Sins Β» h.s

By ilxris

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"Ti avevo avvisata, tempo fa. Ti dissi che avresti fatto meglio a non innamorarti di me, sarebbe stato un pec... More

SINS
Zero: the show starts. Or, maybe, it was already started.
One: the lying lioness.
Two: who was he?
Three: mom and Jason.
Four: surprise!
Five: his name.
Six: chaos.
Seven: nightmare.
Eight: I'm sorry.
Nine: truce? Probably yes.
Ten: memories VS reality.
Eleven: drunk & nasty.
Twelve: promise you won't fall in love with me.
Thirteen: stench of burnt.
Fifteen: painting pain.
Sixteen: lost in confusion, like an illusion.
Seventeen: you don't know how things really are, Max.
Eighteen: born again.
Nineteen: rollercoaster.
Twenty: rain.
Twenty-one: he needs me.
Twenty-two: silent fire.
Twenty-three: doors.
Twenty-four: blue eyes... please, tell me a lie.
Twenty-five: the quiet before the truth.
Twenty- six: but I know one thing.
Twenty-seven: reason, feeling & some "I don't give a fuck".
Twenty-eight: point of no return.
Twenty-nine: black widow.
Thirty: black widow pt.2.
Thirty-one: let's talk about love.
Thirty-two: confessions.

Fourteen: a call from the hell.

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By ilxris

Non importa
quanto sofisticate siano le nostre scelte,
o quanto bravi siamo a dominare le probabilità:
il caso avrà comunque l'ultima parola.
-Nicholas Nassim Taleb.

Era passata una settimana dall'ultima volta che avevo visto Harry. Una settimana da quello che era successo a casa mia, con mio fratello.

Fortunatamente le cose con lui si erano risolte nel giro di un paio di giorni, anche se -sempre e comunque- tra vari battibecchi e porte sbattute sonoramente in faccia.

Non potevo dire lo stesso con Harry, però. Non lo avevo più cercato da allora. E anche lui, dal suo canto, aveva fatto lo stesso.

Non che me ne importasse francamente. Meglio così, ultimamente si stava impicciando troppo nella mia vita, stava iniziando ad assumere un ruolo che non gli doveva assolutamente appartenere. Con presunzione e arroganza, era riuscito ad indebolire la mia corazza, a scalfire le mie mura: mi aveva fatta cedere. E questo non sarebbe mai dovuto accadere.

Era il mio allenatore, e l'unica cosa che avrei dovuto condividere con lui erano gli allenamenti; nient'altro.

Ero certa che anche lui sapesse di aver esagerato quel giorno, di aver sbagliato ad intromettersi in un discorso così delicato e che riguardava solo me e mio fratello, perché, inevitabilmente, ciò aveva finito per farci litigare. Cos'era, allora, che lo frenava dal cercarmi o dal chiedermi scusa? Semplice, il suo orgoglio grosso quanto una cazzo di casa. Per questo non si era più fatto vivo.

In ogni caso, da un lato ero anche contenta di ciò: era la mia vita, lui non mi conosceva e, dunque, non aveva nessun diritto di intromettersi. Nemmeno io lo conoscevo, a dire il vero. Dovevo ancora capire come avesse fatto a sapere dove abitavo, ad avere il mio numero, a conoscere il mio posto di lavoro. Ma, soprattutto, dovevo ancora capire perché Louis avesse scelto di affibbiarmelo come nuovo coach. Del resto i miei allenamenti potevano continuare benissimo anche senza di lui, poiché, per fortuna, mi rimaneva sempre mia cugina Sarah, una delle migliori nel suo campo.

Fu proprio quella mattina, mentre ero presa in uno degli allenamenti con lei - dato che avevo ricominciato ad allenarmi proprio in quegli ultimi giorni, all'interno della solita, vecchia palestra fatiscente- che il mio telefono squillò.

«Vai pure a rispondere» mi concedette Sarah, indicando con un cenno del capo il cellulare che avevo lasciato su una panchina, ed il cui schermo stava ora lampeggiando ripetutamente, segnalando l'arrivo di un messaggio.

Annuii in risposta, bevendo un sorso d'acqua da una bottiglietta. Sarah si sedette su un'altra panchina per riposarsi un attimo, ed io m'incamminai in direzione del mio telefono.

Accesi il display e, non appena lessi il nome su di esso, per poco non mi strozzai con l'acqua che tenevo in bocca.

Da: Harry.
"Stasera, 8.30. Ti passo a prendere"

Messaggio chiaro, lampante, estremamente conciso. La freddezza visibile anche dietro a quelle esigue parole.

Il sangue mi si gelò nelle vene all'idea di doverlo rivedere; come se il mio corpo avesse paura di ritrovarsi vicino al suo e, allo stesso tempo, morisse dall'irrefrenabile voglia che accadesse esattamente questo.

Sopirai frustrata, e feci appello alla mia grande forza di volontà per cercare di estrapolare - in qualche strano modo - il meglio dalla situazione che mi si era appena presentata: almeno questa poteva essere la mia occasione per scoprire, anche solo in parte, cosa si nascondesse dietro ad Harry.

-

8.45.

Era questo l'orario che segnavano le lancette del grande orologio appeso alla parete della cucina, e che, negli ultimi quindici minuti, avevo guardato almeno una volta a minuto. Odiavo chi arrivava in ritardo, e, ovviamente, quella sera Harry lo avrebbe fatto.

Sbuffai per quella che doveva essere la milionesima volta, continuando ad armeggiare svogliatamente con il mio telefonino, seduta in maniera scomposta sul divano situato nel bel mezzo del salotto.

Stamattina, dopo aver ricevuto il messaggio di Harry, avevo proseguito l'allenamento con Sarah per altre due ore circa. Due ore trascorse, oltre che colpire un sacco, a tentare, invano, di schivare le assidue domande che mia cugina a continuava a lanciarmi addosso come proiettili. Domande che, com'era suo solito, spaziavano dall'argomento più banale a quello più spinoso, ovvero Harry. Quando mi aveva chiesto come stessero andando le cose con quest'ultimo - o meglio, come stesse andando la mia preparazione fisica in vista del campionato -, mostrando anche una certa particolare preoccupazione a riguardo, mi ero limitata a risponderle con un banale e finto "tutto apposto, grazie", con tanto di sorriso, altrettanto meschino, ad incorniciarmi le labbra. Capivo la sua insistenza nel porgermi domande, poiché era collegata al suo bisogno di risposte. Risposte che, purtroppo, nell'ultimo periodo erano venute a mancare.

Avevamo da sempre avuto un rapporto molto intimo, io e lei, ma ultimamente entrambe non potevamo negare di esserci un po' staccate; lei per i suoi motivi, nonché Niall e Bryan, - il quale, crescendo, richiedeva sempre più attenzioni e manifestava nuove esigenze - ed io per i miei. In particolare da quando, all'interno della mia già abbastanza incasinata vita, aveva fatto la sua comparsa il riccio, che, con il suo fascino arrogante, aveva finito per complicare maggiormente il tutto. Nonostante Sarah sapesse esattamente tutto di me, nonostante il grande legame liquido che scorreva direttamente nelle nostre vene, e che ci univa più di ogni altra cosa, non mi ero comunque sentita di dirle tutta la verità riguardo al riccio. Non me l'ero sentita perché forse, infondo, ciò che accadeva tra me e lui suonava strano persino a me stessa. Era quasi come se avessi paura a parlare ad alta voce con qualcun altro del non-rapporto, se così poteva essere definito il nostro continuo battibeccare, che si era instaurato tra di noi. Non appena mi balenava in mente l'immagine del suo volto, il mio corpo reagiva nello stesso identico modo: la pelle diveniva preda di un formicolio criptico, il respiro accelerava, le mani sudavano ed il cuore sembrava schizzarmi fuori dal petto. Gli stessi sintomi che avvertivo quando lui si trovava vicino a me in carne ed ossa.

Ero arrivata a pensare che si trattasse di una sorta di segnale d'allarme che il mio corpo aveva deciso di lanciarmi, come se sapesse che avrei dovuto contrastare la crescente frequenza con cui i miei pensieri, inevitabilmente, finivano proprio su di lui; come se sapesse che fosse sbagliato, che fosse un peccato; come se volesse mettermi in guardia da qualcosa. O, meglio, da qualcuno. Allo stesso modo, però, ero piuttosto sicura che quel qualcuno non fosse Harry. Era una sensazione ambigua, una sensazione che avvertivo sotto la pelle e mi attanagliava lo stomaco. Una sensazione che non sapevo descrivere nemmeno a me stessa, figuriamoci a qualcun altro. Non importava che fosse anche la persona a me più cara o uno sconosciuto, non appena provavo anche solo a pronunciare il suo nome difronte a qualcuno la gola pareva seccarsi improvvisamente. E, alla fine, dalla mia bocca, puntualmente, non usciva alcun suono. Come se, in realtà, il mio inconscio volesse tenere quelle sensazioni ben serrate all'interno del mio essere, mostrandosi malsanamente geloso di ciò che lui, Harry, riusciva a procurare in me anche uno stupido sguardo.

Ed era strano, tremendamente strano per una come me. Strano e spaventoso. Non riuscivo a capacitarmene, probabilmente, da un lato, non volevo nemmeno. Non volevo perché non avevo mai avuto bisogno di nessuno. Non volevo perché non dovevo cedere. Non volevo perché non potevo lasciarmi abbindolare così facilmente da quelle iridi color smeraldo. Lo sapevamo perfettamente entrambi.

E quella sera era la mia chance per riuscire a capirci qualcosa in più in tutta questa tremenda situazione.

All'improvviso, l'acuto suono del campanello di casa si fece largo nei miei timpani, scuotendomi violentemente dal turbinio di riflessioni in cui, come sempre, ero caduta. Mi maledissi mentalmente per essermi ritrovata a pensare per l'ennesima volta alla persona che ora, quasi sicuramente, mi stava attenendo al di là della porta d'ingresso.

Risposi velocemente ad un messaggio di Beth, in cui m'informava del fatto che fosse dovuta tornare a casa prima del previsto poiché sua nonna era stata colpita da un brutto virus, e si scusava per non essere riuscita a salutarmi. Dopo di che gettai malamente il cellulare nella borsa, alzandomi dalla mia comoda seduta. Mi diressi a passo svelto verso l'entrata e, senza alcun tipo di esitazione, splancai la porta.

A quel mio gesto, colui che mi aspettavo di trovare alzò immediatamente il capo, permettendo ai suoi occhi vitrei di legarsi immediatamente ai miei.

E se ne stava lì, in piedi, al centro del pianerottolo: le mani inanellate affondate con noncuranza nelle tasche degli skinny neri, il solito ciuffo che gli cascava in boccoli ribelli sulla fronte e un sorrisetto impertinente a dipingergli le labbra, somiglianti a due petali di rosa.

Il mio cuore perse un battito.

«Hey» la sua voce roca fece capolino al di fuori della cornice rosata, graffiando i miei timpani come da consuetudine, mentre i suoi occhi scivolavano sul mio corpo, passandolo in rassegna dalla testa ai piedi senza nemmeno curarsi del fatto che potessi notarlo.

«A cosa devo questa visita?» andai dritta al sodo, non schiodando il mio sguardo dal suo.

Prima di rispondere, i suoi occhi si presero del tempo per scrutarmi ancora. Quel verde misterioso parve perforarmi direttamente il petto. S'insinuò sotto l'epidermide, scavò nelle mie costole, attraversò la corazza di pietra che avvolgeva il mio organo pulsante ed arrivò dritto lì, proprio in quel punto, il mio punto debole, facendomi tremare le interiora. E quel suo tocco, seppur vellutato, seppur non lampante, non direttamente avvertibile sulla mia pelle, mi fece male. Mi fece male perché, in quell'esatto istante, giunsi ad un'amara consapevolezza: la ferrea protezione che negli anni, caduta dopo caduta, sconfitta dopo sconfitta, avevo eretto attorno al mio cuore, oramai debole e stanco, si era rivelata soffice coltre di piuma al cospetto di quel colore vivo.

«Stasera ti porto fuori a cena» sentenziò, di punto in bianco.

Giurai di aver sentito il tonfo procurato dall'urto della mia mandibola contro il cemento del pianerottolo. Non poteva averlo detto sul serio.

«Bella battuta» una risata nervosa lasciò le mie labbra, mentre con le braccia ancora incrociate al petto osservavo un'espressione alquanto stranita farsi spazio sul volto del giovane difronte a me.

Il mio riso cessò immediatamente e, tutt'a un tratto, mi feci anch'io seria. Fissai il riccio per un tempo indefinito, convinta che, prima o poi, aprisse bocca per darmi ragione e dire che questo era stato effettivamente uno scherzo. Ahimé, non lo fece.

«Stai scherzando, vero?» continuai, cercando disperatamente una conferma alle mie ipotesi.

Non ero una tipa da cenette romantiche o stronzate varie, e, a dire il vero, non avrei mai pensato che invece potessero piacere ad uno come Harry.

Come se mi avesse letto la mente, quest'ultimo scrollò le spalle «Rilassati, non è nulla di troppo formale», per poi voltarsi e dirigersi verso la sua lucente auto nera, parcheggiata proprio alla fine del mio giardino, oltre il marciapiede consumato.

Mi ci volle un secondo per realizzare quanto fosse appena accaduto, due per immagazzinare la risposta che mi aveva riservato: onestamente, non seppi se tirare un sospiro di sollievo davanti alla conferma che Harry non fosse tipo da cenetta romantica, o se essere terrorizzata all'idea che, comunque, quella di stasera sarebbe stata né più e né meno una cena con lui.

«Hai ancora tanto da star lì imbambolata?» la voce roca del riccio arrivò alle mie orecchie all'improvviso, destandomi dal mio stato di trance.

Solo ora constatai di essere rimasta impalata difronte alla porta aperta di casa mia, lo sguardo perso nel vuoto. Harry, invece, mi stava già aspettando di fianco alla sua vettura, appoggiato in maniera scomposta alla portiera del guidatore, ora aperta.

Entrai in casa frettolosamente, afferrai la borsa che avevo abbandonato malamente sul divano, presi una felpa dall'attaccapanni e, dopo aver lanciato una veloce occhiata al mio riflesso, disegnato nel piccolo specchio che si trovava nel salotto, uscii definitivamente, chiudendomi la porta alle spalle con tre mandate. Quella sera Jason era - a suo dire - uscito con alcuni compagni di scuola. Mi aveva detto che sarebbero andati a casa di uno dei suoi amici, e che avrebbero trascorso la serata giocando a qualche videogioco e mangiando schifezze, perciò non mi ero preoccupata più di tanto. Nonostante i litigi che avevamo avuto nell'ultimo periodo, sapevo di potermi fidare di mio fratello, era un ragazzo con la testa sulle spalle. Infondo ero anche contenta che avesse finalmente trovato dei coetanei con cui uscire, e che fosse riuscito a farsi degli amici.

Probabilmente, in quei giorni, ero stata davvero troppo apprensiva ed estenuante nei suoi confronti riguardo a ciò. Dovevo solo rilassarmi di più e lasciare a Jason la possibilità di vivere la sua vita. Ormai era cresciuto, non era più quel bimbo di sei anni che ero solita accompagnare a scuola e, volente o nolente, me ne sarei dovuta fare una ragione. Per quanto fosse difficile rendersi conto che tuo fratello, nonché la tua unica famiglia, si stesse pian piano ritagliando i suoi spazi, non potevo far altro che accettarlo. Avrei dovuto imparare a conviverci, anche se non sarebbe stato facile con la paura - infima nemica - dietro l'angolo di perdere la persona più importante della tua vita.

Di conseguenza, l'unica raccomandazione che mi ero permessa di fargli, in qualità di sorella maggiore, era stata quella di obbligarlo ad avvertirmi quando avrebbe rincasato. Meritava anche lui un po' di spensieratezza in questo mondo avvolto dal caos più totale.

Salii sulla macchina del riccio quando lui era già all'interno dell'abitacolo. Mise in moto. In un attimo fui avvolta dal rombo del motore che si accendeva, mischiato al profumo fresco che aleggiava nell'aria, e di cui erano impregnati sia i comodi sedili in pelle, sia il tessuto leggero della maglietta del ragazzo accanto a me.

Ad essere sincera, ero ancora stranita da tutto questo. Stranita di trovarmi dov'ero adesso, stranita dal rapporto che si stava instaurando tra me e colui che avrebbe dovuto essere il mio allenatore. I miei pensieri usavano il condizionale perché, in realtà, si era dimostrato tutto tranne che questo, fino ad ora. Non avevamo fatto altro che discutere, era un continuo litigare e poi riprenderci, litigare di nuovo e allontanarsi ancora. Ed il bello era che nessuno dei due conosceva l'altro, o almeno questo era quello che credevo. Io non sapevo nulla di Harry, se non il suo nome ed il fatto che fosse uno stronzo arrogante, pronto a portarsi a letto una tipa diversa ogni sera. Ma lui... Lui cosa sapeva realmente di me? Possibile che mi conoscesse più di quanto realmente pensavo? A volte mi sembrava proprio che fosse così.

«Vuoi vedere un panorama ancora più stupendo?»

Trasalii nel sentir la voce di Harry, maledicendomi per essermi persa ancora una volta nei meandri della mia mente.

Mi voltai verso di lui, un'espressione confusa incisa sul mio viso.

«Continui a guardare fuori dal finestrino» puntualizzò, senza mai staccare lo sguardo dalla strada.

Si fermò ad un semaforo che sfoggiava con arroganza un rosso talmente acceso da sembrare sul punto di urlare per davvero stop. Con la stessa insolenza, il colore vivido s'incollò al volto di Harry come una sorta di pellicola eterea, caricandolo di nuovi particolari, a me inediti, e da cui il mio occhio curioso venne subito ammaliato. La mandibola perfettamente squadrata risaltava nella penombra rossastra, in totale simbiosi con gli zigomi taglienti, anch'essi intenti a sguazzare indisturbati in quel colore che ne metteva in risalto la linea ben definita, ma comunque in contrasto con la morbidezza delle labbra carnose. Il naso, visto di profilo, sembrava stato essere scolpito nel marmo da un'artista del calibro di Raffaello o Michelangelo: la punta leggermente all'insù, le narici delimitate da due semicerchi perfetti, il setto stretto e longilineo che s'arrampicava dolcemente sul suo volto, terminando poi in due folte arcate sopracciliari che, come la miglior cornice del più bel quadro, custodivano il pezzo forte dell'intera opera: due verdi smeraldi dorati che non persero tempo ad onorarmi con la loro più totale attenzione.

«E sentiamo, quale sarebbe questo panorama stupendo?» rotei gli occhi al cielo, incrociando le braccia al petto.

Lui rise «Lo stai già ammirando».

Sbuffai una risata, divertita dalla sua risposta esageratamente egocentrica. Non mi stupii. Del resto Harry era un concentrato di egocentrismo, mischiato ad un bel po' d'insolenza ed altrettanta malizia. Ormai non mi restava altro che riderci sopra.

Nel frattempo la luce del semaforo era cambiata, ed il viso di Harry si era colorato improvvisamente di un verde vivido, che mi ritrovai a ritenere comunque più spento rispetto a quello che lui aveva incastonato attorno alle pupille. Aveva poi svoltato velocemente a destra, e posteggiato l'auto sullo stesso lato, accanto al marciapiede di una piccola via ricca di luminose insegne al neon.

«Siamo arrivati, comunque» annunciò, spegnendo l'auto con un veloce movimento della mano.

Scese rapidamente dalla vettura, ed io feci lo stesso. Venni subito colpita da una calda folata di vento, testimone del fatto che negli ultimi giorni le temperature si fossero alzate vertiginosamente nella City, e subito constatai che, per quella sera, avrei potuto benissimo fare a meno della felpa che mi ero portata dietro.

Mi diedi poi una veloce occhiata intorno: numerose scritte fluorescenti brillavano sotto il mio sguardo, ricordando alle persone distratte che, immerse nei loro pensieri, camminavano svelte sul marciapiede scuro - com'era tipico per i newyorkesi, conosciuti per essere perennemente di fretta -, la presenza di innumerevoli pub e piccoli fastfood. I colori sgargianti presenti in quella viuzza andavano a mescolarsi con le dolci pennellate pastello degli ultimi raggi di sole; quelli più restii a sparire dietro l'orizzonte, per lasciar posto ad un firmamento blu scuro, che, quella sera, per qualche strana ragione, sentivo sarebbe stato pieno di stelle.

Sentii una porta aprirsi, e un insolito ticchettio metallico mi solleticò le orecchie. La mia testa scattò nella direzione da cui era provenuto il suono, e al di là della vetrata del locale che avevo innanzi riuscii ad intravedere un familiare casco di ricci. Senza perdere ulteriore tempo, mi affrettai a raggiungerlo.

Non appena varcai la soglia di quel piccolo fastfood, i miei sensi vennero travolti da un'inconfondibile profumo di fritto. Mi affiancai ad Harry che, col naso puntato all'insù, stava consultando il menù di quello che scoprii chiamarsi "Fry & Smile".

«Per me un cheeseburger, una porzione grande di patatine e una Coca-Cola» parlò velocemente il riccio, comunicando il suo ordine alla biondina che si trovava dietro alla cassa.

Quest'ultima annuì freneticamente, digitando sul display difronte a lei senza mai staccare lo sguardo da Harry, che ora mi stava fissando intensamente.

«Lo stesso» dissi rapidamente, sentendomi stretta in una sorta di triangolo visivo, con lei che guardava lui e lui che, invece, osservava me.

A quel punto il riccio si voltò e, sempre senza proferir parola, come da quando era sceso dalla sua macchina, andò a cercare un tavolo libero. Lo seguii, portandomi appresso il dubbio che la cassiera avesse scritto correttamente i nostri ordini.

Fortunatamente non ci mettemmo molto a trovare un posto, considerando che non vi era molta gente all'interno di quelle quattro mura colorate. Optò per un tavolino nell'angolo, vicino alla vetrata principale, particolare che ci permetteva di avere una fantastica visuale della strada, a quell'ora parecchio affollata di passanti. Un po' le invidiai, quelle persone ignare di tutto. Ignare della morsa in cui sembrava essersi stretto il mio stomaco non appena mi ero seduta su uno dei divanetti bordeaux che circondavano il tavolino rettangolare, proprio dinnanzi ad Harry.

Subito, infatti, le sue iridi vivaci guizzarono sul mio viso, che, improvvisamente, avvertì uno strano calore. Mi guardai un po' attorno, approfittandone per sciogliere un contatto visivo che, a dire il vero, non volevo nemmeno intraprendere: il piccolo fastfood in cui mi aveva portata si trovava all'angolo di un'incrocio tra due strade, ricche di locali simili a quello in cui mi trovavo. Caratterizzato da un arredamento anni '80, con la pelle delle sedute leggermente sgualcita, le luci aranciate come le pareti e il pavimento a scacchi, all'interno di quel posto pareva aleggiare un'aria serena, pur sempre impegnata di fritto, ma comunque piuttosto intima.

Nonostante abitassi ormai da anni a New York non mi era mai capitato di passare in questa via, né tantomeno avevo mai sentito parlare di questo locale. Non che la cosa mi stupisse, comunque. La grande mela era una città così viva - e grande, tremendamente grande - che ogni giorno pareva spuntare dal nulla una strada del tutto nuova. In sostanza, ogni giorno ti sembrava di vivere in una città differente, ti sentivi costantemente un cittadino del mondo; anche se, magari, eri abituato a percorrere sempre lo stesso tragitto per andare a casa o al lavoro, anche se, magari, eri un tradizionalista, e dunque ogni mattina non mancava mai la tappa alla tua caffetteria preferita. Abitare in una metropoli del genere significava uscire di casa e respirare ogni giorno un'aria diversa, poiché non sapevi quali profumi ed odori avrebbero svegliato i tuoi sensi per primi quel giorno, oppure sentirti ogni volta in un paese differente, a causa delle facce dagli svariati tratti somatici che ti capitava di adocchiare anche solo di sfuggita. Eppure era proprio quel tripudio di colori, odori, visi, sapori, suoni e paesaggi che, in un certo senso, sapeva farti sentire a casa.

Non c'erano vie di mezzo con New York, o l'amavi o la odiavi. Ed io, personalmente, avevo imparato ad amarla.

«Sei pensierosa» la sua voce roca trafisse le mie orecchie come la lama di un coltello.

«Può darsi» mi limitai a scrollare le spalle, distogliendo lo sguardo che nel frattempo si era posato sulla strada, riportando la mia attenzione sulla persona che era seduta davanti a me.

E li incontrai di nuovo, quegli occhi tentatori. Mi scrutavano, passando in rassegna ogni centimetro del mio viso. Il nodo al mio stomaco si fece più stretto.

«Non era una domanda» affermò duramente, senza mai smettere di osservarmi.

Così ci guardammo per quella che apparve un'eternità di tempo, e il mondo attorno a noi scomparì, quasi si fosse volatilizzato tutt'a un tratto. Mi osservò con una tale intensità che mi parve di sentire le mie pupille bruciare, incapaci di sostenere l'austerità che trapelava da quegli squarci verdi, in quel momento più scuri del solito sotto la luce giallognola delle piccole lampade rosse, che pendevano timide dal soffitto con un misero filo. Tuttavia non cedetti, anzi, mi costrinsi a sostenere il magnetico legame ottico che si era instaurato.

Non volevo dargliela vinta, non così facilmente.

Fu per questo che decisi di porre a colui che avevo difronte la prima della serie di domande che, da quando l'avevo conosciuto a questa parte, mi ronzavano per la testa. Fu questo che segnò finalmente l'arrivo del momento che avevo tanto sperato.

«Come hai fatto a sapere dove abito e dove lavoro?» chiesi di punto in bianco, le parole che rotolavano sicure sulle mie labbra prima ancora che me ne potessi rendere conto.

Harry, dal suo canto, sbiancò, preso in contropiede dalla fermezza con cui avevo pronunciato quel quesito. Un sorriso sornione s'impossessò del mio volto, mentre, totalmente compiaciuta nel vedere la difficoltà farsi spazio sul volto dell'altro, aspettavo ansiosamente la risposta che tanto stavo bramando.

Tuttavia quella risposta tardò ad arrivare. Il riccio infatti, prima di aprir bocca, si schiarì la voce; il capo chino, probabilmente intento a soppesare per l'ennesima volta ciò che realmente voleva dirmi. Sapeva di non potersi permettere sbagliare. Un passo falso e sarebbe stato caput.

All'improvviso i suoi occhi furono nuovamente nei miei, e giurai di aver intravisto un subitaneo lampo di luce attraversarglieli.

«Ho i miei mezzi» scrollò le spalle con fare noncurante, l'espressione strafottente e la schiena ampia che aderiva perfettamente alla morbida seduta.

«Stronzate» ringhiai, avvicinandomi a muso duro e battendo violentemente un pugno sul tavolo, gesto che bastò a far sobbalzare il vassoio che era stato posizionato senza che me ne fossi accorta.

Ero troppo presa dalla rabbia che sentivo scorrermi nelle vene per notare la presenza della biondina di poco fa. Se ne stava in piedi accanto al nostro tavolo, tra le mani il vassoio contenente quello che doveva essere il nostro cibo, concentrata a spogliare Harry con gli occhi. Lui, Don Giovanni qual'era, le diede ovviamente corda, lanciandole un fugace occhiolino.

«Grazie, ora puoi andare» sputai acidamente, rivolgendomi alla cameriera con tanto di sorrisetto antipatico.

Quest'ultima sembrò ricomporsi subito, e, di conseguenza, tolse gli occhi dal corpo di Harry. Peccato, però, che questo intervallo fosse durato solo per pochi secondi: dopo averci consegnato il nostro ordine - che aveva appoggiato sulla superficie lignea piegandosi in modo molto sensuale, nella speranza di catturare maggiormente l'attenzione del riccio e lanciargli segnali espliciti -, la ragazza se n'era rimasta imbambolata ancora per qualche istante a fissare insistentemente Harry, con il desiderio di poter ricevere da parte sua anche un solo banalissimo "Grazie". Perciò, per evitarle ulteriore agonia alla poveretta, avevo finito per liquidarla con un'occhiataccia.

Povera illusa, pensai, avrebbe potuto aspettare tranquillamente per altri cent'anni con un tipo come Harry.

Inutile dire che, però, Harry le aveva guardato il culo non appena si era voltata per andarsene. E, inevitabilmente, aveva continuato a farlo finché non era scomparsa dietro la cassa, al di fuori del suo campo visivo.

«Harry» lo richiamai con autorità, incrociando le braccia al petto.

Iniziavo a spazientirmi sul serio. Mi sembrava di aver a che fare con un dodicenne arrapato.

Il bambinone si voltò con tutta la tranquillità del mondo solo dopo che ebbe finito la sua radiografia alle natiche della bionda.

«Mh-mh?» chiese svogliatamente, iniziando a scartare il suo panino, nel chiaro tentativo di sviare, ancor prima che iniziasse, l'interrogatorio che ero sul punto di fargli.

Ero certa che ricordasse ciò che gli avevo chiesto, semplicemente voleva evitare l'argomento. Mi alterai ancora di più.

«Harry, sai cosa voglio» iniziai a denti stretti, cercando di mantenere il più possibile la calma.

«No che non lo so. Che vuoi?» un'inconfondibile nota di scherno presente nel suo tono, prima che prendesse un grande morso dal suo panino.

Sbuffai, sfregandomi convulsamente sulle cosce i palmi delle mani, sudati per il nervoso, per poi spostare repentinamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Se Harry avesse continuato con quell'atteggiamento, sarei sbottata lì a poco.

«La ver-».

«Dai, mangia il tuo panino, che altrimenti si raffredda» m'interruppe, lanciando il cheeseburger ancora incartato verso di me «Mangiare aiuta a rilassarsi, sai? È scientificamente provato».

«Harry» lo richiamai di nuovo, al limite della sopportazione

Sfilò accanto a noi un'altra cameriera, una moretta, ed ecco che gli occhi di Harry vi s'appiccicarono sopra. Indossava dei blue jeans aderenti, ma questo Harry riuscì constatarlo subito, dato che il suo sguardo si era posato proprio lì, proprio sul fondoschiena. E, come al solito, stava continuando ad ignorarmi volutamente.

«Harry» ringhiai di nuovo, stritolando rabbiosamente tra le mani il panino che non avevo ancora liberato dalla carta, e che ero sicura che ora si fosse tramutato in poltiglia.

In ogni caso, grazie al comportamento del riccio, mi era passata completamente la fame.

Alzai la testa dal tavolo, ed incontrai due gemme furbe che conoscevo fin troppo bene, adesso piantate su di me in uno sguardo che lasciava intendere più del dovuto. L'angolo destro delle labbra alzato in maniera furtiva, quasi come a chiederne il permesso su quel viso bello all'inverosimile.

«Sei gelosa».

Non potevo credere che l'avesse detto davvero.

Prese un'altro boccone dal panino, e «Sei gelosa e non vuoi ammetterlo!» continuò il moro, alzando di poco la voce in maniera scherzosa e parlando a bocca piena.

Nonostante stesse masticando, il convinto sorrisetto impertinente se ne stava ancora al suo posto, come a dire "io la so lunga". Sgranai gli occhi, masticando anch'io; non il panino, quello era ancora abbastanza intatto, bensì le parole che avevano appena lasciato le labbra del riccio.

«Lo sei, e non puoi dirmi di no!» rincarò la dose, puntandomi un dito contro prima ancora che aprissi bocca «Hai tratto malissimo quella poveretta bionda che non stava facendo altro che il suo lavoro!».

Se fino ad allora ero rimasta completamente inerte, la convinzione con cui il ragazzo pronunciò quella frase bastò per farmi destare dal mio stato di improvvisa interdizione.

«Cosa?! Non è assolutamente v-»

«Ti dirò la verità solo se prima ammetterai di essere tremendamente gelosa del sottoscritto» interruppe lui, mentre continuava a masticare con un sorriso sornione addosso.

Era forse un ricatto quello? Beh, mi suonava proprio come tale.

Lo guardai dritto in quei pozzi verdi, e «Va' al diavolo, Harry».

Mi alzai il più in fretta possibile, e strisciai per uscire dal piccolo spazio stretto che delimitava il nostro tavolo, più decisa che mai ad abbandonare un Harry che, non avendo ancora ben metabolizzato le parole che gli avevo appena spiattellato in faccia con ira, stava continuando a mangiare indisturbato.

Percorsi velocemente il piccolo locale, stando attenta a non scontrarmi con nessuno - si sa mai che sarei potuta finire addosso alla biondina con la bava alla bocca per il riccio.

Durante tutto il breve tragitto che mi condusse all'uscita, nella mia mente si piantò con prepotenza un unico pensiero: non ero gelosa di Harry.
Questa mia constatazione, che per qualche assurdo motivo mi suonò un po' falsa, mi accompagnò fin sopra il marciapiede che costeggiava l'esterno di quel fastfood, e sembrò accentuarsi quando la fresca brezza, tipica delle primaverili serate newyorkesi, mi sfiorò le braccia, facendo sì che si costellassero di piccoli brividi.

Non ero gelosa di Harry. Diamine, come cazzo si poteva essere gelosi di una persona con cui non si riusciva ad avere una seria discussione?!

Sospirai frustata, passandomi nervosamente una mano tra i capelli nel vano tentativo di scaricare almeno un po' di quello stress che sentivo addosso come una seconda pelle.

Non feci in tempo a rimettere in ordine i pensieri confusionari che rimbalzavano impazziti contro le pareti del mio cranio, procurandomi un'iniziale accenno di quello che, ben presto, sapevo sarebbe diventato un tremendo mal di testa, che ad un tratto sentii un familiare rumore metallico.

«Si può sapere che hai che non va?!» esclamò il riccio, che ora mi si era parato davanti in tutta la sua possanza.

«Io?! Cazzo Harry, ma ti rendi conto del tuo comportamento?! Non puoi continuare a giocare come un bambino! Non si riesce ad iniziare un cazzo di discorso che fai di tutto pur di non affrontarlo!» prima ancora che potessi fermarmi, i pensieri che m'annidavano ormai da tempo il cervello stavano cascando sulla mia lingua come un fiume in piena «Sono stufa, Harry. Sei il mio allenatore, avremmo dovuto già costruire un rapporto basato sulla fiducia, sul rispetto reciproco... e invece non so nulla di te, se non il tuo nome! E tutto questo solo perché finora non abbiamo fatto altro che litigare e punzecchiarci. Sei così menefreghista che tante volte non riesco proprio a comprenderti. Anche riguardo a ieri... si può sapere che cazzo ti è preso con mio fratello? Hai parlato a sproposito riguardo a qualcosa che nemmeno ti riguardava! Eppure, a quanto pare tu sai molto di me... forse più di quanto io sappia di me stessa!»

Finii col fiatone ed un peso in meno vicino al cuore. Non si poteva più continuare così, ed ero certa che, nel profondo, ne fosse consapevole anche lui. Si capiva da come, in seguito a quel mio duro - ma veritiero - sfogo, aveva abbassato il capo; sul suo volto abbronzato non c'era più traccia della solita smorfia sfacciata. Avevo bisogno di risposte, sia per me stessa che per la mia carriera da pugile, che, in quell'ultimo periodo, sembrava star andando a rotoli.

Per qualche minuto, su quel marciapiede sporco, nel cuore di New York, il silenzio sembrò diventare nostro amico. Oltre alla cacofonia procurata dallo sfrecciare delle auto e dai consueti rumori della città, che ora percepivo lontana, non si udì nient'altro.
Dopo quelle mie parole, urlate nel bel mezzo del cielo ormai scuro che aleggiava sopra di noi, tutt'intorno sembrava essersi ovattato. Cercai i suoi occhi, non li trovai. Troppo concentrati sulla punta delle sue scarpe, troppo codardi per incontrare i miei, in quel momento brucianti di adrenalina.

«Lascia perdere» sospirai, stanca di quella situazione.

Mi voltai, pronta a ritornarmene definitivamente verso casa nonostante non sapessi esattamente dove mi trovavo, cosciente del fatto che, come sempre, non avrei tratto nulla di buono dal ragazzo in questione.

«Hai ragione» mi bloccai sui miei passi mentre ancora davo le spalle a quella voce inconfondibile, capace di scatenare tempeste dentro di me.

«Ti dirò tutto quello che vuoi sapere».

Fu allora che mi rigirai. Il mio sguardo si fuse con il suo in modo così profondo da farmi tremare le gambe, i suoi occhi che brillavano di una luce diversa, facendo concorrenza alle mille fiamme che, attorno a noi, facevano risplendere la city nel buio di quella sera.

Il mio telefono squillò. Risposi.

E quell'aura magica che sembrava essersi posata con una delicatezza disarmante sopra i nostri corpi febbricitanti, venne spezzata via senza pietà da ciò che, all'improvviso, mi fece mancare la terra da sotto i piedi.

• • •

Ehilà!
Giuro che non sono morta!

Mi scuso IMMENSAMENTE per il tremendo ritardo. A mia discolpa posso dire:

1) di aver scritto un capitolo molto più lungo del solito (5500 parole circa), che spero vivamente vi sia piaciuto! 

2) di averne passate davvero delle belle in quest'ultimo periodo, in particolare nelle ultime cinque settimane.

Fortunatamente per me le acque sembrano (speriamo!) essersi piuttosto acquietate, e sapete ciò che significa? 😏
Semplice! Aggiornamenti più rapidi!

In ogni caso voglio essere sincera con voi, e non voglio darvi false speranze: cercherò di fare del mio meglio per aggiornare il più velocemente possibile, ma non posso promettervi nulla poiché per questa settimana sarò ancora piuttosto impegnata. Il 27 partirò poi per le vacanze, e credo che non farò ritorno fino  al 5 di agosto, o giù di lì. Perciò, se noterete qualche ritardo sapete il perché! 

Anyway, vi è piaciuto il capitolo? Chi pensate possa aver chiamato Maxine e cosa possa averle detto di così sconvolgente?! 😱
Ma, soprattutto... che ne pensate finora della storia?

Fatemelo sapere nei commenti!
Ah, e mi raccomando... Lasciate anche una stellina!

Lot pf love,
ilxris

ps: ci tenevo a fare uno spazio autrice lungo così da poterci spiegare il motivo della mia assenza. Mi siete mancati! ♥️

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