Sins ยป h.s

By ilxris

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"Ti avevo avvisata, tempo fa. Ti dissi che avresti fatto meglio a non innamorarti di me, sarebbe stato un pec... More

SINS
Zero: the show starts. Or, maybe, it was already started.
One: the lying lioness.
Two: who was he?
Three: mom and Jason.
Four: surprise!
Five: his name.
Six: chaos.
Eight: I'm sorry.
Nine: truce? Probably yes.
Ten: memories VS reality.
Eleven: drunk & nasty.
Twelve: promise you won't fall in love with me.
Thirteen: stench of burnt.
Fourteen: a call from the hell.
Fifteen: painting pain.
Sixteen: lost in confusion, like an illusion.
Seventeen: you don't know how things really are, Max.
Eighteen: born again.
Nineteen: rollercoaster.
Twenty: rain.
Twenty-one: he needs me.
Twenty-two: silent fire.
Twenty-three: doors.
Twenty-four: blue eyes... please, tell me a lie.
Twenty-five: the quiet before the truth.
Twenty- six: but I know one thing.
Twenty-seven: reason, feeling & some "I don't give a fuck".
Twenty-eight: point of no return.
Twenty-nine: black widow.
Thirty: black widow pt.2.
Thirty-one: let's talk about love.
Thirty-two: confessions.

Seven: nightmare.

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By ilxris

"Gli incubi esistono
al di fuori della ragione
e le spiegazioni divertono ben poco,
sono antitetiche
alla poesia del terrore."
-Stephen King


Canzoni consigliate per il capitolo:
-"I'm a Wanted Man", Royal Deluxe.
-"Radioactive", Imagine Dragons.
-"Gasoline", Halsey.
-"Pray"- from Fifty Shades Darker, JRY & RuthAnne.
-"Tell Me Why", Three Days Grace.
-"Why", NF.

Quell'adorabile canzone risuonava all'interno delle mie orecchie, carezzandomi i timpani con le sue note melodiose.
Non appena le punte delle mie scarpe bianche vennero offuscate da una leggera ombra, mi accorsi di essere giunta difronte alla mia meta. Misi in pausa la traccia, togliendomi gli auricolari. Titubante, alzai lo sguardo sull'imponente edificio che si era piantato dinnanzi a me: un imponente palazzo grigio dalle innumerevoli vetrate a vista troneggiava con la sua altezza, sembrando quasi solleticare il cielo con la sua cima a punta. Deglutii, sentendomi piccolissima a confronto di quell'enorme ed intimidatoria costruzione, situata proprio nel centro di New York. Mi ero trasferita qui da appena circa un mese, e non ero ancora riuscita ad abituarmi alla perenne vivacità di questa città su cui, quel giorno, incombevano nuvole piuttosto scure.
Probabilmente, a dire il vero, mi sarei dovuta abituare di nuovo alla vita intera, dopo quello che era successo. Ed era proprio per questo che, quella mattina, le mie gambe mi avevano condotta fino a quel gigantesco edificio.

Abbassai lo sguardo, scuotendo la testa nel tentativo di togliermi di dosso quelle fastidiose preoccupazioni che, nell'ultimo periodo, mi si erano appiccicate addosso come una seconda pelle. Presi un grande respiro, prima di decidermi a schiodare i piedi da terra e proseguire verso l'entrata dell'edificio. Spinsi la pesante porta in vetro, ritrovandomi in un grande salone illuminato ed arredato in modo estremamente elegante. Dato il frettoloso andirivieni di innumerevoli persone, intente in diverse faccende, ci misi poco a capire che mi trovavo nella lussuosa hall del palazzo. Mi feci coraggio e, finalmente, decisi di avvicinarmi alla reception.

«Desidera?» domandò meccanicamente la voce della donna seduta dietro al bancone.

«S-salve...» mi schiarii la voce che non sembrava voler uscire «Stavo cercando la dottoressa Clarke».

La donna annuì freneticamente, per poi portare l'attenzione sullo schermo del computer che si trovava difronte ai suoi occhi «Ha un appuntamento?» mi chiese con tono distaccato, continuando a far scorrere il mouse sul tappetino, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

«N-no»

«Okay, allora firmi questi» disse, facendo strisciare sul ripiano in legno un paio di documenti e una penna verso di me.

Afferrai con titubanza la penna e lessi il titolo dei fogli che mi erano stati posti: "Documenti per il consenso al trattamento psicologico".
Deglutii, non volendo leggere oltre. Senza pensarci due volte, firmai tutti gli spazi contrassegnati da una piccola croce, per poi restituire velocemente il tutto alla donna bionda, ora intenta a digitare sulla tastiera, volendo allontanare il più presto possibile quei fogli da me. Se mi fossi soffermata a riflettere su ciò che stavo facendo, mi sarei girata e sarei ritornata sui miei passi, dritta a casa. Ma, dato che per mia cugina Sarah questo era ciò di cui avevo bisogno, non avevo avuto altra scelta. In quel periodo, non essendo più momentaneamente in grado di decidere in modo autonomo per me stessa e per il mio bene, dopo quello che era successo, mia cugina sembrava aver preso in mano le redini della mia vita, ed io, dal mio canto, non avevo obiettato. Sapevo di potermi fidare ciecamente di lei, avrei anche potuto mettere nelle sue mani tutta la mia vita -come in pratica stavo facendo- ed ero certa che non avrebbe fatto altro che custodirla; e di questo, ne ero altrettanto sicura, l'avrei ringraziata per tutta la vita.

Ad un tratto la segretaria si mosse velocemente, prendendo quei fogli e riuscendo a catturare di nuovo la mia attenzione. Vi diede una veloce, fredda occhiata, prima di ricominciare nuovamente a fissare lo schermo luminoso situato davanti a sé, non curandosi minimamente della mia presenza.

«Da qui vada a sinistra, prosegua infondo fino all'ascensore. Lo studio si trova al ventitreesimo piano, corridoio a destra, ultima porta sulla sinistra.» Parlò velocemente, in modo meccanico, senza mai scollare gli occhi dal computer.

«Grazie...» mormorai, quasi in maniera impercettibile, per dopo voltarmi e iniziare ad andarmene nella direzione indicatami dalla donna.

Più avanzavo, più mi convincevo del fatto che non fossi io a comandare le mie gambe. Arrivai persino a pensare che qualcuno stesse tirando i fili dall'alto per farmi muovere. Era come se, da quando avevo fatto il mio miserabile ingresso in quell'edificio dalla soffocante raffinatezza, il mio cervello si fosse staccato dal corpo, come se quest'ultimo stesse agendo per conto suo, probabilmente guidato da una forza sovrannaturale, da un non so che di mistico.

Con immane fatica, giunsi fino alle imponenti porte marmoree dell'ascensore. Feci un profondo respiro nel vano tentativo di infondermi un po' di quel coraggio che, momentaneamente, sembrava essere scomparso dalla mia persona, mentre le pareti della mia mente continuavano ad essere martellate dalla stessa, fatidica domanda irrequieta: stavo effettivamente facendo la cosa giusta?

Spinta sempre da quell'ormai familiare forza superiore a me sconosciuta, mi decisi, dopo quelli che parvero anni -in cui non avevo fatto altro che stare impalata difronte alle porte ancora serrate-, a pigiare il bottone per chiamare l'ascensore, senza però riuscire a mascherare quell'evidente tremore di titubanza che aveva preso possesso dei miei movimenti.
Entrai nell'ascensore, e premetti il tasto che indicava il piano al quale mi sarei dovuta recare. Non appena le porte si chiusero alle mie spalle con un tonfo sordo, mi appoggiai alle pareti fredde di quell'abitacolo fin troppo stretto per i miei gusti, rilasciando un enorme sospiro di frustrazione che non sapevo di star trattenendo. Tutto questo mi sembrava così assurdo. Trovavo assurdo il fatto che mi trovassi qui e, trovavo ancora più assurda la mia incapacità di riuscire a metabolizzare quanto era accaduto. Ero sempre stata una persona realista, una persona con i piedi per terra, in grado di ragionare con la mia testa e di prendere le scelte giuste. Non avevo mai avuto bisogno dell'aiuto di nessuno. Eppure, da un momento all'altro, tutto sembrava essere cambiato.

Il leggero ma udibile rumore dell'ascensore che era giunto a destinazione bastò a farmi risvegliare da quei pensieri, e mi affrettai ad uscire da quello spazio soffocante. Presi a guardarmi intorno, incamminandomi e perdendomi a contemplare le proporzioni mastodontiche di quell'edificio. Avanzai nel lungo corridoio mentre continuavo a ripetermi mentalmente le indicazioni che la receptionist mi aveva precedentemente dato. Fu così che arrivai dinnanzi all'ultima porta sulla sinistra, corridoio a destra, secondo piano. Mi soffermai a guardare la placchetta in oro che vi era posta al centro, brillante in tutta la sua lucentezza, e che risaltava perfettamente a contrasto con lo scuro legno d'ebano: "Dottoressa Clarke, laureata in psicologia".
Rabbrividii nel leggere quelle parole. Probabilmente se qualcuno poco tempo fa mi avesse detto che in futuro -anzi, ben presto- sarei dovuta andare da una psicologa, gli avrei sicuramente riso in faccia. Del resto era solo quando ti ritrovavi faccia a faccia con ciò che non ti saresti mai aspettato che comprendevi la precarietà di quelle che, fino all'attivo prima, parevano certezze, pilastri sicuri su cui si fondava la tua vita, ma che, invece, inevitabilmente, a quel punto si rivelavano solo amare illusioni. Illusioni di una vita che io avevo trascorso nella più totale normalità, circondata dall'affetto delle persone che amavo, in quella casa in cui avevo sempre vissuto, ma che, dall'oggi al domani, era diventata più vuota del previsto. La normalità tipica di una ragazza poco più che maggiorenne e spensierata, certa di essere sempre stata una persona normale, le cui normali abitudini erano scandite da orari altrettanto normali, e che provava sentimenti consoni alla sua età; quella stessa ragazza normale che, però, dall'oggi al domani si  era ritrovata a sentirsi tutto tranne che tale. Quella stessa ragazza di appena diciotto anni che, da un momento all'altro, aveva visto le sue certezze venire spazzate via in una giornata all'apparenza normale, come se quest'ultime, in realtà, non fossero mai state altro che castelli di sabbia, fragili proiezioni di una mente adolescenziale che finora non aveva fatto altro che tessere insulse sicurezze sulle spoglie di quella vita normale che, alla fine, a sua insaputa, sarebbe finita per diventare tutt'altro che tale. Quella stessa ragazza che, dall'oggi al domani, per queste ragioni, con le sue sicurezze ormai tramutate nel contrario e le sue dannatissime paure, in quel momento si ritrovava proprio dov'era, dove non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi, nonché davanti alla porta di uno studio psicologico.

Paradossalmente senza pensarci su troppo, picchiettai le nocche della mia mano sulla superficie liscia e scura di quell'entrata che, se varcata, avrebbe portato ad un cambiamento radicale della mia persona. Passarono secondi, sembranti secoli, in cui, per la millesima volta in quella giornata, mi balenò in mente l'idea di fuggire via da quel posto. Non feci in tempo a muovermi che, di colpo, la porta venne aperta, rivelando la donna che stavo cercando, o quasi. Sul suo corpo si trovava infatti il volto di mia madre.

Mi svegliai di colpo. Avevo avuto un incubo.
Non appena difronte ai miei occhi si era posto il volto sin troppo conosciuto di mia madre, quest'ultimi si erano totalmente spalancati, come se non riuscissero a sopportarne la visione. Anche il mio corpo sembrava aver reagito di conseguenza, tanto che il mio busto si era completamente alzato, in modo che io, ad ora, mi ritrovassi seduta sul materasso con la fronte imperlata di sudore.

Mi tolsi alcune ciocche ribelli che si erano appiccicate alla mia faccia, passandomi una mano tra i capelli, e, ancora frastornata, mi voltai verso il comodino situato in parte al letto. Grazie alla sveglia posta su di esso, potei constatare con mio grande dispiacere che erano solo all'incirca le quattro di mattina. Malgrado l'orario, dopo quell'incubo, il mio sonno sembrava essersi volatilizzato, così decisi di scendere a bere un bicchiere d'acqua.
Balzai giù dal letto con ancora un po' di intorpidimento nei muscoli, e camminai in punta di piedi verso le scale, cercando di fare il meno rumore possibile e di non svegliare mio fratello che, purtroppo, aveva il sonno troppo leggero.

Nel silenzio più assoluto in cui era immersa la piccola villetta familiare a quell'ora della notte, raggiunsi la cucina. Sentendomi la bocca asciutta, mi fiondai immediatamente alla credenza, da dove tirai fuori un bicchiere. Per mia sfortuna, non feci in tempo a voltarmi a prendere la bottiglia dell'acqua che il vetro mi scivolò dalle mani, schiantandosi contro le piastrelle fredde del pavimento e frantumandosi in mille pezzi.

«Merda» imprecai, osservando il disastro che ero riuscita a combinare in meno di dieci secondi.

Pensai a cosa poter fare per rimediare: dato che prendere la scopa dal ripostiglio situato sotto alle scale avrebbe significato svegliare mio fratello a causa del rumore che avrei -sicuramente- creato, decisi di raccogliere i cocci più grossi con le mani, attraverso l'aiuto di un panno.
A quel punto, afferrai il primo straccio che trovai e mi chinai a raccogliere i vari pezzi con molta cautela, stando attenta a non tagliarmi. Riuscii bene nell'impresa, e, dopo aver buttato il tutto nella pattumiera, decisi che l'indomani, con la luce del giorno, avrei raccolto i pezzi più piccoli che erano rimasti sul pavimento. Lasciai perdere l'acqua che avrei voluto bere e, prima di fare qualche altro pasticcio, iniziai a schivare le schegge che erano rimaste sul pavimento, optando per ritornare a dormire. Non potevo permettermi di riposare poco considerando che l'indomani avrei dovuto finalmente avere il mio primo allenamento con Harry, e dunque mi sarei dovuta presentare in forma, giusto per far vedere a quella faccia da schiaffi chi veramente fosse Maxine White e di cosa fossi capace. Non mi ero ancora riuscita a superare del tutto l'umiliazione che mi aveva inferto sul ring nel bel mezzo di un incontro, sotto gli occhi di tutti; e men che meno riuscivo a sopportare le sue avance spudorate o il suo carattere così spigoloso e... inconsueto, inconsueto per un allenatore. Inoltre, sapevo già che, in un certo senso, me l'avrebbe fatta pagare per la brusca reazione che avevo avuto all'interno del negozio. Probabilmente non era abituato a sentirsi respinto in quel modo da una ragazza, ed ero consapevole che, forse, avevo ferito il suo spudorato orgoglio maschile che lo aveva portato ad avvicinarsi e a toccarmi in quel modo. Francamente, non me ne fregava molto. Ciò che contava era semplicemente la mia carriera, e l'unico rapporto che volevo e che avrei sempre voluto con lui era la banale relazione che intercorre comunemente tra un pugile ed il suo allenatore, nulla di più e nulla di meno. E, in caso non gli fosse stato chiaro, glielo avrei fatto capire io, e gli avrei insegnato a tenere le mani al loro posto.
Dopo ciò che avevo subito, il mio corpo non si era ancora abituato a venire nuovamente toccato in quel modo, e probabilmente non lo avrebbe mai più fatto, a causa dei ricordi che, ogni volta, tornavano a pugnalarmi come lame. Anche se, in parte, con Harry sembrava diverso.

Il mio flusso di pensieri venne disturbato da un'acuta fitta di dolore che provai sotto alla pianta del mio piede. Mi appoggiai al tavolo e, con mia grande sfortuna, notai del sangue vivido fuoriuscire dal profondo taglio che mi ero procurata con un pezzo di vetro. Essendo la mia concentrazione indirizzata per l'ennesima volta verso di lui, mi ero distratta e non avevo potuto evitare una piccola e tagliente scheggia situata nell'ombra.
Sbuffai, e mentre saltellavo faticosamente diretta al bagno, maledissi mentalmente Harry, finché, ad un tratto, il mio telefono vibrò violentemente contro il ripiano in marmo dell'isola della cucina.

Messaggio da: Sconosciuto.

"Hey bambolina, spero tu mi stia sognando a quest'ora ;)
Ci vediamo domani sera alle dieci nella palestra vicino all'edificio di periferia, non tardare, mi raccomando. H xx"

Lo maledissi di nuovo.

-

Avanzai lungo lo stretto corridoio, salutando qualche pugile che passava di lì e che, probabilmente, data l'ora tarda, se ne stava tornando a casa dopo l'ultima e abituale sessione di allenamento all'interno quella fatiscente palestra, situata vicino al capannone in cui mi ero avevo combattuto pochi giorni fa. Abitualmente iluoghi in cui avvenivano gli incontri erano situati nelle zone più nascoste, e spesso anche degradate, della città; quelle che, in poche parole, passavano inosservate agli sbirri. Tuttavia, il fatto di essere da sola con il riccio, confinata in una delle aree più remote di New York, non mi rassicurava affatto. Sapevo che non avevo nulla da temere, infondo ero capace di difendermi in caso di necessità, ma ciò mi faceva pensare che egli avesse architettato il tutto appositamente, come se mi avesse dato appuntamento a quell'ora proprio perché era consapevole che, in questo modo, avrebbe avuto tutta la palestra per sé -o meglio, per noi. Il che non mi piaceva per niente.

Non appena varcai la soglia della grande stanza, un forte puzzo di vecchio s'insinuò nelle mie narici, ma i miei occhi vennero immediatamente attirati da altro: davanti a me si presentò la visione di un Harry a torso nudo, attaccato a penzoloni ad un'alta sbarra d'acciaio, impegnato con ogni fibra del suo corpo a scolpire ulteriormente il suo addome già perfetto. Non potei non notare come i suoi muscoli tonici si contraessero a ciascuno dei suoi movimenti, guizzando al di sotto della pelle bronzea, mentre le due giade incastonate sul suo viso corrucciato erano totalmente focalizzate sul suo ventre a scacchiera, e sul ritmo da impartire ai grandi quadricipiti, che, puntualmente, si avvicinavano al busto, stuzzicando quasi addirittura i pettorali marmorei durante la precisa esecuzione dell'esercizio. Sulla sua fronte ricadevano invece un paio di riccioli ribelli, sfuggiti al controllo della fascia nera che, in realtà, avrebbe dovuto tenere indietro i suoi capelli. Il suo torace si alzava e si abbassava regolarmente, il suo intero corpo luccicava sotto la fioca luce giallastra di quella stanza a causa del sudore che scorreva sulla sua pelle, che scoprii essere anche estremamente tatuata. Le scie invisibili disegnate dalle goccioline mettevano infatti in risalto il colore scuro dell'inchiostro, arrivando ad incontrarsi sui lineamenti ben visibili del suo addome; la loro corsa silenziosa proseguiva poi sempre più in basso, fino alla grande linea a V che spariva dentro l'elastico dei boxer blu notte che si intravedevano da sotto i pantaloncini sportivi, da cui erano perfettamente fasciate le sue gambe abbronzate.

Deglutii inconsapevolmente, ancora bloccata sulla soglia dell'entrata, quando Harry, accortosi della mia presenza, mollò subito la presa dalla sbarra, atterrando agilmente a terra. Cominciò a camminare lentamente verso la mia direzione e, per tutto il tempo del suo breve tragitto, le mie iridi non riuscirono a staccarsi dalla sua figura possente che avanzava con aria sicura. Senza volerlo, feci scorrere lo sguardo un paio di volte su tutta la lunghezza del suo corpo, gesto che fece comparire un ghigno divertito sul volto del riccio, il quale, una volta giunto difronte a me, si passò una mano tra i capelli in modo da spostare quelle ciocche che gli ricadevano sulle palpebre, prima di prendere parola.

«Ti piace ciò che vedi, mh?» ammiccò, passandosi la lingua sul labbro inferiore.

Il suo torace sembrava essere stato scolpito nel marmo, le sue spalle erano ampie, e la sua altezza troneggiava sulla mia. Staccai lo sguardo dal suo busto, puntando direttamente le sue iridi, adesso di un verde più intenso.
Dall'espressione da sbruffone che occupava il suo volto, capii che costui si aspettava una risposta da parte mia; una risposta che, però, non arrivò mai. Gli sbuffai in faccia, a metà tra il compiaciuto e il seccato, e, con estrema nonchalance, lo superai, dirigendomi verso una delle panchine posizionate contro quelle quattro spoglie mura, sotto lo sguardo attento -a tratti furioso- del riccio.

Voleva sfidarmi? Bene, l'avrei accontentato.
Mi tolsi il giacchetto che stavo indossando, facendolo cadere piano sul pavimento. Esso venne ben presto raggiunto dalla felpa, la cui zip venne tirata giù con estrema lentezza, in modo che la mia pelle venisse scoperta a poco a poco: in tutto ciò, gli occhi di Harry non mi abbandonarono mai. Rimasi in canotta e leggings e, solo dopo avergli lanciato una fugace occhiata, mi voltai di schiena, tirandoli su leggermente. In seguito a ciò presi a farmi una coda alta, sentendo il respiro del ragazzo aumentare, percependo i suoi occhi bruciarmi.
Mi girai nuovamente verso di lui, lanciandogli una veloce occhiata. Sotto il suo sguardo attento, mi fasciai le mani e, in seguito, infilai i miei guantoni, per poi batterli violentemente tra di loro. Di scatto, Harry sembrò risvegliarsi, ma non lo diede troppo a vedere. Orgoglioso, pensai.

«Che c'è? Il gatto ti ha per caso mangiato la lingua o... ah no, giusto, ti piace ciò che vedi» lo provocai, piegando la testa e schioccando la lingua, i miei occhi puntati nei suoi in modo impertinente.
Harry deglutì, serrando la mascella. Colpito e affondato.

Si schiarì la voce, guardando in basso nel tentativo di nascondere un sorrisetto sghembo: «Sbrigati a muovere quel bel culo che ti ritrovi e vieni qua, non ho tempo da perdere» tirò una forte ed improvvisa pacca sul sacco da boxe che pendeva dal soffitto, facendomi sobbalzare per il violento eco dell'impatto che si diffuse per tutta la palestra, in quel momento assolutamente vuota. Un pizzico di fastidio si poteva notare nel suo tono.

Senza obiettare decisi di seguire i suoi ordini e camminai verso di lui, che ancora teneva gli occhi incollati a terra. Quando gli fui vicina, egli alzò finalmente lo sguardo, puntandomi immediatamente con quelle iridi dannatamente verdi, il cui colore era adesso macchiato da qualche sfumatura di rabbia ben visibile.
Era impressionante -e al tempo stesso preoccupante- come il suo umore potesse mutare da un momento all'altro.

«Forza, fammi vedere che sai fare» disse in modo autoritario, lanciandomi il sacco da boxe.

Riuscii ad afferrarlo prima che mi colpisse in pieno, bloccando l'oggetto con uno scatto veloce, guadagnandosi un'occhiata torva da parte mia.
Mi misi in posizione, iniziando a saltellare sul posto. Percepii fin da subito una forte fitta al piede, che capii provenire dal taglio procuratomi ieri notte. Decisi comunque di ignorare il dolore, concentrandomi invece a colpire il sacco ripetutamente, alternando ganci e montati, sia destri che sinistri, e aumentando la forza man mano sempre sotto lo sguardo attento di Harry, che aveva cominciato a studiare nel dettaglio tutte le mie mosse.

«Più forte. Voglio che tu colpisca questo sacco più forte» mi ordinò il riccio, allontanandosi leggermente.

La sua voce roca, e al contempo tagliente, continuava a ronzare nella mia testa. Inalai un forte respiro prima di fare ciò che il mio allenatore mi aveva ordinato. Aumentai la velocità e l'irruenza dei pugni, coordinando nel frattempo anche le mie gambe, iniziando a spostarmi intorno al mio obiettivo in modo da poterlo colpire anche da angolazioni diverse, mentre il mio respiro aumentava vertiginosamente.

«È tutto qui quello che sai fare, ragazzina?» domandò con aria di sfida Harry.

Il sangue mi salì al cervello. Picchiai più duramente il sacco, spostandolo maggiormente ad ogni urto; il dolore al piede che si intensificava sempre di più.

«Questo non è colpire, gli stai facendo il solletico, bambolina» rise istericamente Harry, avvicinandosi all'improvviso con grandi falcate «Voglio di più, di più! Colpisci quel fottuto sacco, cazzo!» urlò a squarciagola.

Il suo grido spaventoso squarciò l'aria circostante, e con esso i miei timpani. Non feci in tempo a sferrare un ulteriore gancio che Harry fu vicino a me in un lampo. Mi afferrò con ira il viso, avvicinandolo minacciosamente al suo: i suoi occhi incastonati nei miei, i nostri respiri pesanti che si mescolavano, mille brividi sulla mia pelle.

«C'è qualcos'altro che sai fare oltre che a mostrare il culo, bel faccino?» soffiò sulle mie labbra in maniera irriverente, spostando continuamente la sua attenzione da quest'ultime ai miei occhi, e viceversa «Ti fai chiamare " la Leonessa", giusto? Beh, a me sembri più una gatta morta».

Mi bloccai all'istante, paralizzandomi sul posto. Nessun allenatore aveva mai osato rivolgersi in quel modo a me prima d'ora. Nessuno.
E di certo non avrei permesso che il primo a farlo fosse lui. Aveva superato ogni limite.

Con uno scatto repentino lo spinsi violentemente via da me. Ridussi gli occhi a due fessure e guardai per un'ultima volta il suo volto, sul quale era ora dipinta un'espressione alquanto sorpresa, prima di riprendere a colpire il sacco come mai avevo fatto.
Nella stanza si poteva udire solo il suono del mio respiro spezzato, in costante aumento, e il terribile rumore che le mie nocche provocavano ogni volta che entravano in collisione con la superficie dura. Mi focalizzai su un punto ben preciso del sacco -per la precisione il suo centro- e indirizzai ripetutamente una serie di combo in quella zona, continuando a colpire la pelle liscia e nera con tutta la forza che avevo in corpo.
Alternai le braccia, colpii coi gomiti e non staccai mai gli occhi dal mio obbiettivo, forse per non incontrare quelli di Harry, le cui parole si ripetevano in loop nella mia testa, mandandomi completamente su di giri.

"C'è qualcos'altro che sai fare oltre che a mostrare il culo, bel faccino?"

Imperterrita, aumentai l'intensità, muovendomi e saltellando più freneticamente. Il fastidio al piede si fece molto più presente, così come l'intorpidimento ai muscoli delle braccia. Strinsi i denti, mandai giù la saliva, mi feci forza e proseguii il mio assalto. Ero una combattente, e glielo avrei dovuto mostrare.

Tirai un pugno, poi un altro, e un altro ancora. Destra, sinistra, sinistra, con tutta la potenza possibile. Il sacco vibrava copiosamente, fendendo l'aria circostante, l'adrenalina era ormai alle stelle. Il mio corpo iniziava a mostrare i primi segni di cedimento, il sudore della mia fronte bagnò anche le mie labbra. Non mollai.
Più pensavo a lui, più i miei cazzotti acquistavano vigore, più il mio respiro si faceva spezzato. Non sentivo più il piede dal dolore, il cuore pompava sangue nelle mie vene all'impazzata. Strinsi maggiormente i pugni, contrassi di più gli addominali. Non mollai.
Infine, avvenne l'ultimo: l'ultimo pugno, l'ultima grande scossa che mosse il mio corpo ormai stremato. Seguirono una gomitata ed un paio di calci, accompagnati da un urlo che parve squarciarmi la gola. Un urlo che provenne dal fondo del mio Io, del mio Io senza forze.

Chiusi gli occhi. Cercai di regolarizzare il mio respiro impazzito. Sentii l'adrenalina scemare lentamente dalle mie vene, il cuore che calmava il suo ritmo frenetico.
Il dolore al piede era ancora insopportabile.
La calma in cui ero stata avvolta quando il mio corpo aveva ceduto, venne presto spezzata dalla voce roca di Harry, che giunse a me come una sorta di richiamo lontano e ovattato.

«Maxine-» non glieli il tempo di parlare.

Aprii di scatto gli occhi, voltandomi immediatamente verso di lui. Incontrai i suoi familiari smeraldi, che ora mi guardavano con apprensione. In quell'esatto istante lo odiai, con tutta me stessa. Lo odiai per il suo modo di fare, per le sue provocazioni, per le sue parole che erano state peggio di mille lame per me, e che mi avevano portata fino allo sfinimento.
Dall'espressione indecifrabile che si dipinse sul suo volto non appena il suo verde si fuse con il mio azzurro, compresi che aveva capito ciò che i miei occhi stavano esprimendo per me in quell'esatto istante, ciò che io provavo nei suoi confronti e che, a parole, in quell'esatto momento, non ero in grado di spiegare: rabbia. Pura, accecante rabbia.

Mi voltai velocemente, camminai fino alla panchina su cui era poggiato il mio borsone, e  tolsi frettolosamente i guantoni, cacciandoli in malo modo dentro la sacca, sotto lo sguardo inquisitorio del riccio. Poiché avevo udito i passi Harry farsi sempre più vicini, infilai la felpa e il giacchetto il più rapidamente possibile, non volendo assolutamente parlargli.

«Maxine».

Ascoltai il mio nome uscire armoniosamente dalle sua labbra, ma non risposi.

«Maxine» ritentò.

Da parte mia solo totale silenzio. Non lo degnai nemmeno di uno sguardo, e proseguii nel sistemare la mia roba.

«Guardami» mi afferrò per il braccio, in modo da farmi voltare.

Mi divincolai dalla sua presa, per poi guardarlo dritto negli occhi per quelli che parvero minuti. Non l'avrebbe avuta vinta, non stavolta. Aveva esagerato.

Sempre senza emettere alcun tipo di suono, lo sorpassai, avanzando spedita verso lo spogliatoio. Non passò molto tempo prima che avvertissi nuovamente il lancinante dolore al piede. Cominciai a zoppicare, ma, sentendo che Harry mi stava rincorrendo, non mi fermai.

«Maxine, aspetta»

Ogni suo tentativo di bloccare la mia fuga di a dir poco inutile. Attraversai il corridoio, fino a giungere alla porta d'ingresso di quel fatiscente edificio. Non appena fui fuori, esposta al freddo della notte, un'aria gelida sembrò attraversarmi le ossa. Mi strinsi nelle spalle nello scarso tentativo sia di proteggermi dalla brezza fin troppo fresca, sia di scacciare la persistente fitta che colpiva la mia pianta del piede, proseguendo ancora mentre il mio allenatore era ormai dietro di me.
Tirai fuori velocemente le chiavi della mia auto dalla tasca posteriore dei jeans e aprii la vettura.
Salii velocemente, gettando la borsa sul sedile del passeggero anteriore, e lasciai aperta la portiera del guidatore. Harry, nel frattempo, mi raggiunse.

«Maxine, possiamo par-» le parole sembrarono morirgli in gola quando, dopo che mi fui tolta la scarpa e la calza dal piede dolorante, vide scendere del sangue dal profondo taglio che si stagliava sulla mia pelle, e il cui colore vivido faceva da contrasto con la mia carnagione lattea.

Alzai finalmente lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi, ora intenti a passare continuamente dal mio volto alla ferita.

«Mi dispiace» ringhiò quasi con voce sommessa, tenendo il capo basso.

Rimisi sia la calza che la scarpa, e, dopo aver messo in moto, non prima di aver chiuso la portiera, riportai la mia attenzione su di lui per l'ultima volta in quella giornata.

«Vaffanculo, Harry» scandii ogni lettera, guardandolo dritto negli occhi.

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