito.

Puntai di scatto le iridi nelle sue, che furono svelte a legarsi al mio azzurro. Mi staccai dalla parete e, con fare seducente, gli feci cenno con un dito di avvicinarsi, riservandogli un'occhiata che si sarebbe potuta intendere in molti modi fantasiosi. Misi il viso tra le sbarre e, suadente, gli sussurrai all'orecchio: «Toglimi una curiosità... Questo è un trattamento speciale o lo riservi a ciascuna delle ragazze che rinchiudi qui dentro dopo che le hai sfinite con uno dei tuoi pallosissimi interrogatori?».

Mi scostai, facendo schioccare la lingua sul palato in segno d'insolenza; successivamente mi godetti lo spettacolo: il giovane si azzittì totalmente, e sul suo volto sparì qualsiasi traccia di lussuria o divertimento; al suo posto, invece, un'espressione visibilmente seccata gli marcò i tratti, rendendoli improvvisamente più rigidi. Capii solo allora che quel Casanova da quattro spiccioli doveva aver ricevuto ben pochi "No" durante la sua esistenza da parte del genere femminile e, per un attimo, questo dettaglio insignificante mi riportò alla mente Harry. Maledissi il moro e il suo ritardo, che mi stava costringendo ad intrattenere una conversazione decisamente inusuale con un poliziotto che, seppur fosse piuttosto sexy, si stava atteggiando come un rubacuori degli anni '80. Uno stupido cliché.

«Scusa il ritardo, ma- Ho forse interrotto qualcosa?»

La mia testa scattò immediatamente nella direzione da cui era provenuta la voce dall'inconfondibile tono roco. Due gemme verdi dardeggiarono impazzite tra me ed il poliziotto, che, a dire il vero, si trovava ancora ad una distanza ambigua, alla ricerca di una risposta nella sua faccia seria e nel mio ghigno sbarazzino.

Quando il biondo si voltò verso Harry, percepii quest'ultimo irrigidirsi subitaneamente, come se avesse appena ricevuto una forte scossa elettrica. Volarono occhiate circospette tra i due per quello che parve un buon minuto, finché lo sbirro non si decise a sciogliere - ovviamente parlando - quella strana atmosfera.

«Ci conosciamo per caso?» chinò leggermente il capo a desta, come se, guardandolo da un'altra angolazione, un qualsiasi presunto ricordo del riccio potesse balzargli alla memoria.

«No, non credo. Probabilmente si sta confondendo» sibilò Harry, rivolgendomi una veloce occhiata che non riuscii a decifrare.

Mascelle che si tesero, ginocchia che tremarono. Acqua e fuoco che s'incontravano, pensai.

«Ma io sono sicuro di-»

«Mi scusi signore, ma vorrei solo che lei liberasse la ragazza qui presente, così da potercene andare. Abbiamo impegni importanti. Ho già firmato tutta la documentazione e pagato la multa in qualità di suo marito» spiegò velocemente Harry, apparentemente spazientito.

Inutile dire che, all'udire la parola "Marito" uscire dalla bocca del riccio, strabuzzai gli occhi, incredula. Milioni di brividi corsero impazziti sul mio corpo e, se solo non avessi saputo che era impossibile avvertirli anche sotto pelle, avrei giurato di aver sentito i miei organi rabbrividire anch'essi.

Anche il biondo, ancora fermo difronte a me con i piedi ben piantati a terra, ebbe una reazione più o meno simile, rimanendo improvvisamente a corto di parole.

«Oh... Va bene» si limitò a dire, per poi estrarre dalla tasca dei suoi pantaloni un grande mazzo di chiavi.

Ne infilò una delle tante nella serratura della mia cella, e, nel farlo, sfiorò appena la mia mano fredda, saldamente ancorata alle sbarre. Subito i suoi occhi furono nei miei. Bloccò ogni movimento, quasi come se fosse ipnotizzato da... me.

Tossii leggermente, e ciò, per mia fortuna, bastò a riportare la sua attenzione sulla serratura, che si sbloccò dopo un paio di mandate.

A passo svelto, e senza aggiungere nient'altro, raggiunsi velocemente Harry, dando le spalle al poliziotto.

Prima di andarmene con il riccio, però, un'ultima cosa la volli aggiungere.

«Spero di non vederla più, Tom» marcai appositamente il nome che avevo letto sulla targhetta situata alla sinistra del suo petto, e che fino a quel momento mi era sfuggita.

Costui rise, e «Lo spero anch'io, signorina. Lo spero anch'io».

Gli rivolsi un'ultima occhiata da sopra la spalla. Lui, in cambio, mi mostrò ancora una fila di denti bianchissimi, perfettamente allineati tra loro.

A quel punto pregai solo che Tom non facesse indagini sulla mia vita.

-

Sospirai per quella che doveva essere la milionesima volta nel giro dell'ultima mezz'ora.

Erano ormai le dieci passate.

Harry, dopo essermi venuto a prendere in caserma, mi aveva riportata a casa. Durante il breve viaggio non aveva osato spiaccicare nemmeno una parola. Non mi aveva chiesto né come avessi fatto a finire dietro alle sbarre, né si era scomodato a fornirmi spiegazioni riguardo all'osceno teatrino a cui avevo assistito a casa sua proprio quella mattina. Niente, zero. Nessun suono era uscito dalla sua bocca, tant'è che, ad un tratto, ero finita col chiedermi persino se stesse respirando o meno.

Concentrato sulla strada, aveva guidato fino al mio quartiere e, costeggiata l'auto per una manciata di secondi lungo il marciapiede, giusto il tempo che scendessi - sempre in totale silenzio -, era ripartito sgommando senza nemmeno degnarsi di salutarmi.

Così, giunta a casa mia all'alba delle otto di sera, mi ero poi fatta una doccia veloce, avevo indossato dei vestiti puliti e, senza neanche cenare, mi ero catapultata sulla mia vecchia Mustang, che avevo guidato a tutto gas nel traffico newyorkese - dove ero rimasta imbottigliata per un buon quarto d'ora in una coda lunga quasi un chilometro -, per poi approdare nel parcheggio dell'ospedale. Infine su di corsa per i vari piani di scale, fino alla stanza di Jason.

Ed ero qui adesso, accanto a lui il giorno dopo la disgrazia.

Lui, proprio come ieri, se ne stava placido placido nel suo letto, le coperte rimboccate fino al petto. Indossava la tipica veste da paziente ospedaliero, e le esili braccia scoperte erano poggiate sul materasso ad acqua, le dita della sua mano destra infilate tra le mie.

Aveva gli occhi chiusi, Jason, e circondato da tutti quei colori pallidi sembrava un'angelo che dormiva pacificamente su un pezzo di nuvola. Peccato che questa nuvola non fosse eterea e soffice. Peccato che questa nuvola puzzasse di disinfettante e fosse gremita di strani macchinari. Macchinari che permettevano a Jason di respirare, di urinare, di nutrirsi. Macchinari che, in quel momento, stavano vivendo per lui.

Era in coma ormai da circa ventiquattr'ore. Aveva traumi sparsi per tutto il corpo: sulle braccia, sulle gambe, sull'addome e sulla testa, quest'ultima fasciata da diverse bende. I segni dell'altra sera erano ancora ben distinguibili sulla sua carnagione chiara, mentre i tagli erano stati disinfettati e coperti con delle piccole fascette adesive che servivano per tenerne i lembi uniti e favorire la cicatrizzazione della pelle.

Era una visione atroce, dolorosa da morire. Così mi sentivo ogni volta che i miei occhi si posavano su di lui: morire. Un'immagine orrenda che, talvolta, stentavo persino a credere vera. Quando chiudevo gli occhi, nonostante avessi ancora la sua mano nella mia, speravo sempre con tutta me stessa che, riaprendoli, quello scenario sparisse, si dissolvesse, come se fosse una sorta di sogno. O meglio, di incubo. Uno dei tanti incubi che la notte non mi lasciavano mai dormire tranquillamente. Ero sicura che quel tremendo dipinto che avevo difronte agli occhi si sarebbe ripresentato in futuro, a tormentarmi il sonno per chissà quanto tempo, e a ricordarmi perpetuamente che, in parte, era per colpa mia se Jason si trovava immobile in quel letto e in quelle condizioni.

Eppure, stanotte, non avevo avuto alcun incubo.

Me ne accorsi solo in quel momento: avevo dormito nel letto di Harry, tra coperte che profumavano di lui, e, stranamente, nessun incubo era venuto a bussare alle porte della mia mente addormentata.

Improvvisamente, quasi come se qualche strana entità mi avesse appena letto nel pensiero, il rumore di nocche che bussavano gentilmente su una porta mi entrò nelle orecchie. Mi voltai subito, credendo che fosse una delle tante infermiere che, di tanto in tanto, venivano a controllare il sacchetto dell'urina o le numerose flebo infilzate nelle braccia di Jason.

Ma ciò, o meglio colui, che mi si presentò alla vista, mi lasciò totalmente esterrefatta.

Un Harry coi capelli umidicci, probabilmente ancora da una possibile doccia recente, mi stava guardando dalla soglia della porta con i suoi grandi occhi verdi. Dal modo in cui se ne stava in disparte, aspettando un qualsiasi mio cenno d'assenso che gli desse il via libera per entrare, appariva quasi timoroso di poter disturbare, e mi accorsi che tra le mani teneva un piccolo sacchetto bianco.

Lo fissai a lungo, ma la mia bocca rimase chiusa. Fui lui a rompere il silenzio.

«Posso entrare?» chiese soltanto con tono pacato. La sua voce sembrava molto diversa mentre pronunciava quelle parole in modo cauto, lento, quasi sussurrando.

Annuii semplicemente. Il rumore dei tacchetti dei suoi soliti stivali in camoscio rimbombò sul pavimento in finto granito, seguito solo dal leggero e intermittente bip procurato dal lettore di frequenza cardiaca che era vicino al letto. Mi voltai, ed avvertii la presenza del riccio alle spalle.

«Ti ho portato la cena. Non è un granché, sono le uniche cose che ho trovato a quest'ora giù nella caffetteria».

Detto ciò, mi porse sotto il naso il sacchetto di carta, stretto tra le sue dita inanellate.
Lo presi senza tanti cerimoniali, bisbigliando un semplice «Grazie».

Sospirai, tirando un'ultima occhiata a Jason prima di aprire il sacchetto.

«Come sta?» parlò di nuovo, facendomi capire che lo sguardo malinconico che per un secondo avevo posato su Jason non doveva essergli sfuggito. A dire il vero, ad Harry non sembrava mai sfuggire nulla.

La sua voce aveva riacquistato il suo solito vigore, e sentirla alle mie spalle mi procurò una scia di brividi. Cercai d'ignorarli e mi strinse nelle spalle nel tentativo di infondermi un po' di quel calore che, momentaneamente, era venuto a mancarmi.

«Meglio, credo. La dottoressa mi ha detto che ha corso un gran bel rischio. È ancora in coma, comunque, proprio come un passante l'ha trovato ieri sera in un parchetto poco distante dal mio quartiere».

Dire quelle cose ad alta voce fu come riaprire una ferita fresca. Mi sentii bruciare da dentro.

«Cosa?!» esclamò Harry, entrando finalmente nel mio campo visivo.

Prese la sedia situata vicino alla scrivania addossata ad una delle pareti, e si sedette a poca distanza. Poggiò una mano sul mento, gli occhi fissi su di me in maniera estremamente attenta. Un'invito a proseguire.

«Già, proprio così» sospirai, puntando lo sguardo sulle mie scarpe, in modo da nascondere le lacrime che minacciavano di uscire da un momento all'altro «L'hanno trovato riverso a terra, la faccia conto l'erba bagnata. Era già in coma a causa delle tante botte che aveva preso. Ovviamente gli stronzi se l'erano già filata»

Sbuffai un'amara risata. Mi sembrava di vivere in una sorta di limbo: da un lato non mi andava di ascoltare tutti i miei turbamenti interiori uscire dalle mie labbra ad alta voce, poiché non volevo farmi veder debole, non davanti ad Harry; dall'altro, invece, era esattamente la cosa che desideravo più ardentemente.
Mi morsi l'interno delle guance per cercare di trattenere le lacrime, ma, nonostante i miei sforzi, una di esse sfuggì al mio controllo, finendo per rigarmi una guancia e bagnarmi il collo.
A quel punto sbottai.

«Ha rischiato di rimanere paralizzato. Ti rendi conto? Paralizzato a soli dodici anni, con ancora tutta la vita davanti. Ha rischiato di non poter più camminare, di non poter più correre. Ha rischiato di non poter più fare le stesse cose che fa qualsiasi ragazzino della sua età, di rimanere intrappolato per il resto della sua vita su una sedia a rotelle. E la colpa è solo mia, Harry. La colpa è unicamente mia. Mi aveva detto che ieri sera sarebbe andato a casa di un suo amico con altri coetanei, a guardare la TV, mangiare pizza e scherzare. Non me ne sono preoccupata. Mi sembrava una cosa normale per un ragazzo della sua età, per un normale adolescente. Ho pensato "Cosa vuoi che sia, Maxine, non c'è nulla di cui tu ti debba preoccupare". Proprio io che nei suoi confronti sono sempre stata iper protettiva. Che ironia della sorte, eh? E proprio quella sera in cui riesco ad autoconvincermi con tanta fatica che è giusto lasciare a mio fratello i suoi spazi , ecco che me lo ritrovo in ospedale, più morto che vivo. Non so se si sveglierà, Harry. Non lo so proprio. Spero, prego ogni secondo che apra gli occhi, che riveda di nuovo la luce. Vedere un'altra volta i suoi occhi è l'unica cosa che voglio con tutta me stessa. Gli donerei la mia stessa vita, perché lui è la mia vita, e- e se solo potessi... io n-non lo so, Harry, non lo so proprio... So solo che se non dovessi svegliarsi più non me lo p-perdonerei mai»

Finii balbettando le ultime frasi sconclusionate. Ormai non riuscii più a trattenere le lacrime. Tutto il mio corpo era in balìa di tremendi scossoni, il respiro spezzato usciva irregolare dalle mie labbra in sospiri angosciosi.

E poi, all'improvviso, una confortante sensazione di calore mi pervase fin dentro le ossa.

Tastai quelle che capii essere due braccia forti, solide, ben ancorate al mio corpo ancora tremante. Risalii lungo la spalla, fino al retro del collo. Riccioli. Riccioli di morbido velluto si avvolsero attorno alle mie dita in un tocco paradisiaco. Rilasciai un gemito di dolore che finora avevo inconsciamente trattenuto, e una mano calda si appoggiò sulla mia nuca, lasciandomi delicate carezze sui capelli.
Nascosi la faccia nell'incavo del suo collo: inconfondibile profumo di pino. E, solo per un momento, mentre il mio pianto e i miei singhiozzi, ora attutiti contro il tessuto leggero della sua maglietta, non accennavano a placarsi, pensai che mi sarei potuta persino abituare a quella fragranza particolare.

Protetta. È così che mi sentivo, stretta tra le braccia di Harry. Un lontano senso di protezione, che finora non avevo più provato dopo la morte dei miei genitori e che mi era mancato da morire, sopraggiunse come un vecchio amico, alleviando quel vuoto che sentivo nel petto da ormai troppo tempo.

Le morbide labbra di Harry, a contatto con il mio orecchio destro, che mi sussurravano flebilmente «Ssh, rilassati. Va tutto bene» fecero comparire uno strano formicolio sulla mia pelle, e un calore crescente si espanse nel mio basso ventre.

Sì, in quel momento, tra le sue braccia, andava davvero tutto bene. Ci sarei stata ore in quell'abbraccio. Se solo avessi potuto, c'avrei persino vissuto tra le sue braccia. In quell'abbraccio che profumava tanto di familiarità, di casa. Era così che mi sentivo: a casa. Avvolta dal tessuto della sua maglia e dai suoi bicipiti possenti sembrava quasi d'avere una sorta di corazza attorno, come se fossi stata inglobata in una bolla che, per un momento, non aveva permesso ai miei problemi di entrare.
Solo io, solo lui, solo le nostre pelli a contatto e i nostri respiri sincronizzati. Il mio sul suo collo, il suo tra i miei capelli. Il suo fiato caldo, lento e ritmato, simile al vento che solletica le dune del deserto, era in grado di infondermi quella tranquillità disarmante che, solo così, mi accorsi di aver di gran lunga trascurato durante la mia quotidianità.
A volte un abbraccio era davvero l'unica cosa di cui si aveva bisogno.

Mai, mai, mai prima d'ora mi ero sentita così completa, appagata. Proprio io che, dopo quello che avevo subito in passato, non mi sarei mai più dovuta avvicinare ad un uomo nemmeno nei miei sogni.

Mi scostai lentamente dal corpo caldo di Harry dopo quelle che parvero ore, lasciando, a malincuore, quel rifugio che, anche solo per un misero momento, avevo fatto mio.

Non fui abbastanza coraggiosa per incontrare i suoi occhi, non dopo quello che c'era appena stato. Non che fosse successo chissà cosa, ma il fatto che i nostri corpi si fossero incastrati alla perfezione così velocemente, e la strana connessione che avevo avvertito mi aveva sorpresa, e non poco. Come se non fosse la prima volta che l'abbracciavo, che sentivo completamente il suo corpo sul mio. Come se lo conoscessi già da tempo, e non fosse semplicemente il mio allenatore. Come se io fossi il ferro e lui la mia calamita. Era un mix di sensazioni strane che avevo avvertito in una zona indefinita, tra la prima e la seconda pelle. E, raramente, questa mia sorta di istinto innato sbagliava.

Sapevo che se avessi incontrato le gemme vitree che ora mi stavano scrutando dall'alto della loro magnificenza, mi sarei sentita mancare.

Alzai appena lo sguardo tra le ciglia ancora bagnate; notai una macchia scura sulla maglietta di Harry, proprio all'altezza della clavicola.

«Scusa, ti ho bagnato la maglietta con le mie lacrime» ridacchiai appena, tirando su leggermente col naso, nel tentativo di scacciare le ultime tracce umide presenti sul mio viso, quasi sicuramente stravolto dal pianto e dalla stanchezza che stava iniziando a piombarmi addosso.

Feci poi per allungare una mano nella direzione della chiazza, ma Harry me la bloccò a mezz'aria con un movimento improvviso, dando prova dei suoi riflessi pronti. Incastonai automaticamente i miei occhi nei suoi, e sentii la sua grande mano stringersi attorno alla mia ancora sospesa.

Per la manciata di secondi successivi nella stanza si udirono solamente i nostri respiri pesanti, il rumore della macchina che monitorava la frequenza cardiaca di Jason e il battito accelerato del mio cuore, che stava galoppando nel mio petto come un cavallo imbizzarrito.

E mi sembrò di sprofondarci dentro quegli occhi color delle praterie d'Irlanda che mi fissavano come se volessero leggermi dentro, cogliere la parte più nascosta di me, quella faccia della luna che rimaneva quasi sempre all'oscuro.

«Voglio solo che tu sappia che non è colpa tua se Jason si trova in queste condizioni. Tu non ti devi recriminare nulla, non hai commesso nessun torto. E è davvero importante che tu lo capisca, Maxine».

Furono la sua voce graffiante e i suoi smeraldi inchiodati su di me a riportarmi alla realtà. Fece una pausa, un sospiro, e mi guardò come se avesse paura che da un momento all'altro sarei potuta scomparire, sciogliendomi proprio su quella sedia davanti a lui, trasportata via dalle lacrime che avevano ripreso a scivolare sul mio viso, e che ogni volta sembravano portare via nella loro corsa un pezzo di me e dell'enorme senso di colpa che mi attanagliava il petto, facendomi mancare il respiro.

«E credimi, credimi quando ti dico che se le cose erano destinate ad andar in quel modo, non avresti potuto far nulla per migliorare la situazione, neanche se fossi stata Superwoman. Tu sei già la sua Superwoman Maxine, in ogni caso. Lo sei tutti i santi giorni quando gli prepari i tuoi buonissimi pancakes che anche io ho avuto la fortuna di assaggiare, lo sei quando lo accompagni a scuola, quando cammini di soppiatto per non svegliarlo. L'ho visto come lo guardi, sai? Lo guardi con tutto l'amore del mondo. Ogni volta che posi lo sguardo su di lui, in ogni dettaglio del tuo viso si può leggere tutto l'amore che provi nei suoi confronti».

Altra pausa. La sua mano libera andò ad appoggiarsi sulla mia guancia con una delicatezza sorprendente, spazzando via con il pollice una piccola goccia che si stava facendo strada sul mio zigomo. L'altra mano rimase intrecciata alla mia.

«Non hai fatto nulla di male nel lasciargli i suoi spazi, è giusto così, è normale. Tu non potevi saperlo Maxine, e non potevi evitarlo. Tu non hai colpa» finì sussurrando l'ultima frase, ma la sua attenzione per me non vacillò nemmeno per un istante.

Si morse il labbro inferiore quando ancora i suoi occhi vagavano sul mio volto, dardeggiando tra le mie labbra e i miei occhi come la pallina impazzita di un flipper.

Sentii lo stomaco accartocciarsi nell'addome.
Non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo ancora per un po', memorizzando la curva languida delle sue labbra invitanti. Evitai il contatto con gli occhi: quelli sì che mi avrebbero fregata, ne ero certa.

Spostai quindi il mio focus su Jason, voltando leggermente il capo verso il letto in cui stava sdraiato. E poi, all'improvviso, non fui più in grado di tenere imprigionati i miei pensieri nel vorticare machiavellico della mia mente.

«Lui è tutto per me. È la mia famiglia da quando sono morti i miei genitori, ed io sono la sua. Io ho solo lui, e lui ha solo me».

Anche se non lo stavo guardando, concentrata sulla perenne immobilità di mio fratello, ero certa che Harry stesse per aprir bocca. Non gli diedi il tempo di farlo e lo precedetti, ormai totalmente incapace di tenere a freno la mia lingua.

«Sono morti parecchi anni fa. Avevo quattordici anni, e mio fratello circa sette. Andammo a vivere dai miei zii, i genitori di Sarah. Fu un periodo difficile, dovetti farmi carico di tutte le responsabilità che riguardavano me e Jason, considerando che entrambi eravamo ancora minorenni. Mia cugina ovviamente cercò di aiutarci come meglio poteva ma, anche se non lo davano a vedere, sapevo che eravamo un peso per i miei zii. Così, all'età di sedici anni, decisi di andare a vivere di nuovo nella casa dei miei, e, ovviamente, dovetti anche iniziare a lavorare per poter mantenere me e Jason, che all'epoca aveva quasi nove anni. Nel frattempo mia cugina si era già accostata alla strada delle lotte clandestine, senza che ovviamente i suoi lo sapessero. Se lo avessero scoperto sarebbero sicuramente morti dal dispiacere. Così ho iniziato a lavorare come commessa part-time nella piccola ferramenta che hai visto, talvolta facendo persino i turni doppi per riuscire a racimolare qualcosa in più. Quando però scoprii che la via intrapresa da Sarah poteva permettermi di guadagnare di più, ecco che mi feci trascinare. Per i primi anni fui sotto la sua ala protettiva, finché, a causa di una gravidanza inattesa che aveva compromesso inevitabilmente il suo fisico, Sarah decise di ritirarsi lasciando il posto alla sottoscritta. Fu allora che spiccai il volo da sola. La scuola di Jason costava e costa tuttora parecchio essendo una delle più prestigiose del Paese, però tra i turni della mattina e quella sottospecie di lavoro riuscivo a mantenere sia me che lui discretamente. La mattina andavo al lavoro, mentre di notte combattevo e mi allenavo, a volte anche fino all'alba; mi è capitato spesso infatti di arrivare a lavoro completamente rincoglionita o di crollare dal sonno proprio sulla cassa. Ho rinunciato io agli studi per far sì che lui potesse continuarli, poiché sapevo che questo istituto gli avrebbe aperto tante porte in futuro. Il suo sogno è sempre stato quello di diventare un medico, e, probabilmente, se si dovesse svegliare sarebbe persino contento di trovarsi qui. Ma sai una cosa, Harry? Che nonostante tutto quello che ho dovuto sopportare e affrontare nella mia vita, rifarei tutto daccapo per il bene di Jason».

Avevo parlato tutto d'un fiato e senza pensarci. Se mi fossi concessa la possibilità di fermarmi a rifletterci anche solo un secondo più, ero sicura che non mi sarei mai esposta così tanto. Del resto era venuto tutto così spontaneo, non avevo dovuto nemmeno sforzarmi o pensare a cosa dire. Non seppi se fosse stato per la vulnerabilità che la vista di Jason mi causava, per la giornata stressante che avevo avuto, o per la stanchezza che sentivo schiacciarmi sempre più i muscoli, non seppi se fosse stata colpa dell'emotività di cui ormai ero preda o la semplice consapevolezza di aver accanto un buon ascoltatore, ma stava di fatto che le parole erano fluite tranquillamente dal mio cervello alla mia bocca, per poi scivolare fuori dalle mie labbra con una facilità che mai mi sarei aspettata. Era stato tutto così semplice, troppo semplice che quasi mi sentivo in colpa per la leggerezza con cui avevo pronunciato quelle parole ad alta voce, e, per giunta, ad un semi-sconosciuto. Era la prima volta che raccontavo la mia vita a qualcuno, la prima volta che mi mettevo a nudo senza togliermi i vestiti. E non avrei mai pensato che, un giorno, quel primo qualcuno a cui avrei raccontato tutta me stessa sarebbe stato proprio lui.

Distolsi lo sguardo da mio fratello, che nei secondi appena trascorsi era stata la musa per il mio decalogo personale. Mi voltai finalmente verso il riccio. Quest'ultimo mi stava fissando così intensamente che temevo quasi che, di lì a poco, sarei stata perforata dalla sua espressione marmorea sul posto.

«Non so che dire Maxine, davvero. Tutto ciò ti fa onore. Non avrei mai immaginato che avessi dovuto affrontare tutto questo» ammise con sincerità, prima di sospirare e riprendere di nuovo «ma sapevo, anzi mi sentivo che, comunque, dietro ad una donna forte come te ci doveva per forza essere una storia straordinaria» sorrise, abbozzando appena due adorabili fossette ai lati delle guance.

Risi appena, e «Non ti facevo così poetico e profondo» lo canzonai, guardandolo di sottecchi con un ghigno sbarazzino a riempirmi il volto.

«Ed ecco che ci risiamo. È ritornata la Maxine stronza che gioca a fare l'apatica senza sentimenti, quando invece sappiamo entrambi che è come una di quelle caramelle dure fuori e dal cuore morbido. Mi sembrava troppo bello per essere vero il fatto che non avessi ancora rotto i coglioni» roteò gli occhi al cielo, incrociando le braccia dietro la testa e stravaccandosi sulla sedia con aria saccente.

Ed ecco che, allo stesso modo, era ritornato il solito Harry. Un sorriso nacque spontaneamente sul mio viso.

«Beh, a mia discolpa posso dire che tutti questi sentimentalismi mi stavano dando la nausea» alzai le spalle, cercando di reprimere un altro sorrisetto di sfida.

«Touché».

Il silenzio calò nuovamente il suo velo su di noi, avvolgendoci come una coperta imbarazzante. Imbarazzante perchè, stavolta, nessuno di noi due aveva il coraggio di fronteggiare gli occhi dell'altro.

«Ti va di fare una pazzia?»

Mi voltai di scatto, gli occhi sgranati e i tratti come riflesso di puro sbigottimento. Lui, dal suo canto, si presentava con due dita che pizzicavano il labbro inferiore e come la persona apparentemente più tranquilla del mondo.

«Lo prendo come un ».

Senza che nemmeno riuscissi a controbattere, costui si alzò di scatto e mi afferrò la mano, tirandomi su con poca delicatezza. Venni trascinata via, ma, fortunatamente, prima di uscire dalla stanza con un Harry che tirava peggio di un bambino verso una bancarella di caramelle, riuscii ad appoggiare sul tavolino accanto al letto il pacchetto di quella che in precedenza avrebbe dovuto essere la mia cena.

Corremmo con le mani intrecciate per i vari piani dell'ospedale, schivando di tanto in tanto qualche infermiere che ci malediceva. In effetti, con le gambe che si muovevano veloci e le risa che uscivano di gusto dalle nostre labbra, sembravamo davvero dei pazzi.

Uscimmo fuori e fummo travolti da una pioggia fitta che, in breve, ci inzuppò completamente. Eppure ciò non bastò né ad attenuare le nostre risate né a fermare il riccio che, tenendomi sempre ben stretta, continuò a correre per le strade di New York sotto l'acquazzone.

Un'indescrivibile sensazione di libertà m'invase completamente. A quel punto non contarono più né l'affanno nascente della corsa né i vestiti che pian piano si appiccicavano alla pelle.

Alzai il capo verso il cielo. Lo scoprii stellato.

Mi sembrò di rinascere.

• • •

I'm back, guysss 💖
Sinceramente non sono molto soddisfatta di questo capitolo, quindi stavolta tengo particolarmente al vostro parere.

Fatemi sapere nei commenti che ne pensate, e se vi è piaciuto lasciate una stellina :)

Domandina/e: cosa pensate che accadrà nel prossimo capitolo? Quale "pazzia" farà fare il nostro Harry a Maxine? 😏 E soprattutto: avrà fatto bene Max a confidarsi così con Harry? Vi  è piaciuta la sua reazione a quelle parole?

Scrivete tutto qui sotto!

Un kiss,
Ila

Ps: prima o poi ce la farò ad aggiornare ad orari decenti e in tempi abbastanza brevi, o almeno morirò sperandolo ;)
Intanto amatemi che il capitolo è super lungo 🥰

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