A Kind Of Brothers? (AKOB?) b...

By serenapittino

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E poi arrivò quel momento, quello che avevo pregato tutto il tempo che non fosse stato ripreso. Sentii Zayn i... More

1 NEW BORN
2. HATE
3. WAKE UP
4. VIDEO
6. RICATTO
5. LO PSICOLOGO
7. IN YOUR MIND
8. COMPITI A CASA
9. PARCO GIOCHI
10. OCCHI
11. RISCHI
12. I WOULD
13. NEXT TO ME
14. BLACK HOLES AND REVELATIONS
15. SOME NIGHTS
16. CHANGES
17. WHAT DO YOU WANT?
18. NEW YEAR & DEJÀ VU
19. BLACKOUT
20. THE DEMONS FROM YOUR PAST
21. WHEN YOU'RE TOO IN LOVE TO LET IT GO
22. SENSI DI COLPA
23. VOICES & TEXTS
24. CAN I HAVE THIS DANCE?
25. BROKEN
26. CRY
27. PHOTOS
28. COMPLICAZIONI
29. GET IT RIGHT
30. SECRETS
31. VIDEO 2.0
32. HURT
33. DADDIES
34. THE LAST DANCE
35. THE CURE
36. FAR AWAY
38. UNDISCLOSED DESIRES
39. HOLMES CHAPEL
40. THANKS FOR CALLING
41. WATING FOR YOU
42. SHAKE IT OUT

37. THE QUEEN

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By serenapittino


Louis

Lancaster, pomeriggio, caldo assurdo da fine giugno. 
Il ballatoio e il corridoio all'aperto del motel sembravano bruciare come legna da ardere. Li percorsi entrambi lentamente, le porte bianche a scivolarmi accanto come spiriti silenziosi, echi di voci e risate oltre i muri sottili di cartongesso. 
Arrivai alla fine del corridoio, cercai la camera numero 19. O forse era la 18? Non ricordavo, l'ultima volta che ero stato lì non ci avevo badato troppo. 
Bussai ad entrambe alternativamente. 
"Harry!" mi permisi di chiamare tra un tocco e l'altro. "Harry ci sei?"

"Oh no, ancora tu no!"
Mi voltai di scatto. 
La voce irritata ed arrochita dal fumo apparteneva ad un ometto basso e in carne, barba folta e piccoli occhi neri, luccicanti come insetti. 
Il signor Grant, il proprietario di quella catapecchia, il tipo che meno di due settimane prima, quando mi ero presentato al motel strafatto, aveva tentato di cacciarmi via rincorrendomi con una scopa. 
Perfetto. 
"Stavolta chiamo la polizia" esordì, prima che la mia mano calasse sulla sua spalla e "No, aspetti!" implorassi. 
Quello mi rivolse uno sguardo arcigno ma "Parla e spera per te che sia qualcosa di importante" mi concesse. 
"Harry, il ragazzo che alloggiava in questa camera, alto, riccio, occhi verdi" sputai tutto d'un fiato. "Lo sto cercando."
Gli occhi dell'uomo si assottigliarono. 
"Harry, quello col sorriso da stronzo" borbottò leccandosi le labbra. "Anche io lo sto cercando sai, mi deve circa cento verdoni."
"Come? Cioè vuol dire..."
"Che se n'è andato!" concluse quello sputacchiando rabbiosamente. "E' sparito da più di due giorni e non ha pagato un accidente!"
"Sparito? Ma..."
"Ma un corno! E adesso, a meno che tu non voglia saldare il suo debito, sloggia!"

Arretrai lungo il corridoio bollente come un forno crematorio, afferrai il telefono e selezionai il numero di Liam. 
La sua risposta alla mia domanda fu uguale a quella che io avevo rivolto a Grant poco prima. 
"Sparito? Come sparito?"

"Lou!"
La voce ansiosa di mia madre mi accolse, quando corsi dentro casa. La ignorai, non avevo tempo per ascoltarla. 
"Louis che diavolo é successo?" mi osservò mentre afferravo altri soldi dal suo portafogli e "Adesso dove stai andando?" chiese. 
"A cercare Harry. Nessuno sa dove sia. Neanche Liam."
"Io non perderei tempo, se fossi in te."
A parlare era stato mio padre, comodamente seduto sulla poltrona in salotto. 
Mi catapultai in quella stanza, come spinto da mille mani rabbiose. 
"Dov'è?" sputai sprezzante. "Tu lo sai, vero?"
Quello sollevò il mento, inclinò la testa di lato e "Forse" decretò.
Mi fiondai su di lui ringhiando. Mia madre urlò, lui rimase immobile sulla poltrona, il respiro mozzato delle mie mani premute sul petto. 
"Sapevi di noi" ansimai, in preda al panico. "Lo sapevi fin dall'inizio."
"Sì, ma questo non vuol dire..."
"COSA GLI HAI FATTO?" lo scossi, tirai forte il colletto della camicia. "Dimmi cosa gli hai fatto."
L'uomo serrò la mascella, scacciò le mie mani come fossero fuscelli e "Gli ho parlato" ammise gelido e calmo, alzandosi. "Gli ho parlato nel parcheggio dell'ospedale. Era scosso, parecchio scosso per ciò che era appena successo..."
Mia madre mi corse incontro tentando di farmi sedere ma "Che ti ha detto?" gemetti io, allontanandola. "E tu cosa gli hai detto?"
"Si sentiva in colpa Lou" continuò lui serissimo. "Si sentiva in colpa per tutto. E mi ha chiesto se esistessero voli diretti per Londra..."
"No."
"Se fossi rimasto in contatto con la sua prozia di Holmes Chapel."
"N-no..."
"...se la sua casa fosse stata davvero venduta."
"Non è vero!" ansimai, sfuggendo ancora una volta al tocco protettivo di mia madre. "Non può essersene andato. Non così."
"Tu sottovaluti Harry Styles" sospirò quello, avvicinandosi con fare paterno. "O forse ne sopravvaluti la correttezza, se davvero credi che non sarebbe capace di farlo."
Mi sottrassi al suo tentativo di carezza, tornai tremante verso il corridoio.
"Non ci credo" urlai, scuotendo la testa. "Non ci credo!"
"Va pure a cercarlo allora" sbuffò quello, freddamente. "Quando tornerai, al contrario di lui, noi saremo ancora qui ad aspettarti."
Ancora qui. 
Al contrario di lui.

Mi svegliai, portandomi le mani allo stomaco e serrando di scatto la bocca. Scivolai giù dal letto, arrivai in bagno un attimo prima che le labbra si spalancassero contro la mia volontà.
Appena in tempo. 
I conati smisero in fretta, ma rimasi per un po' in ginocchio sulle piastrelle fredde, gli occhi pieni di lacrime e il respiro affannato. 
Avevo imparato a gestire i ricordi in quei giorni, legandoli con un guinzaglio che tenevo saldamente in mano. Purtroppo però, quando l'inconscio prendeva il sopravvento, le mie dita si allentavano, la mia presa si faceva debole, e quelli si liberavano come cani rabbiosi pronti a divorarmi.

Mi sollevai sospirando, poggiai la fronte al muro per godere della liscia freschezza delle mattonelle quando "Lou" sentii chiamare. 
Lottie era sulla porta, pigiama azzurro, capelli scompigliati, piedi scalzi. 
Le sorrisi debolmente, prima di avvicinarmi al lavandino e ficcare la testa sotto il getto dell'acqua. 
Lei non accennò ad andarsene, mi osservò in silenzio. Non un silenzio teso o carico di rancore, ma piacevole, necessario, in qualche modo confortante. 
"Stai meglio" constatai, affondando il viso nell'asciugamano. 
"E tu invece no" mi rimproverò, lanciando uno sguardo eloquente al gabinetto. 
"Non dirlo ad El, per favore." 
"Non lo farò. E' fin troppo petulante quella tipa." Scendemmo le scale insieme. "Le bambine credono sia la tua ragazza. E mamma forse sperava che avessero ragione."
Le rivolsi un sorriso stiracchiato, mentre entravamo nella cucina vuota, il sole a sfiorare il marmo grigio e gli stipetti neri, il foro apertosi nella porta vetrata ormai ripulito di tutte le schegge, a far da finestra sul corridoio. 
"Tu invece? Non lo speravi?"
Lei aggrottò la fronte gettandosi su una sedia e "No" ammise stringendo le spalle. "Harry è più simpatico e più carino di lei."
Quelle parole mi lusingarono, come se i complimenti fossero rivolti a me. E forse anche perché ripulite da ogni traccia di ipocrisia o disgusto. Erano sincere.
"Peccato che non lo pensassi quando lui era qui."
Lottie non parve intimorita da quell'affermazione. Anzi prese un bel respiro, sollevò il capo e "Allora dovresti andare a cercarlo" decretò con un sorriso. "Per potargli le mie scuse quanto meno."
Se possibile, mi sentii ancora più compiaciuto di qualche secondo prima. Ed anche più sorpreso. La stessa persona che aveva lottato con le unghie e con i denti per eliminare Harry dalle nostre vite, adesso si dichiarava dispiaciuta, mi sorrideva parlando di lui, biasimava mia madre per le sue speranze riguardo Eleanor.
Possibile che fosse la stessa ragazzina che, quel pomeriggio di qualche mese prima, aveva ammesso di provar ribrezzo nei confronti di suo fratello? 
Possibile che avesse davvero cambiato idea?
Non lo sapevo. Di una cosa però ero certo: lei era sicuramente cambiata. E non solo per i cinque centimetri di altezza acquistati, per i capelli più scuri e il viso più affilato, da donna; c'era qualcosa nel suo modo di porsi, di parlare, di guardarmi, qualcosa di estremamente maturo, una sorta di pacata consapevolezza che sembrava essere stata costretta ad acquisire troppo in fretta. 
Per questo alla sua frase gentile: "E tu dovresti ricominciare ad andare a scuola" risposi, stupendomi del tono preoccupato della mia voce. 
"Nostra madre non sa proprio tenere la bocca chiusa, eh?"
"Qualunque sia il problema, ti assicuro che venire a Chicago non lo risolverà."
"Non ne sarei così sicura..."
La fiacchezza della sua voce mi convinse a sederle accanto, a cercare i suoi occhi oltre la frangetta bionda.
"E' per colpa mia?" chiesi a bruciapelo. "Parlano ancora di me? Ti prendono di mira perché sei mia sorella?"
"Mi prendono di mira perché sono una matricola, perché sono stata scartata alla selezione delle cheerleaders, perché sono brava in chimica ed ho pochi amici. E sì, qualcuno parla ancora di te. E di Harry, anche. Mi chiedono come state, quando vi sposerete, se farò da damigella" sorrise tristemente, mi afferrò saldamente la mano. "Ma non è colpa tua. Non lo è mai stata, Tommo. La colpa è loro, non riescono a capire gli altri, oppure sono troppo annoiati per farlo. Ed io mi sono resa conto di aver fatto lo stesso errore" la presa sulla mia mano si fece ferrea. "Di non averti capito, di essermi chiusa nel mio egoismo senza voler ascoltare niente che non rientrasse nella mia visione delle cose. Ma ascoltando solo la propria voce non si può crescere.  Forse è anche per questo che volevo venire a Chicago: per ascoltarti e chiederti scusa."
La piccola prese un respiro profondo ed io la imitai. Quel mare di parole si agitava ancora nella mia testa, incapace di placarlo o anche solo di comprenderlo. 
Così, esattamente come avevo fatto con Eleanor qualche giorno prima, lasciai che fosse l'istinto a rispondere; cinsi le spalle di mia sorella e l'abbracciai. 
Lei si irrigidì a quel contatto, ma non si ritrasse. 
"Questo vuol dire che sono perdonata?" 
"Soltanto se tu hai già perdonato me."
Ridacchiò, un po' a disagio. "Diciamo che ho scoperto di non aver nulla da perdonarti."
Mi staccai da lei, il cuore infinitamente più leggero, il respiro calmo, le labbra arcuate in un sorriso difficile da contrastare. 
Ero felice. 
Per la prima volta da quando lui non c'era, mi sentivo davvero felice. 
E ciò che Lottie disse, una volta alzatasi, non poté che migliorare le cose.
"Adesso esigo che tu vada cercare Harry, altrimenti non mi sentirei apposto con la coscienza!"




"Una settimana?"
"Così poco?"
"Così tanto, vorrai dire" Eleanor contraddisse Zayn e si sedette accanto a Liam, accavallando le gambe. "E' un miracolo che suo padre si scomodi a venire! Dato che è in corso l'affare Willis, pensavo che non si sarebbe preso il disturbo."
"Perdendosi così l'occasione di strigliarmi di persona?" ribattei scettico. "Non credo."
"Dovresti essere tu a strigliarlo, veramente!" la voce di Payne rimbombò dall'angolino dove si era rintanato, gli occhi luccicanti di rabbia, la bocca carnosa stretta in una smorfia di disappunto. "E' venuto qui, ha ricattato il tuo ragazzo e poi ti ha trascinato a Chicago. Fossi in te lo manderei a quel paese e tanti saluti!"
"Continuo a non capire perché diate tutta la colpa a lui" Eleanor si protese sul tavolo e afferrò una manciata di noccioline. "E' stato Harry a decidere, alla fine."
Liam rivolse uno sguardo truce alla ragazza, mentre io distoglievo il mio, incapace di rispondere. 
Fissai la strada sterrata al di là del vetro della finestra, la polvere sollevata dalle macchine pronte a partire, i colori fin troppo sgargianti del tettuccio o del paraurti a brillare nella notte. I commenti eccitati e le urla della folla, assiepata attorno, si confondevano con la musica bassa del piano bar all'interno, con il tintinnio del vetro e le risate alticce dei pochi rimasti seduti al bancone; il profumo di benzina si mischiava a quello dell'alcol, creando un climax di odori insopportabile e al tempo stesso assuefacente. 
Non mi ero mai soffermato prima su quei particolari, stando seduto al Dream. Mi ero sempre limitato a vederlo per ciò che era: una bettola in periferia, in cui si racimolava da bere a quattro soldi e ogni tanto si scommetteva su qualche macchina, prima che finisse sfracellata contro i pilastri del ponte, qualche chilometro più in là. 
Invece adesso, abbandonato su uno dei vecchi divanetti, Eleanor di fronte a me a sgranocchiare noccioline, Zayn a giocherellare con un bicchiere di vodka e Payne ad accarezzargli il braccio, io osservavo. 
Osservavo, ascoltavo, sentivo sulla pelle quel posto, così come ogni altro singolo luogo di quella Lancaster in cui mi ero deciso a tornare. 
Era come ritrovarsi a guardare un quadro dopo tanto tempo, accorgendosi con sgomento che alcune forme sono decisamente diverse, i colori falsi, le linee di contorno più scure, nette. Ma avvicinandosi, sfiorandone la superficie ruvida, grattando via le migliorie ed i perfezionamenti, si riscopre la scurezza originaria delle tinte, le pennellate imprecise ed indefinite, l'odore di umido e di vecchio della muffa che ha intaccato la tela. 
Così, io guardavo il Dream semivuoto, ma lo vedevo pieno di gente. Fissavo la porta chiusa in fondo, ma ero sicuro si fosse appena aperta, che un ragazzo alto dalle spalle spioventi l'avesse attraversata, i capelli ricci sulla fronte, un sorriso sbarazzino sulle labbra. 
Sentivo il rombo dei motori, la polvere che attraverso la finestra si adagiava sulla mia pelle, ma anche il sapore del sangue in bocca, la risata malevola di Zayn, le urla spaventate di Payne, il mio pugno abbattersi sul viso di Harry Styles. 
Sospirai, massaggiandomi piano la pancia.
Tornare era stato difficile, più difficile di quanto pensassi. 
Ogni angolo, ogni anfratto di quella città, pareva animarsi ogni qualvolta io vi posavo lo sguardo. 
La scuola rimbombava dei sussurri di Rebecca. 
La mia stanza custodiva gelosamente il profumo di Harry.
Il dondolo in giardino oscillava al ritmo della sua risata. 
E il sottoscala...
Beh, il sottoscala era la porta dell'inferno, l'angolo più oscuro e remoto di quel quadro che ero stato costretto a riscoprire, un ammasso di gemiti prepotenti, di lacrime rubate, di dolori diversi stretti tra loro in un abbraccio senza fine. 
Avevo evitato per tutto il tempo di attraversare quella parte del corridoio, o anche solo di guardare quella porta. Per Louis Tomlinson sarebbe stato come guardare la propria lapide; gran parte di lui ci era morta, lì dentro.

"E' vero, è stato lui a decidere."
La voce di Zayn mi riscosse. Rabbrividii, prima di aggrottare la fronte, ricordando che era di Harry che stavamo parlando. 
"Ma è anche vero" ripeté il moro serissimo, rivolto ad Eleanor, "che si è ritrovato a farlo dopo un litigio epocale con Louis e dopo aver rischiato di ammazzare mio fratello. E in una situazione così, avere come consigliere qualcuno che ti odia, non ti lascia molte alternative."
Eleanor annuì, ancora dubbiosa. Io e Liam, invece, ci voltammo verso Zayn. 
Aveva appena difeso colui che era stato oggetto del suo odio per quasi un anno, e l'aveva fatto con sincerità e spigliata naturalezza. 
Naturalezza che si perse, quando notò i nostri sguardi: arrossì, si infilò una sigaretta in bocca e chinò il capo per accenderla. 
Liam fece scivolare la mano sotto il tavolo, probabilmente per stringere la sua, poi mi sorrise complice. 
Risposi a quel sorriso, risentendo la piacevole sensazione di sicurezza che mi aveva invaso parlando con Lottie, qualche giorno prima. 
"Quindi" saltò su Eleanor, per poi pulirsi le mani sporche di sale sulla giacca di un ignaro Liam. "Abbiamo una settimana prima dell'arrivo del grande capo. Ci vuoi andare o no a Londra, baby?"
"Andare per far cosa?" sbottai, tentando di sembrare abbastanza menefreghista. "Non posso bussare ad ogni porta sperando di trovarci dietro Harry!"
"Hai ragione" mi appoggiò Liam, afferrando improvvisamente il telefono. "Dobbiamo prima contattarlo in qualche modo."
Eleanor alzò gli occhi al cielo. "Come? A quanto pare non si è premurato di dare il suo nuovo numero a nessuno."
"Ed è sparito da qualsiasi social network che io conosca da un bel po'" sbadigliai. 
"Niall!"
L'esclamazione eccitata di Zayn ci fece sobbalzare. 
"Mi aveva detto di averci parlato, forse per e-mail..."
"E te ne ricordi solo adesso?" Liam gli rivolse uno sguardo corrucciato mentre quello si alzava e "Vado a chiamarlo" annunciava, scavalcando la spalliera del divano. 
"Io vado a cercare qualche ragazzo etero che mi offra da bere" sospirò El, alzandosi a sua volta. "Senza offesa eh."
Una volta che se ne fu andata, Liam si voltò verso di me.
"Vorrei poterti accompagnare" mi confidò, in un sussurro. 
"Non è ancora detto che ci vada."
"E' sicuro però che non rimarrai qui con le mani in mano."
Sospirai, guardando Zayn che adesso, accanto alla porta, si teneva il telefono stretto sull'orecchio. 
"Anche se quell'e-mail esistesse" soffiai, "anche se io gli scrivessi ciò che ho scoperto o ciò che ho intenzione di fare, lui non risponderebbe."
"Perché magari vorrebbe che gli dicessi tutto di persona."
Non riuscii a sfuggire a quella sua frizzante iniezione di ottimismo. E sorrisi di nuovo, il piacevole calore allo stomaco che tornava ad avvolgermi e il decisamente petto più leggero. 
Credevo ancora che andare alla ricerca di Harry Styles fosse assurdo, ma grazie all'appoggio di Zayn, Liam, Eleanor e Lottie, quello non mi appariva come un buon motivo per lasciar perdere. 





Holmes Chapel, Cheschire. 
5700 abitanti. 
Strade larghe, villette a schiera, prati e troppi alberi, la pioggia di ottobre a fonderne i colori come sulla tavolozza di un pittore. 
Appena sceso dall'autobus, avvolto nel mio giubbino di tela cerata, due valigie bagnate fradice sul marciapiede, guardai le case di mattoni e le porte sprangate, pensando alla follia. 
Non mi ero mai accorto quanto questa fosse il limite e confine ultimo di qualsiasi sentimento, sensazione o pensiero. Ci si può definire follemente innamorati, o talmente arrabbiati da apparire folli, o così felici da rasentare, nelle espressioni o nei modi di fare, quel concetto tanto abusato di follia. 
Fatto sta che qualsiasi cosa tu provi, qualsiasi cosa tu faccia o anche solo ti passi per la testa, ad un certo punto arrivi ad essere consapevole del suo possibile sfociare nella pazzia. 
E per questo io, quattro giorni dopo la seratina al Dream, con un oceano a separarmi da chi aveva sperato che lì non arrivassi mai ma anche da chi mi aveva aiutato ad arrivarci, mi chiedevo fino a dove si sarebbe potuta spingere la mia speranza prima di trasformarsi in qualcos'altro, in qualcosa di folle.
Avanzai sotto la pioggia e mi diressi verso il locale più vicino, uno dei pochi in paese. 
Farsi prendere dallo sconforto non avrebbe avuto senso. Tornare sui proprio passi, ancora meno. Ormai ero lì, ero davvero lì, e tanto valeva che rischiassi quel poco di dignità che mi era rimasta. Era qualcosa che, al contrario di Harry, potevo permettermi di perdere. 
Rabbrividii.
Harry. 
Lui aveva camminato per quelle strade, respirato quella stessa aria impregnata di umidità, aveva guardato quel cielo carico di pioggia. 
E chissà quante volte aveva attraversato la porta del locale che adesso io spingevo, per poi sedersi con gli amici ad uno dei tavoli. 
Sospirai. 
Era vicino. Lo sentivo dannatamente vicino. 
I pochi avventori del pub si voltarono, al sordo raschiare delle ruote dei trolley sul pavimento di legno. Erano uomini di mezz'età per lo più, così come lo era quello dietro il bancone. 
"Brutta faccenda il tempo lì fuori, eh?" borbottò burbero. "Cosa ti porto?"
"Un caffè. Molto caldo, grazie."
Quello armeggiò un attimo con la macchinetta, poi fissò le valigie che mi stavano accanto. 
"Fatto buon viaggio?"
"Abbastanza, anche se troppo lungo."
"Americano?" 
Sorrisi. "Il mio accento è davvero così evidente?"
L'uomo rise sotto i baffi, mi pose la tazza di caffè bollente di fronte. "Come mai qui? Sei di passaggio?"
"Probabilmente sì."
Sventrai una bustina di zucchero, lo gettai nel liquido scuro. 
"Mio cugino si è trasferito a Londra qualche tempo fa..."
Ne aprii un'altra, versai il contenuto nella tazza. 
"...ma non so dove sia. So però che è nato qui, quindi ho pensato di farci un salto."
L'uomo annuì, tentando di non apparire indisponente mentre mi guardava rigettare nel caffè altre tre bustine di zucchero. 
"Harry" gracchiai con un nodo alla gola. "Harry Styles. Lo conosce?"
"Il piccolo Harold? Chi lo cerca?"
A rispondere non era stato il barista. La voce proveniva dal tavolo più vicino, era molto più sveglia e giovanile, apparteneva ad un uomo, un uomo giovane a differenza degli altri. 
"Louis Tomlinson, suo cugino" sussurrai, sperando forse di scoprire che Harry avesse parlato a qualcuno di me. "E tu saresti?"
Quello si alzò, mi si piazzò affianco e "Nick" si presentò. "Un suo amico."
Il mio cuore parve implodere a quelle parole. 
"Davvero?" deglutii, stringendomi la ceramica calda della tazza. "Sai dov'è?"
Gli occhi piccoli dell'uomo mi studiarono famelici, da capo a piedi, per poi piantarsi nei miei con una sfacciataggine per niente rassicurante. 
"Come faccio a sapere che sei davvero chi dici di essere? Non ho mai visto il cugino di Harry neanche in foto."
"Grimshaw, smettila di importunare il ragazzo!" lo riprese il tipo baffuto oltre il bancone. "Anche io conosco Harry, è tornato qui qualche tempo fa, ma non ci vive."
"Ecco, adesso potresti averlo messo in pericolo, Greg!" Nick alzò gli occhi al cielo, si fece più vicino, piegò la testa per osservarmi meglio. "Per quanto ne sappiamo questo tizio potrebbe essere un pazzo maniaco o che so io."
"L'unico pazzo maniaco qui sei tu, Grim."
Seguii il loro battibecco senza batter ciglio, troppo impegnato a controllare il respiro e ad impedirmi di perdere la testa per dargli ascolto. 
"Se non vuoi dirmi dove vive" ansimai alla fine, allontanandomi bruscamente. "Lo scoprirò da solo. Grazie comunque."
Cadde il silenzio. 
Io mi alzai.
Nick sbuffò. 
"Terzo piano del 42 di Withe Lion street, Londra" intonò poi, a mo' di sfida. "Se ti va ti do uno strappo, così almeno avrò la certezza che non sei un pazzo maniaco."
"Non mi va, grazie" afferrai le valigie, presi a trascinarle con foga attraverso il locale, il cuore a scoppiare nel petto, il corpo scosso dall'eccitazione. "Se mai ucciderò Harry, dovrai averlo sulla coscienza."
Detto questo uscii, senza pagare il caffè che non avevo bevuto e che rimase a raffreddarsi nella tazza bianca sul bancone. 

Londra. Di nuovo. 
Quando ci ero arrivato, quella mattina, mi ero sentito come fuori dal mondo, bloccato in una realtà tra cielo e terra che non mi avrebbe permesso di andare avanti né di tornare indietro. 
Harry aveva scritto l'ultima volta a Niall poco dopo essere arrivato, il contatto e-mail da cui il messaggio era stato inviato risultava ora inesistente. Meno di sette ore prima avevo toccato il suolo londinese, senza aver idea di cosa fare o di dove andare. Adesso, invece, fissavo trepidante l'edificio di fronte a me, il numero 42 di White Lion Street: cinque piani, bianco sporco, balconi stretti. 
Entrai, mi ritrovai davanti un ascensore dalle sferraglianti porte arrugginite, ma optai per le scale. Forse la fatica e la spossatezza fisica sarebbero riuscite a risvegliarmi, a scacciare il torpore che mi raffreddava le membra e mi dava l'impressione di essere in un sogno; o in un incubo sul punto di iniziare: camminavo con il cuore in gola, il passo pesante, una sensazione di spasmodica aspettativa a dilaniarmi il petto, a mandarmi in panne il cervello. 
Salii le scale sorreggendomi al corrimano, più piano che potei: d'un tratto l'eccitazione era scomparsa, inghiottita da una torbida melma di incertezza e paura. 
Paura. 
Sì, era questo che provavo arrivando ad ogni piano, leggendo i nomi sui campanelli, superando le porte chiuse. Ma come una vespa che spinge il pungiglione più a fondo nella carne, pur sapendo di essere destinata a morire, non mi fermai. Non potevo farlo, non adesso. 
Arrivai al terzo piano con la testa pesante e la vista annebbiata. Suonai al primo campanello. Trattenni il respiro. 
Cosa stai facendo, Lou?
Lui non vuole vederti, non ti vuole qui. 
Evita ad entrambi un dolore inutile. 
Evita a te stesso l'ennesima umiliazione.
Dei passi dall'interno, brusii di voci. 
Va via.
Sei ancora in tempo. 
Una risata soffocata, vicinissima. 
Vattene, prima che lui ti renda suo schiavo di nuovo.
La serratura scattò. 
Il sorriso morì sulle labbra del ragazzo che aveva aperto, la bocca rossa si spalancò come quella di un pesciolino che annaspa fuori dall'acqua. 
Harry Styles, bello come in ogni mio sogno, era di fronte a me.
Si aggrappò alla porta ansimante, chiuse gli occhi una, due, tre volte, prima di spalancarli e travolgermi con la loro immensità. 
Il cuore mi si fermò nel petto, l'irrazionale voglia di piangere mi strinse la gola, proprio come la prima volta che ero riuscito a capire quegli occhi.
E come la prima volta, ebbi paura della sconfinata voragine su cui si aprivano. 
Ma non piansi. Non parlai nemmeno. Lasciai solo che quel vuoto mi inghiottisse, che l'immenso nulla in cui Harry Styles si era rintanato di nuovo imprigionasse anche me. 
Ma poi lui sussurrò qualcosa.
Il mio nome. 
Inconsapevolmente, mi avvicinai. 
"Louis" ripeté, la voce roca e flebile, poco più di un bisbiglio ma forte abbastanza da respingere l'oscurità che mi avvolgeva, da farmi desiderare di liberare anche lui. 
"Harry, io..."
"Che d-diavolo" si morse la lingua, tentò di concentrarsi, "che diavolo ci fai qui?"

"Tesoro, chi è alla porta?"
L'urlo profondo e curioso precedette l'apparire di un uomo dal fondo del corridoio. Il mio cuore riprese a battere con forza dolorosa. Gli occhi di Harry si fecero se possibile ancora più grandi, terrorizzati, quando rispose. 
"Mio cugino."



Harry 

"Il tempo è il numero del movimento secondo il prima e secondo il dopo."
Mi pare fosse stato Aristotele a dirlo ed io, non so come, circa duemila anni dopo mi ero ritrovato a leggerlo su uno dei vecchi libri di mia madre, di quelli che si portava sempre appresso e non aveva mai voluto vendere, nonostante fosse laureata già da un pezzo. 
"Non ha senso" avevo decretato, abbandonandolo sul tavolo per poi raggiungerla sul divano. "Solo perché non capisci qualcosa non vuol dire che non abbia senso."
"Spiegamela, allora."
Lei aveva sorriso, allargando poi le braccia per accogliere il mio acerbo corpo da dodicenne. 
"La vita è movimento continuo ed inarrestabile, ogni essere, oggetto, particella dell'universo si trasforma, e sono le differenze che vi riconosciamo a decretare il prima e il dopo."
"Quindi il tempo esisterebbe solo in funzione di questo?" avevo chiesto scettico. "Eppure trascorre anche se rimango immobile, guarda!"
Avevo chiuso gli occhi e fermato ogni muscolo del mio corpo, facendola scoppiare a ridere. 
"Per movimento si intende anche quello che c'è qui dentro" mi aveva colpito piano la fronte con il dito, per poi alzarsi e dirigersi in cucina. 
La sua pazienza non era comunque servita a farmi capire Aristotele. Così come quella di Liam non era bastata a farmi studiare come si deve Bergson. Avevo rintracciato, però, nel suo pensiero, qualcosa di più simile alla mia idea di tempo. 
Un enorme gomitolo che si dispiega all'infinito, portandosi dietro un carico pesantissimo di spago, una massa intricata di ricordi di cui non riuscirà mai a liberarsi. E la velocità con cui esso riesce a srotolarsi dipende solo ed unicamente dalla quantità di questo peso, dalla sua capacità di farlo diventare un bagaglio utile e non un intoppo. 
Tre mesi, in fin dei conti, se guardati voltandosi indietro, non sono che una misera ed innocua parte di quello spago, un trancio di vita insignificante se paragonati agli anni già passati o a quelli che devono venire. 
Il mio prima e il mio dopo erano stati scanditi dal cambiamento più evidente, dalla svolta più profonda che avevo impresso alla mia vita: lasciare Lancaster, tornare a casa. Eppure il dopo sembrava protrarsi infinitamente più a lungo; da quando ero salito su quell'aereo il mio gomitolo rotolava lento ed indolente, e fin troppe volte aveva rischiato di fermarsi. 
102 giorni, 2448 ore, 146000 minuti più o meno. 
Ecco, definiti così i tre mesi appena passati cessavano istantaneamente di essere pochi, per diventare una vera e propria eternità. 
E se davvero il tempo è qualcosa che dipende dalla testa, non potevo sperare che per me scorresse più veloce, dato che da quando avevo messo piede in Inghilterra avevo deciso di spegnerla. 
Mi ero imposto di non pensare mai più a Louis Tomlinson, e di conseguenza mi ero ritrovato a non pensare più a niente. 

Avevo chiamato Abbie, appena arrivato, solo per istinto di conservazione. Lei aveva urlato al telefono, prima di gioia, poi stupore, in fine di rabbia: perché diavolo ero sparito nel nulla da più di un mese? Perché non l'avevo chiamata dopo il diploma, come avevamo stabilito? E aspetta...ero davvero a Londra? Ero sul serio tornato senza dirle nulla?
Si era calmata dopo dieci minuti buoni, io avevo recuperato le valigie e circa mezz'ora dopo lei era venuta a recuperare me. 
A questo punto vorrei poter dire che mi aveva gettato le braccia al collo, che mi aveva baciato e stretto forte, come qualsiasi migliore amica che si rispetti. 
Quello che avevo ricevuto, invece, era stato un pugno sul petto accompagnato da un: "Maledetto Harry Styles! Si può sapere che diavolo ci fai qui?"
Ed anche se non avevo risposto, se avevo cambiato discorso e lei aveva continuato a blaterare e lamentarsi finché il sole non era calato, alla fine mi aveva portato a casa. Sempre che il minuscolo bilocale sulla Warton St, che condivideva con il suo ragazzo, potesse definirsi tale. 
Ero riuscito a dormire e mangiare a sbafo lì per più di una settimana, prima che Teddy -così si chiamava l'adorabilefidanzato- iniziasse a lamentarsi delle valigie sempre aperte ficcate nel corridoio, delle mie scarpe in salotto, dei miei vestiti confusi con i suoi in lavatrice, o delle condizioni del divano che avevo adibito a letto. E non fu certamente un caso il fatto che Abbie si fosse decisa a chiedermi di trovare un'altra sistemazione, lo stesso giorno in cui lui era entrato in bagno e mi aveva trovato ad usare il suo rasoio sotto la doccia. 

"Sul serio Harry, questa non è una buona soluzione" aveva sospirato, tentando di aprire una lattina di fagioli in scatola. "Qui dentro in tre stiamo troppo stretti."
"Ti ho già detto che ho quasi risolto" le avevo mostrato gli annunci degli affitti che da giorni spulciavo sul giornale. 
"L'appartamento sulla Grey's?" aveva chiesto lei scettica. "Non puoi permetterti qualcosa di più vivibile?"
Avevo sospirato, per poi alzarmi e sventrare la scatoletta contro cui stava lottando. 
No, non potevo permettermi altro o forse non volevo. L'assegno di mio zio era ancora piegato al sicuro dentro la tasca del giubbotto, la scadenza per il ritiro dei soldi era prevista da lì a due giorni, ed io ancora non sapevo se mi sarei mai presentato in banca per intascarli. In effetti, sarebbe stato stupido non farlo, arrivati a quel punto: il biglietto l'avevo ormai usato, avevo ceduto al ricatto, rinunciato al mio orgoglio, non avrebbe avuto senso rifiutare quei soldi per la minuscola parte rimastane ancora intatta. Ma qualcos'altro mi aveva tenuto, fino a quel momento, lontano da qualsiasi sportello bancario: la paura. Paura di sfruttare l'aiuto velenoso che mi era stato offerto, di pagare l'affitto di una casa che non avrei voluto, con soldi che non mi appartenevano. Paura di ricominciare a vivere partendo da agi ed averi che mi ricordassero che in realtà ero morto, da quando mi ero piegato alla volontà di quell'uomo, io ero morto. 
E probabilmente sarei riuscito a farmi bastare i pochi risparmi  sul mio conto, a convincere Abbie a farmi rimanere finché non avessi trovato un lavoro, o forse alla fine sarei andato a prendermeli quegli stupidi soldi, sputandoci sopra prima di usarli. 
Fatto sta che il giorno in cui Abbie mi chiese di andar via, fu anche quello in cui incontrai Nick. 
Si era presentato alla nostra porta bagnato fradicio, scalzo, mocassini stretti in mano e una miriade di parolacce in bocca. 
"Che ci faccio qui, Abbie? Che ci faccio qui? Sono venuto a riprendermi il mio fottutissimo amplificatore, quello che il tuo fottutissimo ragazzo ha preso in prestito due fottutissimi mesi fa e..."
La scarpe gli erano scivolate di mano, finendo sguazzanti sul tappeto, quando mi aveva visto sul divano. 
"Allora le voci erano vere" aveva sogghignato, scostandosi il ciuffo bagnato. "Il figliol prodigo è tornato in città."
Un secondo dopo ero schiacciato contro la sua camicia bagnata e stretto tra le sue braccia magre. Avevo risposto al saluto con più trasporto di quanto io stesso mi sarei aspettato; non mi era mancata la sua voce allusiva, le battutine maliziose, il sorriso serafico e gli occhi da diavolo che per più di quattro anni ero stato costretto a sopportare. Cugino di Abbie, prima persona che avessi mai baciato -se non si conta Abbie stessa- amico d'infanzia di Tom, inaccettabile rompipalle. A rifletterci bene, ero riuscito a resistere in sua compagnia per più di tre ore soltanto da ubriaco. 
"Beh allora? Come mai quest'apparizione in sordina? Sei di passaggio?" aveva chiesto, gettandosi sul divano con nonchalance. 
"Non credo proprio..."
"Cioè vuol dire che torni a vivere qui? Nel senso con noi?"
"Se riusciamo a trovargli un alloggio decente" era intervenuta Abbie, preoccupata. 
"Scherzi vero? Farò in modo di liberare un po' di spazio a casa mia."
"Casa tua non è decente, Grimmy!" aveva sbottato l'altra, alzando gli occhi al cielo. "E come credi di poter trovare spazio? Buttando fuori a calci tua sorella?"
Con mio sommo piacere, l'altro aveva sospirato, scuotendo la testa e quindi scartando mentalmente l'idea. Avrei preferito dormire per strada piuttosto che nella stessa casa di Nick, ma non ero così ottimista da sperare che avrebbe semplicemente lasciato perdere la cosa. 
Non ero rimasto stupito infatti quando "E la vecchia Meggie, quella parente di tuo padre? Che fine ha fatto?" aveva chiesto, curiosissimo. 
"Nick diavolo, non ne ho idea! E non vedo come potrebbe aiutarmi, vive in un ospizio!"
"Sempre che non sia già morta. E la tua vecchia casa?"
Un silenzio teso era calato tra noi. Abbie aveva rivolto al cugino un'occhiata di rimprovero. 
Ma comunque "Venduta" infine avevo sussurrato io, per evitare a tutti quel noioso imbarazzo. 
"Però dovresti farci un salto, una volta ogni tanto, ad Holmes Chapel" aveva insistito Nick innocentemente. "Sai di solito organizziamo qualche seratina al pub: birra, vecchi amici raccattati qua e là. Farebbe piacere a tutti rivederti."

Guarda caso, una delle loro simpaticissime rimpatriate si era tenuta esattamente la sera dopo e Nick era riuscito a trascinarmici per incontrare questi tutti, che in realtà non erano altro che Josh, il mio vecchio compagno di scuola, Mary, Abbie e, ovviamente, Tommy. 
O Tom, come in effetti lui preferiva essere chiamato adesso. Seduto nel suo solito posto accanto alla finestra, i capelli lisci castano chiaro più lunghi, la barba più folta, i tatuaggi più numerosi su petto e braccia. Non si era alzato per abbracciarmi o salutarmi, non mi aveva neanche rivolto la parola. Tutto ciò che aveva fatto, rimanendo seduto nel suo angolino preferito, era stato sorridermi per poi chiudere gli occhi e chinare la testa con riverenza. Un vero e proprio piccolo inchino. E allora io avevo scosso la mia di testa, mentre il cuore correva folle nel mio petto: credevo di aver dimenticato quello stupido gioco, o che perlomeno lui l'avesse fatto.
Ma mi sbagliavo.
Perché dopo una serata passata ad ignorarci -a parole ma non con gli occhi-, all'uscita dal pub "Sua maestà" era stato il sussurro che mi aveva fatto sobbalzare, "sono felice che siate di nuovo tra noi."
Alla sensazione di dejavù se n'era unita un'altra allora, più sottile ed insidiosa, come la sua voce: quella del compiacimento, della soddisfazione. 
"Ho smesso di essere Sua maestà tanto tempo fa, Tommy. Quando me ne sono andato, ricordi?"
"Questo è quello che credete ma..." mi aveva afferrato la mano, se l'era avvicinata alle labbra, "il cuore di un suddito fedele non potrà mai dimenticare la propria regina."
"Oddio, ancora con questa storia!" Nick era passato tra noi dedicando una spallata al suo amico. "Finiscila di renderti ridicolo."
Tom non si era scomposto, mi aveva baciato la mano e poi "Volevo solo pregare la mia signora, affinché mi accompagnasse a bere in un posto più adatto a lei, a Londra magari" mi aveva proposto.
Ero scoppiato a ridere, ignorando Nick che "Essere chiamato la mia signora mi farebbe imbestialire" commentava, per poi "Accetto solo se la smetti di darmi del voi" rispondere. 
Tom aveva annuito, il ghigno sul viso sempre più largo, le dita ancora strette attorno alle mie. 
Ma alla fine non aveva mantenuto la promessa.
Aveva continuato a darmi del voi mentre bevevamo e ballavamo in chissà quale locale. 
Aveva chiesto il permesso a "Sua maestà" prima di infilarmi la lingua in gola. 
Aveva ringhiato più e più volte quanto fosse felice che la sua regina fosse tornata, mentre mi scopava in uno dei bagni. 
Il giorno dopo mi ero trasferito da lui. 
Una settimana dopo avevo trovato lavoro come commesso. 
Non avevo ritirato l'assegno. Avevo cambiato numero, eliminato tutti i contatti con Lancaster, cancellato ogni tipo di account da ogni tipo di social network.  Avevo ricominciato da zero e non provavo rimorso, vergogna, nessuna forma di pentimento. 
Questo perché ci ero riuscito davvero, alla fine. Mi ero liberato di Louis o meglio di quella parte di me che lui aveva risvegliato, l'unica che ne avesse davvero bisogno. Peccato solo che quella parte fosse la più importante di me, quella più vera, autentica.
Avevo cancellato insieme a Louis Tomlinson anche tutto me stesso.
Ero una pagina bianca adesso, la mia storia si intravedeva solo in controluce sul foglio ruvido, spiegazzato per le cancellature, scabroso al tatto; la mina di qualsiasi matita avrebbe trovato difficoltà a scriverci sopra, ma alla fine sarebbe riuscita a coprire i vecchi tratti: chiunque avrebbe potuto scrivere su di me la propria storia ed io l'avrei seguita senza obbiettare.
Era toccato a Tom farlo: Harry Styles da niente era tornato ad essere la sua regina. E la regina non era altro che ciò che lui voleva che fossi: un forma falsa, una matriosca dai colori sgargianti e bellissimi, ma vuota all'interno. 
Una maschera che avrebbe retto chissà ancora per quanto tempo, se quel giorno di ottobre, alla mia porta, non si fosse presentato Louis Tomlinson. 
Colui che avevo cancellato, colui che non esisteva, colui che mi ero costretto a considerare morto esattamente come i miei genitori, era lì: gli occhi brillanti incastonati come diamanti tra i capelli ambrati umidissimi, la bocca sottile spalancata, il petto largo a tremare orrendamente. 
Louis Tomlinson era lì e finalmente avevo capito che vi era una differenza fondamentale tra il muro innalzato dopo la morte dei miei e quello che avevo eretto per difendermi da lui: il secondo era infinitamente più debole. Era bastato un suo unico sorriso per farlo saltare in aria. 

E adesso che stava seduto al tavolo della minuscola cucina, io tentavo disperatamente di raccogliere le macerie e ricomporne la base, prima di subire un altro devastante attacco. 
"Allora, Louis giusto?" Tom gli si accomodò di fronte sorridendo. "Da quanto sei arrivato a Londra? Harry non mi aveva detto che..."
"Non lo sapeva" rispose lui  al posto mio, in tono totalmente casuale. "Non ho avuto il tempo di avvertirlo del mio viaggio. Ma trovandomi nei dintorni non potevo evitare di passare a salutarlo."
La sua voce si perse, calma e sospesa, tra le mura della cucina, mentre Tommy annuiva e lui si arrischiava a guardarmi, allungando appena il collo. 
Distolsi lo sguardo. Mi chiedevo cosa gli passasse per la testa, adesso che stava seduto di fronte al mio nuovo quasi ragazzo: magari non vedeva l'ora che si levasse dalle palle per potermi urlare in faccia quanto mi odiasse; o avrebbe tentato di conoscerlo, per infliggersi un'altra inutile quanto spossante sofferenza; o forse era solo curioso di scoprire quanto in fondo Tom sapesse: se gli avessi raccontato di lui, di noi. 
Probabilmente, sarebbe rimasto deluso nello scoprire che non avevo fatto il suo nome neanche una volta da quando ero tornato, così come non avevo mai parlato di Lancaster a nessuno. Lì a Londra, noi due eravamo tornati ad essere un segreto. 
"Beh comunque..." Tom si voltò a guardarmi, confuso dal mio strano silenzio. 
Misi a tacere le sue preoccupazioni: "Come hai fatto?" sbottando veloce, per impedirmi di balbettare. "A trovarmi, intendo."
"Nick Grimshaw è abbastanza come risposta?"
Tom scoppiò a ridere dandogli poi una pacca sulla spalla. "Oddio sì, lui è la risposta ad ogni domanda!"
"E lui" sussurrai pianissimo. "Come l'hai trovato?"
Louis si congelò, le sue guance si fecero rosse mentre Tom inarcava un sopracciglio, scioccato dalla mia indisponenza. 
Non aspettai la risposta. Mi voltai di scatto verso la cucina, ficcai nel fornetto la cena che avrei dovuto riscaldare già da tempo. Dato che avevo superato il momento delle presentazioni con successo, pensavo che stare nella stessa stanza con entrambi non sarebbe stato poi così complicato. 
Ma il nodo che mi si stringeva attorno alla gola, il tremore alle mani e quella dannata voce nella testa mi suggerivano ora il contrario. 
Perché sì, mia madre era tornata a parlare, ad urlare quasi, continuamente, ininterrottamente, da quando Louis aveva messo piede in quella casa. Non riuscivo però a capire cosa dicesse. O forse, semplicemente, non volevo farlo. 

"Ceni con noi, Louis?"
Il rumore del bicchiere che si infranse sul pavimento, a seguito di quelle parole, fece calare il silenzio in cucina. 
Di nuovo Tom mi fissò stranito. Di nuovo Louis ne approfittò per lanciarmi un'occhiata, stavolta totalmente imbarazzata. 
"Harry stai..."
"E' tutto apposto" mi chinai a raccogliere le schegge di vetro a terra.
"Credo sia meglio che vada" Louis si alzò, smuovendo rumorosamente la sedia. "L'ostello in cui ho prenotato è abbastanza lontano."
"Ostello? Stai scherzando?" anche Tom adesso era in piedi e gesticolava come un pazzo. "La nostra stanza degli ospiti è cento volte meglio, credimi. Ed inoltre si sente terribilmente sola, non ci ha mai messo piede nessuno, sai."
Se avessi avuto un altro bicchiere in mano probabilmente sarebbe scivolato di nuovo a terra; o forse l'avrei lanciato in testa a quel maledetto idiota che offriva ospitalità neanche fosse un anfitrione greco. 
"Veramente io non so..."
Mi risollevai e gli occhi supplichevoli di Louis finirono a scontrarsi con i miei. 
Mi stava chiedendo il permesso. 
Fa che rimanga. 
Tu vuoi che rimanga.  
"Dovremmo cambiare le lenzuola in quel letto" sussurrai soltanto. 
"Perfetto" Tom spinse Louis a risedersi, rassicurato dal mio consenso. "Puoi restare fino al giorno della partenza, non fare complimenti."
"Quanto tempo rimarrai?"
La mia domanda sincera e diretta fece calare di nuovo il gelo in cucina. 
Ma stavolta Louis non si scompose, sollevò la testa, mi guardò come se al mondo non ci fosse nessun altro. 
"Tutto il tempo necessario, Harry."




"Maestà?"
Il bisbiglio di Tom mi solleticò l'orecchio. Mi mossi a disagio tra le lenzuola, sospirai piano sperando che mi credesse addormentato. 
"So che sei sveglio, Harry. Respiri troppo lentamente."
Bene, tentativo fallito. 
"Che c'è?"
"Sei arrabbiato?"
"No, non credo."
"Allora scocciato?"
"No."
"Triste?"
Sbuffai, voltandomi a guardarlo. "Perché dovrei?"
"Louis" sussurrò lui, sollevandosi. "Cosa c'è tra voi?"
Il cuore mi balzò nel petto, prima che la mia mente potesse capire che non mi stava chiedendo cosa ci fosse tra noi in quel senso. 
Ma ha comunque capito che qualcosa non va...
La voce irritante di mia madre si affievolì mentre "E' solo che" riprendeva il ragazzo sdraiatomi accanto, "si è presentato qui dicendo di esserci arrivato per puro caso e a te non sembra far molto piacere."
"Questo avresti dovuto chiedermelo prima di invitarlo a restare."
"Ecco vedi, sei arrabbiato."
"Non sono affatto arrabbiato" mi misi a sedere sbuffando. "E' solo che..."
...che in effetti non ti fa piacere. 
Ma allora perché non vuoi che se ne vada?
Rimasi in silenzio a contemplarmi le mani e allora fu Tommy a sbuffare. 
"Non potevo sapere che ti avrebbe infastidito" mi attaccò velenoso. "Non mi hai mai detto niente di lui o di quella fottuta Lancaster!"
"Beh tu non me l'hai mai chiesto."
"Te lo sto chiedendo adesso" mi afferrò il mento costringendomi a guardarlo, il viso spigoloso e il mento pronunciato più evidenti alla luce della luna. "Cosa c'è tra voi?"
E stavolta, per quanto fossi sicuro che il senso della domanda fosse lo stesso di prima, riuscii a sentirla: una nota stridente nella voce di solito calma ed affabile, un guizzo esasperato negli occhi color nocciola a poche spanne dai miei. 
Irritazione. 
O gelosia. 
Maniacale senso del controllo. 
Tutti tratti tipici di Tom, in effetti: ero la sua regina, pensava che proteggermi fosse un suo dovere. Peccato però che considerasse da sempre un po' troppo pericolose un po' troppe cose. O persone. 

Come il tipo che picchiò alla festa di Natale del Blue Bridge, ricordi?
Ti aveva chiesto solo che ora fosse. 

Rimossi quel ricordo sospirando per poi "Non è niente di importante, Tom" bisbigliare. "Sono fuggito da Lancaster senza dir nulla ed ho solo paura che lui ce l'abbia con me."
In effetti, quella era la verità. Ridotta e in qualche modo modificata, ma pur sempre verità. 
Tom alzò gli occhi al cielo, la mano che mi serrava il mento calò dolce sul mio collo. 
"In quel caso lo rimetterei apposto io" ansimò suadente sulla mia bocca. "Nessuno può prendersela con la mia regina, lo sai."
Sorrisi e lui mi baciò. 
Fu un bacio calmo e sincero all'inizio, guidato dal piacere di esserci rassicurati a vicenda, ripieno di quelle attenzioni più che fisiche che raramente l'uno dedicava all'altro. Ma ben presto la sua presa sul collo si fece più feroce, la sua lingua più decisa, le sue mani corsero sotto la mia maglietta. 
Finii con la schiena contro il materasso sbuffando, il suo corpo premuto sul mio. Era sempre stato più magro di me, fin troppo magro per essere un ventisettenne, ma era alto e forte, assurdamente forte. 
Come ogni volta in cui il contatto tra noi superava la spontaneità del vero affetto che ci legava, mi imposi di chiudere il cervello, di tramutare ogni emozione in sensazione, di mettere a tacere la mia anima ed essere semplicemente corpo, perché solo con quello avrei potuto amarlo. 
Quella sera però non ci riuscii. 
Come avrei potuto?
Il mio muro era appena crollato, Harry Styles stava tornando a galla e Louis Tomlinson era nella stanza accanto!
Deglutii, mi staccai dalle labbra di Tom per riprendere fiato. 
Louis è nella stanza accanto. 
E tu stai baciando un altro.
Mi sollevai di scatto, senza neanche accorgermene sfiorai il muro che ci divideva. 
"Harry?"
"Scusa" biascicai, gli occhi ancora chiusi, il battito del cuore nelle orecchie. "Non sono dell'umore giusto."
L'altro annuì, anche se visibilmente contrariato. "Certo, come vuoi."
Si rigettò sul cuscino sbuffando, non mi dedicò una parola in più. 
Io rimasi immobile, la mano ancora tesa, la gola secca, il cuore a protestare nel petto. 
Quando fui sicuro che Tom stesse dormendo, inspirai profondamente e mi alzai. 



Louis  

"Venire qui è stata una cazzata. Ho fatto un'enorme, esorbitante cazzata!"
"Se non ci fosse un oceano a dividerci verrei a picchiarti, Tommo" la voce di Zayn suonò esasperata, dall'altro capo del telefono.
Mi morsi le labbra, presi a camminare più veloce sul balconcino del salotto, affacciato sulle strade di Londra.
"Lui vive con un ragazzo, Zay" sibilai trai denti. "Un altro ragazzo!"
"Questo non vuol dire niente."
"Invece vuol dire che per oggi mi sono illuso anche abbastanza, che domani farò le valigie e..."
"No che non lo farai" la sicurezza con cui lo disse mi stupì e spaventò. "Tu non vuoi andartene. Potresti, in effetti, sarebbe la scelta più semplice, come lo è stato ritirarsi da scuola, farsi licenziare, fuggire a Chicago. Ma non ti arrenderai di nuovo: sei abbastanza forte per subire una sconfitta, ma non per sopportare il rimorso che ti perseguiterà se rinunci a lottare di nuovo."
Scossi la testa, anche se lui non poteva vedermi, mi aggrappai alla ringhiera fredda, come se questo potesse aiutarmi a riordinare le idee. Scoprire di Tom mi aveva scombussolato. Vederlo arrancare nel corridoio, per poi cingere le spalle delmio ragazzo era stato come ricevere una pallonata in pieno petto. O meglio, nello stomaco, dato che era quello che avevo dovuto controllare per tutta la sera, mentre l'uomo tatuato da testa a piedi mi parlava e mi sorrideva. 
Affabile, fin troppo disponibile, nel modo di muoversi un tantino nervoso, appena un po' inquietante.
Questo aveva registrato il mio cervello, durante la cena che sembrava essere stata la più lunga della mia vita: aveva parlato tantissimo, dicendomi orgoglioso che faceva il tatuatore, che lui ed Harry si erano conosciuti grazie a Nick ad una festa ad Holmes Chapel, che era stato il suo primo ragazzo. Tutte cose di cui ero già a conoscenza e che non mi interessavano minimamente. Lui di me invece non sapeva nulla, Harry gli aveva a malapena accennato della mia esistenza. 
In un'altra situazione, avrei ammesso che in fin dei conti questo Tom era un tipo a posto, se non fosse che ero stato tutto il tempo ad immaginarlo mentre si scopava il mio ragazzo e a trattenere i conati di vomito scatenati al pensiero.
Questo Zayn non lo sapeva, perciò era convinto che stavolta ce l'avrei fatta, che non avrei lasciato che gli eventi scorressero semplicemente senza neanche provare a controllarli. Ma in fin dei conti, se non ero in grado di lottare per Harry, non lo sarei stato per nient'altro nella mia vita.

"Io non so cosa voglio, Zayn. Non so cosa fare."
"Lo so io cosa farai" sputò quello deciso. "Rimarrai lì, parlerai con quel fottuto idiota di Styles, gli dirai tutto ciò che devi e poi lo riporterai qui. Sei partito per questa missione a mie spese e non sono pronto ad accettare alcuna resa da parte tua!"
"Grazie, Zay."
"Mi ringrazierai come si deve quando sarai riuscito a trascinare qui il culo di tuo cugino. Dopo essertelo scopato, magari."
Sorrisi mio malgrado, lo salutai con un insulto, mi infilai il telefono in tasca riuscendo finalmente a godermi la soffice e brulicante quiete londinese. La città brillava di fronte ai miei occhi, i palazzi si libravano sospesi nella nebbiolina argentata, neanche un soffio di vento a disturbare l'immobile umidità dell'aria. 
Era bellissima, decisamente bellissima... 

"Credo che tu abbia ragione: hai fatto una cazzata venendo qui."
Sobbalzai, mi voltai così velocemente da causarmi un capogiro. 
Harry Styles veniva verso di me, una sigaretta in bocca, i piedi scalzi. 
Lo guardai come non mi ero ancora azzardato a fare in presenza di Tom. 
Labbra screpolate, pelle più chiara, capelli più lunghi, non troppo ricci, imprigionati da una bandana sudicia legata dietro la nuca. Bicipiti più sviluppati oltre i bordi delle maniche della camicia a quadri, una coroncina stilizzata marchiata con inchiostro nero appena sopra il gomito, due o tre anelli sulle dita lunghe e nodose. 
E gli occhi verdi socchiusi, attenti, pronti finalmente a studiarmi, ad osservarmi come non aveva osato fare durante la cena. 
Bellissimi, più belli delle luci della città. 

"Zayn non è d'accordo" mi sfilai l'accendino di tasca avvicinandomi. "E forse io sono più che propenso a dargli ascolto."
"Malik dovrebbe capire che è tardi per rimediare ai suoi errori."
"Io sono qui" feci scattare la fiammella a pochi centimetri dalle sue labbra, tremai nel sentirlo aspirare, "per rimediare ai mieidi errori."
Harry sbuffò, afferrò la sigaretta ormai accesa tra le dita e "Cos'hai fatto alla mano?" chiese rude, osservandomi mentre l'allontanavo. 
Carezzai distrattamente la benda sottile che copriva i quindici punti di sutura. 
"Non ti piacerebbe saperlo."
"No, forse no."
"Quello invece?" indicai la corona sul gomito, stando ben attento a non toccarlo. "E' un tatuaggio?"
"Non ancora" soffiò. "Ma Tom vorrebbe che lo diventasse."
"Tom, certo" mascherai l'irritazione con un risatina spenta, sfiorai gli anelli. "Questi te li ha regalati lui?"
"Cos'altro si potrebbe regalare ad una regina?"
Non capii quella risposta, ma questo non mi impedì di "Voi due fate sesso?" sputare, incontrollato. 
"A volte."
"Quindi state insieme?"
"Lui crede di sì."
"Tu invece cosa credi?"
Harry gettò la testa all'indietro, una sottile striscia di fumo fuoriuscì dalle labbra schiuse. "Che finché mi da un posto dove stare, non mi conviene fargli cambiare idea."
Sorrisi, non potei farne a meno. 
"Non lo ami, quindi."
"Questo non cambia le cose."
"Oh per me le cambia eccome."
Harry gettò il mozzicone nella strada sottostante e si poggiò alla ringhiera, le spalle curve, il viso illuminato dai lampioni. 
"Tu non dovresti neanche essere qui, Louis."
"Non è detto. Sai ero stanco di rimanere a Chicago a far finta di vivere costringendomi ad odiarti."
Il mio tono ironico gli fece alzare gli occhi al cielo. 
"Odiarmi è un tuo diritto. Sono stato io a mentirti, ad aizzarti contro la tua famiglia, ad abbandonarti."
"...oppure sono stato io a lasciarti andare, dipende dai punti di vista."
Harry sbuffò, si sollevò di scatto venendomi vicino, assurdamente vicino. 
Deglutii. Mi ero dimenticato quanto fosse più alto di me.
"Cosa vuoi da me, Louis?" mi afferrò dalle braccia, quasi temendo che fuggissi. "Perché sei qui?"
"Io voglio che mi perdoni" ansimai, tentai di non fissare le sue labbra. "Che mi perdoni per non averti saputo ascoltare, per aver dubitato di te, per aver davvero creduto che mi avessi lasciato solo."
La sua sicurezza vacillò, insieme con la stretta sulle mie braccia. 
Boccheggiò un attimo, alla ricerca di una risposta o forse dell'ennesima domanda. Ma io non gli diedi il tempo di pormela perché "E sono qui" continuai tremante, il naso a poche spanne dal suo, "perché tu mi ami. So che mi ami."
Harry rabbrividì, poggiò il capo sul mio ansimando forte, le spalle scosse da tremiti soffocati. 
Ed io capii che Zayn aveva ragione, perché ogni parola che avevo detto era vera. Perché adesso, nonostante tutto, sapevo che avrei provato a baciare Harry Styles. Perché stavolta davvero, non sarei stato in grado di rinunciare. 
Ma lui si ricompose prima che potessi muovermi. Abbandonò rudemente le mie mani, si rintanò dentro strisciando i piedi nudi sul pavimento. 
"Dovresti tornare a casa, Louis."
"Lo farò" mi voltai a guardare il cielo sospirando, "ma solo se riuscirò a portarti con me."

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