A Kind Of Brothers? (AKOB?) b...

By serenapittino

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E poi arrivò quel momento, quello che avevo pregato tutto il tempo che non fosse stato ripreso. Sentii Zayn i... More

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3. WAKE UP
4. VIDEO
6. RICATTO
5. LO PSICOLOGO
7. IN YOUR MIND
8. COMPITI A CASA
9. PARCO GIOCHI
10. OCCHI
11. RISCHI
12. I WOULD
13. NEXT TO ME
14. BLACK HOLES AND REVELATIONS
15. SOME NIGHTS
16. CHANGES
17. WHAT DO YOU WANT?
18. NEW YEAR & DEJÀ VU
19. BLACKOUT
20. THE DEMONS FROM YOUR PAST
21. WHEN YOU'RE TOO IN LOVE TO LET IT GO
22. SENSI DI COLPA
23. VOICES & TEXTS
24. CAN I HAVE THIS DANCE?
25. BROKEN
26. CRY
27. PHOTOS
28. COMPLICAZIONI
29. GET IT RIGHT
30. SECRETS
31. VIDEO 2.0
32. HURT
33. DADDIES
34. THE LAST DANCE
35. THE CURE
36. FAR AWAY
37. THE QUEEN
38. UNDISCLOSED DESIRES
40. THANKS FOR CALLING
41. WATING FOR YOU
42. SHAKE IT OUT

39. HOLMES CHAPEL

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By serenapittino


Louis 

"Ogni uomo vive nella propria testa."
Era stato Zayn a dirlo, in uno di quei momenti in cui lui con la testa proprio non ci stava, sdraiato sull'erba tagliata di fresco del campetto da calcio sul retro della scuola. 
Io avevo sbuffato, mi ero fatto un altro tiro e "Lo dici perché adesso, nella tua testa, staiviaggiando?" avevo chiesto, fissando il cielo che man mano si scuriva sulle nostre teste. 
Zayn aveva ridacchiato per poi "Può darsi" sospirare languido, le pupille dilatate, la bocca impastata dal fumo. "Ma non è forse vero che qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi sentimento proviamo, nasce e muore qui dentro?"
Mi aveva dato una manata sulla fronte, per poi rotolare lontano da me, temendo una qualche ripicca. 
Io mi ero limitato a gettare il filtrino, guardarlo storto e sospirare. 
"Domani non ricorderai niente di queste tue affermazioni filosofiche."
"E non ricorderemo neanche quanto questo prato sia fresco, quanto belle siano le stelle e soffice il rumore dei nostri respiri" aveva sospirato, si era voltato a guardarmi. "Domani tutto questo tornerà ad essere troppo reale e schifosamente banale. Ma adesso, nella nostra testa, non c'è niente di più magnifico."
Gli avevo dato ragione, in quel momento, ripromettendomi di apprezzare l'indomani il cielo, la terra, o il solo fatto di essere vivo, perché con sommo stupore mi accorgevo che niente potesse essere più bello ed importante. 
Eppure il giorno dopo, mi ero ritrovato ad odiare come sempre lo stesso mondo che la sera prima avevo contemplato estasiato. 
All'esterno, niente era cambiato. Qualcosa era scattato, ma solo nella mia testa. 
Ed è giusto che sia così alla fine, che non esista una realtà oggettiva, una verità che può essere definita tale, un mondo che appare a tutti uguale e mortalmente scontato. 
E' giusto vagliare ogni cosa o persona, setacciare ogni evento passato e futuro secondo il proprio pensiero, rivivendolo e sezionandolo all'infinito, per dare un giudizio e partorire un'idea che sia solo nostra. 
Sì, è giusto, fintanto che quest'idea resti tale e non venga intaccata dall'immaginazione. 
Era questo, secondo me, il punto cruciale del discorso di Zayn, quello che non era riuscito a raggiungere perché, dopo aver riso delle sue stesse parole, si era proteso per baciarmi. 
Oltre soggettivo ed oggettivo, oltre opinioni diverse e idee razionali, ci son quelle che Leopardi definiva "dolci illusioni", meglio conosciute come "film mentali", per usare un termine corrente. 
L'immaginazione si siede al tavolo, dispone le carte, e a noi non resta altro da fare se non giocare, creare le combinazioni più assurde, i castelli più instabili, i sogni più improponibili, per sfuggire a quella vita che ci ha pugnalato alle spalle. 

Io avevo tirato via quel pugnale arrivando a Chicago, ma la ferita lasciata aveva continuato a sanguinare, ad imbrattare ogni mio pensiero. L'unico modo che avevo per arrestare il flusso copioso di sangue, era rifugiarmi in un mondo in cui quella coltellata non era mai stata inferta. 
Allora avevo davvero iniziato a vivere nella mia testa, a sospirare tra i ricordi di Harry, ad immaginarmi giorno e notte tra le sue braccia, a sognare la sua voce pronunciare il mio nome, prima che sorridesse e mi baciasse. 
A volte lavorare al bar era così pesante, fingere falsi sorrisi così sfiancante, anche solo parlare senza scoppiare in lacrime così fottutamente difficile, che arrivato a fine giornata non aspettavo altro che chiudere gli occhi e crearmi una vita con lui, sprangando fuori tutto il resto. 
Vita che desiderio e dovizia di particolari rendevano infinitamente più vera di quella reale. 
Avevo rincontrato Harry a Chicago, a Londra, Lancaster, Holmes Chapel. Gli avevo chiesto scusa e lui mia aveva baciato, dolcemente o ferocemente, felice o disperato, piangendo o sorridendo come un bambino. Avevamo fatto l'amore ovunque, per un tempo troppo lungo o troppo breve, avevamo vissuto non una ma un'infinità di vite, ci eravamo persi un milione di volte per poi ritrovarci più innamorati di prima. 
Ma solo nella mia testa. 
Era quando il mondo esterno bussava alla mia porta, risvegliandomi, che arrivava la nausea.

Ecco perché fu quella la prima sensazione che provai, quando le labbra di Harry si ritrovarono premute sulle mie, quella mattina d'ottobre. 
Una stretta allo stomaco, un nodo alla gola, un leggero capogiro e il respiro intrappolato tra le labbra. 
Durò poco, davvero poco, il tempo necessario perché il mio corpo riconoscesse quel contatto come vero, che lo stomaco si sciogliesse in preda a capriole di giubilo, che la gola si aprisse in un gemito soddisfatto e il respiro riprendesse a scorrere dalla mia alla sua bocca. 
Ma anche il bacio, come la mia momentanea incapacità di capire ciò che stava accadendo, durò poco. Troppo poco. 
Harry si allontanò appena, occhi sgranati, respiro irregolare, le mani a scivolare sul mio petto. 
Le afferrai prima che la leggera pressione dei suoi palmi si trasformasse in una spinta.
"Se questo è il tuo modo di cacciarmi" sussurrai, riprendendo quel discorso che entrambi avevamo già dimenticato, "non sei affatto convincente."
Sbatté le palpebre una, due, tre volte, velocissimo, confuso, combattuto, eccitato. 
"Forse prima di farlo voglio essere meno ipocrita e fottutamente egoista."
Sorrisi nel riconoscere le mie parole sapientemente ribaltate prima di "Ma questo vorrebbe dire accontentarmi" fargli notare, accostandomi cautamente al suo corpo. 
"Ed anche illuderti" sbuffò, la spinta che prima avevo evitato arrivò, finii lontano da lui, la schiena contro il muro, gli arti paralizzati. "Ma se per te non è un problema."
Qualcosa nei suoi occhi cambiò. 
Aveva preso una decisione. 
E meno di due secondi dopo, scoprii con gran piacere che prevedeva il suo corpo schiacciato sul mio, le mani aggrappate al mio collo e la sua lingua ficcata in gola. 
E se il primo bacio era stato dato con lasciva arrendevolezza, con triste rassegnazione, quasi fosse un addio mai pronunciato, lo stesso non si sarebbe potuto dire del secondo. Perché dai movimenti frenetici delle sue labbra, dalla voracità con cui la sua lingua cercava la mia, dagli ansiti sconnessi che si perdevano nella mia bocca, trasudava solo puro e feroce desiderio. 
La nausea stavolta non si presentò, sostituita da un calore che dall'inguine si andò propagando fino alle braccia con cui mi stringevo il suo corpo addosso, dalla punta delle dita affondate nella schiena ossuta, alle gambe intrecciate con le sue.
Mugolai, quando si staccò per riprendere fiato. 
"Non è affatto un problema" ebbi appena il tempo di gracchiare, prima che si accanisse di nuovo sulla mia bocca, le mani che incontrollate scattavano dal mio petto alla mia schiena, dal collo al ventre caldissimo, fino ad infilarsi sotto la maglietta sottile di cui mi liberò in fretta. 
"Se ancora ti amassi come dici" ansimò, piegandosi per imprimere i denti sulla spalla ormai scoperta, "non lo farei."
Risi, non potei farne a meno, mentre gli facevo scivolare la camicia oltre le braccia, beandomi finalmente del calore della sua pelle.
"Fare sesso con me, intendi? Devo forse ricordarti come tutto è iniziato tra noi?"
Anche Harry si concesse un sorriso allora, grondante di malsana soddisfazione, distorto da una voglia cupa e perversa, la stessa che adombrava ora i suoi occhi, come una macchia d'inchiostro che risulta crudelmente attraente a contrasto con la perfezione del foglio bianco che va ad imbrattare. 
"Sì, voglio che me lo ricordi, Loulou."

Non dice sul serio. 
Non può dire sul serio.

Ma poi le sue mani si abbatterono sulle mie spalle con forza inaudita. Sentii le gambe cedere e la schiena ribellarsi appena, prima di finire a terra, le ginocchia a pulsare per l'impatto col pavimento, le braccia tese in avanti, alla ricerca di un equilibrio che trovai soltanto aggrappandomi alla vita del ragazzo che adesso, bandana storta tra i capelli e petto nudo, sogghignava dall'alto. 
Allora capii. 
Capii, e se ci fosse stato il vecchio Louis Tomlinson lì, in quel momento, quello che si scopava il suo migliore amico, torturava Liam Payne e trasgrediva ogni regola del mondo di cui non si sentiva parte, probabilmente si sarebbe alzato, avrebbe cancellato con un pugno il ghigno sul viso angelico di Harry Styles, e se ne sarebbe tornato dritto filato a casa.
Ma quel Louis Tomlinson non esisteva più. 
Ed Harry, come me, sapeva dov'è che era stato distrutto. 
Nel sottoscala. 
Deglutii.
Ansimai. 
Ma non lo fermai. E lui non si fermò.
Mi afferrò rude i capelli, costringendomi a sollevare il viso per poi premerselo con sadica soddisfazione sull'inguine, presente e passato a fondersi scompostamente come colori sulla tavolozza di un pittore. 
Voleva che lo odiassi, lo desiderava così tanto da essere disposto ad infliggermi, per la seconda volta, la medesima umiliazione.
Ma sarei stato io sta volta ad umiliarlo, lì dal basso, prostrato ai suoi piedi come quando tutto aveva avuto inizio. 

L'afferrai allora, la cintura su cui mi teneva premuta la faccia, la slacciai veloce e deciso, abbassai i pantaloni fino alle caviglie, accarezzai con il naso i boxer rigonfi, il membro caldissimo a premersi sulla guancia. 
Harry rabbrividì, colto alla sprovvista. Si appoggiò al muro, mentre tiravo giù anche i boxer e afferravo ansimando la sua eccitazione. 
Non dissi una parola prima di infilarmela in bocca, prima di affondarmela in gola e risalire a labbra strettissime fino al glande.
Non parlai nemmeno quando, dopo due o tre affondi, ripresi fiato, mi leccai le labbra e la cosparsi di saliva partendo dalla base, stimolando i testicoli pieni, frizionando con le dita la pelle ormai tesissima. 
Ma lo guardai. 
Lo guardai fisso negli occhi, per tutto il tempo: pupille verdi dilatate, ciglia umide, guance chiazzate dal piacere, labbra tumide solcate laddove i denti erano affondati per trattenere i gemiti, il pomo d'Adamo a tremare con la sua voce. 
Lo guardai e, con la sua erezione a sfiorarmi il palato e plasmare le mie labbra, capii di aver vinto. 
E forse lo capì anche lui, perché ormai al limite, con un gemito strozzato e una ginocchiata sul petto, mi allontanò, sfilandosi scarpe e pantaloni per rimanere completamente nudo. 

"Beh?" mi pulii la bocca con il dorso della mano, mi liberai dei pantaloni ormai insopportabilmente fastidiosi per l'eccitazione nascente tra le mie gambe. "Ho risvegliato a dovere la tua memoria?"
Harry non rispose. 
Però si chinò stringendo i denti, mi afferrò il mento, e un secondo dopo il dolore al collo mi costrinse ad alzarmi.
"Perché vuoi che ti faccia del male, Louis?"
Lo disse con voce mortalmente seria, come se la mia risposta valesse qualcosa, prima di sputarsi sulla mano ed infilarmela tra le cosce.
"Preferisco che lo faccia tu" gorgogliai, non mi opposi quando mi ritrovai di nuovo con le spalle al muro, i boxer ormai abbassati, le sue dita a scavare senza alcun riguardo tra le mie natiche. "Piuttosto che continuare a farlo da solo."
Quell'ammissione di debolezza lo mandò in bestia. 
E so che la rabbia che impresse spingendosi contro il mio bacino, penetrandomi con l'indice e ringhiando sul mio collo, avrebbe tanto desiderato sfogarla su se stesso, e non su di me. 
Inarcai istintivamente la schiena, allargai le gambe, mi sollevai sulle punte per favorire i movimenti circolari delle dita che adesso erano due. 
Harry gemette, quando le nostre erezioni si scontrarono, dure e smaniose. Gettò la testa all'indietro, come arresosi ad un'impronunciabile verità, e le sue dita abbandonarono il buchetto umido per imprimersi sui miei glutei. 
Un ringhio, uno sbuffo, e poi mi sollevò come fossi un bambino. 
Mugolai, aggrappandomi alle sue spalle, le cosce strette attorno alla sua vita, le gambe allacciate dietro la sua schiena. 
Avrei tanto voluto che si fermasse allora, che mi desse un attimo di tregua, che mi concedesse anche solo il tempo di realizzare che ero davvero lì tra le sue braccia, aggrappato al suo corpo come lo ero sempre stato al suo pensiero nei mesi passati. 
Ma Harry inspirò tremante, digrignò i denti e mi penetrò.
Gridai per il dolore, imprecai, ma lui continuò, si spinse fino in fondo, i fianchi tremanti, le vene delle braccia a protestare per il peso del mio corpo. 
"S-sei troppo magro, Loulou."
Chiusi gli occhi, risposi debolmente alle sue spinte, le gambe a tremare per lo sforzo, il dolore alla schiena sempre più forte. 
"Non ti piaccio così?" 
Mi rispose con un bacio. 

E poi fu solo piacere. Il più corrodente e dilaniante che avessi mai avuto l'occasione di provare, ipnotico come il pizzicore di una lama sulla pelle, l'attimo appena precedente il taglio; assuefacente come il profumo caldo e assassino dell'oppio. E rosso, come il colore che la mia mente, da lì a quel momento, vi avrebbe per sempre associato; perché rosse erano le labbra di Harry, spalancate oscenamente sulle mie. Rossa era la bandana sudicia che, strappata ai suoi capelli, adesso stringevo tra le dita. Rossi erano i segni dei morsi con cui gli marchiai le spalle, la pelle candida tesa sulle clavicole, quella tenera dietro l'orecchio. Rossi erano i graffi irregolari attorno al collo, quelli lasciati dalle catenine delle collane che tiravo ossessivamente.
Venni sul suo addome, pensando che anche i lividi sulle mie ginocchia e quelli sulle vertebre, rimaste a strisciare contro il muro, sarebbero stati rossi. 
E sorrisi quando Harry si svuotò dentro di me, gemendo forte il mio nome.
Forse perché, nella mia testa, un suono così bello non ero mai riuscito ad immaginarlo.



Harry 

Sul muro della stanza degli ospiti c'era una crepa. 
Scivolava sottile giù dall'angolo destro del soffitto, si allargava man mano scavando nell'intonaco bianco, per poi avvitarsi su se stessa, assumendo la forma di un vecchio uncino. 
Non molto grande, appena un po' più lunga del mio braccio, in quasi tre mesi non l'avevo mai notata. 
Probabilmente neanche Tom sapeva della sua esistenza, altrimenti si sarebbe dato la pena di chiamare qualcuno per controllarla e farla chiudere, dopo avermi assillato con le sue solite paranoie senza senso. 
Tom. 
Scacciai il suo viso dalla mente mentre chiudevo gli occhi e mi sollevavo di nuovo sulle ginocchia, lasciando che il cazzo di Louis percorresse a ritroso il mio corpo, prima di abbandonarmi sulle sue cosce e sentirmelo di nuovo conficcato nella carne, fin nella pancia. 
Lui mugolò, si aggrappò ai miei fianchi perché lo cavalcassi più veloce, i capelli sudati appiccicati alla fronte, gli occhi sottili schiusi su un oceano in tempesta. 
Il cuore mi saltò in gola, il calore all'inguine divenne insopportabile. Distolsi lo sguardo, lo puntai di nuovo in alto, gemendo.
La crepa era ancora lì. 
Tom era ancora lì. 
Eppure il ragazzo che adesso stringevo tra le gambe non era lui. I gemiti soffici e cadenzati, simili alle fusa di un gatto, erano diversi da quelli rabbiosi e incontrollati a cui mi ero abituato; le mani piccole e delicate ancorate al mio bacino, non erano le sue. E il mio corpo, ogni singolo millimetro del mio corpo, si schiudeva a quel tocco, pronto a donarsi nella sua più completa totalità, più sensibile e malleabile, più caldo ed accogliente, di quanto con l'altro non fosse mai stato. 
Avevo dimenticato come fosse sentire Louis dentro di me, avevo cancellato quel ricordo insieme a tutto il resto, senza rendermi conto di quanto ogni sua carezza, ogni suo gemito, ogni suo respiro fosse fondamentale per me. 
Lo riscoprii quel pomeriggio di ottobre, quando spalancando gli occhi, mi ritrovai immerso nel blu abissale dei suoi. Fu in quel momento che accadde: lo specchio polveroso, che ancora separava passato e presente, si spaccò, esplose in mille pezzi insieme al piacere che fin'ora avevo controllato, le schegge si ridussero in polvere, disintegrate dallo sguardo che finalmente era riuscito a riportarmi in vita. 
"Louis." 
Mi resi conto di aver singhiozzato quel nome, un attimo prima di venire sul suo ventre. Lui strinse le labbra, annuì come se avesse capito, guidò i miei fianchi ancora per un po', poi raggiunse il piacere senza fretta, con un mugolio rilassato e soddisfatto. 
Crollai disteso accanto a lui un secondo dopo, pensando che contemplarlo ancora in quell'attimo di maestosa e serafica bellezza avrebbe potuto accecarmi. 
La mia voce fu più simile ad un rantolo quando, con gli occhi fissi sulla crepa sopra le nostre teste, "Sei stato con qualcun altro?" domandai. "In questi mesi, sei andato a letto con qualcuno?"
Sentii Louis sollevarsi sul gomito, per poi ridacchiare. "Quindi il tuo problema di gelosia non riguarda solo Grimshaw."
"Non sono geloso."
Allora perché il solo pensiero che qualcun altro abbia goduto del tuo paradiso personale ti manda in bestia?
Scossi la testa per scacciare la voce, mi azzardai a fissarlo. 
"Dimmelo e basta."
Louis sospirò, gli occhi di quarzo liquido, il viso sudato addolcito dall'orgasmo. 
"Nessuno, Harry. Non ho neanche mai guardato un altro ragazzo."
"Giuramelo."
Il mio tono autoritario lo fece rabbrividire, ma quando "Che senso avrebbe mentirti a questo punto?" chiese, la sua voce fu ferma e decisa.
Mi strinsi nelle spalle, evitando di nuovo lo sguardo capace di mettere a nudo ogni mio pensiero. 
"Perché non lo hai fatto?" sputai, quasi deluso. "Io ti ho mentito e ti ho tradito così tante volte."
Louis si stiracchiò, allungò le membra nude tra le lenzuola stropicciate e "Non l'ho fatto per te, Harry" ammise dolcemente. "Finire a letto con qualcuno che non fossi tu, sarebbe stato come tradire me stesso."
Lo odiai per quella risposta, come per tutte quelle che, da quando mi ero fiondato sulle sue labbra, quella mattina, mi aveva dato; erano la prova che lui aveva continuato a lottare per noi, mentre io ero fuggito, nascondendomi in un passato di demoni troppo ingombrante per consentirmi di vivere senza la costante paura di crearne altri. O senza il terrore asfissiante di diventarne uno io stesso per Louis. 
Pensai di nuovo a Tom. 
Avevo fatto del male anche a lui, alla fine. Avevo sbagliato tutto ancora una volta. 
Deglutii, ricacciando il groppo alla gola, mi sollevai consapevole dello sguardo di Louis addosso. 
Poi chiusi gli occhi, inspirai forte e adagiai dolcemente la testa sul suo petto. 
Louis si irrigidì per un momento, trattenne il respiro finché il mio braccio non si fu avvolto attorno alla sua vita, poi si rilassò, inspirò come un prigioniero che può godere dell'aria fresca dopo anni di reclusione. 
"Non mi importa di Tom" sussurrò, come leggendomi nel pensiero. "So che non mi appartieni Harry, ma io continuerò comunque ad appartenere a te" inspirò debolmente tra i miei capelli, "qualsiasi cosa tu faccia o abbia fatto" li baciò delicato una, due, tre volte, "per sempre."
Strinsi inconsciamente le dita sul suo fianco. "Non è giusto. Io non ho fatto niente per meritarti."
La mano di Louis, poggiata sulla mia spalla, scivolò sotto il mio mento per poi sollevarlo.
"Tu mi hai dato uno scopo Harry, un motivo per cui valga la pena vivere. E se tu me lo permettessi, io farei altrettanto."
Mi mossi a disagio tra le sue braccia.
Forse non lo sapeva, ma per un breve periodo a Lancaster, era già riuscito a farlo, a diventare la mia ragione di vita.
E il suo cuore, quello che ora scandiva il ritmo del mio respiro, che sentivo battere con forza prepotente nel suo petto, era anche il mio, quello che per troppo tempo avevo lasciato a marcire sottoterra insieme ai miei genitori. 
E forse è vero che dovresti lasciarci andare. 
Se solo fossi pronto a farlo.
Mi sollevai di scatto deglutendo, odiando quella voce come non avevo mai fatto prima, così come odiai la mia quando "Non tornerò a casa con te, Louis" dichiarai aspramente. 
Louis alzò gli occhi al cielo, quasi divertito. 
"Oh certo che no! Non mi illudevo mica che fare l'amore tre volte in una sola giornata ti avrebbe fatto cambiare idea."
"Fare sesso" precisai, più patetico di prima, azzardandomi addirittura a sorridere. "E per quanto non possa negare che sia stato il miglior sesso della mia vita..."
"...saresti pronto a rinunciarvi per restare qui a farti disegnare coroncine sul braccio."
Alzai gli occhi al cielo, mentre le sue dita si stringevano sul mio braccio. "Tu sapresti fare di meglio?" 
Lui rispose spingendomi di nuovo sulle lenzuola, schiena sul materasso, mani a bloccarmi i polsi, cosce strette attorno al mio bacino. 
"Certo che sì" sghignazzò, chinandosi verso il comodino. 
Risi insieme a lui, sollevai il bacino per ribaltare le posizioni, tentai di svincolarmi quando si risollevò con una penna in bocca e mi inchiodò di nuovo al cuscino. Scalciai come un bambino, lo insultai ridendo, riuscii quasi a tirargli un pugno prima che lui mi torcesse il braccio, tirasse via il cappuccio della penna con i denti e "Posso fare molto meglio" si vantasse ansimante, per passarne poi la punta sulla mia pelle. 
"Louis, ti prego" lo implorai, il letto cigolò come per sottolineare la mia protesta. "Louis mi fai il solletico..."
Mi baciò per zittirmi, sorrise, poi riprese a scrivere con più foga, la pelle bianca ormai rossastra, la coroncina a sbiadire sotto l'inchiostro più scuro 
"Lou" mi lamentai, quando il braccio immobilizzato iniziò a perdere sensibilità e gli addominali presero a dolere per le troppe risate. "Louis!"
Mi lasciò andare qualche secondo dopo, penna in mano e sorriso soddisfatto. 
"Finito."
Me lo levai di dosso con un colpo di reni e sollevai il braccio. 
La corona elegante e ricca di particolari si intravedeva a malapena al di sotto di una scritta più calcata, tratteggiata nella sua calligrafia sbilenca. 

Hi

Sbuffai per trattenermi dal ridere. "Questo non è un disegno?" gli feci notare mentre si acciambellava come un gatto accanto a me.
"Sarebbe comunque più carino come tatuaggio."
"Tommy non sarebbe d'accordo..."
"Tommy" ripeté lui, a mo' di cantilena, "non è qui adesso. E forse prima che torni..." la sua mano scivolò in mezzo alle mie gambe, "abbiamo tempo per un quarto round."
Rabbrividii, tentato dal sorriso che non aveva più nulla di scherzoso o lontanamente innocente. 
Ma invece di levarglielo dalla faccia baciandolo, mi sollevai fissando critico l'orologio appeso al muro e "No" sussurrai. "Nicky gli avrà detto che non mi sono presentato al negozio, starà già tornando."
Lo sbuffo deluso di Louis mi accompagnò mentre mi alzavo per "E poi" concludere tristemente, "per oggi sono stato anche troppo egoista, non ti pare?"
Il ragazzo dagli occhi brillanti disteso sul letto sorrise. 
"Sono convinto che continuerai ad esserlo abbastanza a lungo da deciderti a fare ciò che davvero vuoi. Tornare a Lancaster con me."
"Cosa ti rende così fiducioso?"
Louis sospirò, afferrò un pacco di sigarette dal comodino e "Beh forse non te ne sei accorto" mormorò, "ma prima l'hai definitacasa."


Louis 

"Holmes Chapel?"
Tom sollevò il sopracciglio folto e diede un morso al sandwich che teneva tra le mani. 
"Perché vorresti andare ad Holmes Chapel adesso?"
Fu lui a porre la domanda ma anche Harry, accoccolato sul bracciolo della poltrona su cui il più grande era seduto, mi rivolse uno sguardo curioso, come a sottoscriverla. 
"Interessi familiari" risposi con nonchalance, rivolto proprio a lui. 
Tommy sbuffò, gettando i piedi sul tavolino senza alcun riguardo e "Sono già le cinque, troverai un auto per tornare poi?" sbiascicò falsamente interessato. 
"Se restassi bloccato lì ti eviteresti la mia presenza per una notte."
Harry, appollaiato accanto alla sua spalla come un pappagallo,  si mosse a disagio, rifilandomi una delle sue occhiatacce criptiche. 
Io e lui avevamo avuto il tempo per un mezzo quarto round nella doccia ma, né prima né dopo, gli avevo mai nominato Holmes Chapel, o neanche minimamente accennato al desiderio di andarci. E adesso mi odiava a morte. Mi odiava perché avevamo fatto sesso, non aveva idea di cosa mi passasse per la testa e mi azzuffavo col suo ragazzo neanche fossimo due galli da combattimento. 
Avrei voluto spiegargli che l'idea di Holmes Chapel era stato proprio Tom a farla nascere. 
Da quando avevo messo piede a terra quella mattina, Harry Styles era stato mio: a me aveva donato il suo corpo, a me aveva mostrato le sue celate debolezze, a me aveva concesso di scrutare nel suo cuore, ed io l'avevo fatto pur consapevole che, come era già successo in passato, avrei potuto scottarmi. Poi Tom era arrivato e tutto, dalla più innocua carezza alla risata più innocente, era andato in fumo. Il sorriso di Harry era svanito, i suoi occhi si erano spenti, troppo inquieti e imbarazzati anche solo per essere sfiorati dai miei per più di qualche secondo. 
Allora avevo capito che si stava pentendo. 
Nemmeno un'ora prima ero sicurissimo che avrebbe fatto le valigie per seguirmi anche in capo al mondo e adesso la sola presenza di Tom rischiava di mandare tutto a puttane.
Ed io non potevo lasciare che accadesse. 
Harry mi amava e non gli avrei permesso di pentirsene. Ecco perché l'avrei portato ad Holmes Chapel e...

"Non sarebbe meglio rimandare a domani?" Tom divorò il suo sandwich, cinse Harry dalla vita e se lo fece scivolare sulle ginocchia. 
Il riccio chiuse gli occhi e trattenne il respiro, come se riuscisse a percepire il fuoco accesosi nelle mie viscere e sperasse di calmarlo. 
Io mi limitai a sorridergli. 
"Non sto chiedendo a te di accompagnarmi, Tom."
Nel salotto cadde il silenzio. 
L'uomo aggrottò la fronte, fissò Harry trepidante, aspettandosi che rifiutasse la mia offerta, che desse ragione a lui. 
Ed Harry mi odiò se possibile ancor più di prima, perché si morse le labbra a disagio, si passò la mano sul collo, lì dove i segni dei miei morsi erano ancora evidenti e "Non me la sento di uscire di casa, stasera" soffiò, fissandomi di sottecchi.
Delusione.
Abbastanza forte e talmente umiliante che per un attimo serrai le labbra, sicuro che la nausea non si sarebbe fatta attendere. 
Invece non arrivò. 
Non arrivò perché Harry non rispose al bacio orgoglioso che il suo fidanzato gli rifilò per avermi dato buca. 
Non arrivò perché si alzò sospirando subito dopo, mi guardò come un condannato sul patibolo e "Scusa Lou" sussurrò.
E non arrivò perché, quando sollevò il braccio per coprire i succhiotti sul collo Tom la vide, quella macchia grigiastra appena sopra il gomito, i contorni dell' HI  ancora distinguibili, a differenza di quelli della corona, scomparsa completamente. 

Mi alzai anche io allora, percorso da una scarica improvvisa di adrenalina, mentre quello fissava con malcelato disappunto il braccio della sua regina. 
"Vuol dire che mi arrangerò da solo" annunciai, la delusione sostituita da un'innaturale eccitazione. "Non preoccupatevi per me, mi farò sentire."
Due minuti dopo, giubbotto addosso e ombrello in mano, uscii seguito dai loro sguardi scioccati. 
Scesi le scale veloce, il cuore a battere sovraccarico nel petto, un sorriso da ebete stampato in faccia. Ma arrivato fuori sul marciapiede, mi fermai. 
Non dovetti aspettare più di qualche secondo, sotto il cielo grigio di Londra, prima che la porta del palazzo si spalancasse di nuovo e ne uscisse Harry Styles. 

"Sapevo che non avresti resistito." 
Lui sbuffò irritato. "Voglio solo scoprire cos'è che ti passa per quella cazzo di testa."
Annuii ma non risposi. 
Non gli dissi che dal modo in cui aveva pronunciato il suo "Scusa" avevo capito che alla fine avrebbe scelto me. 
Almeno per quella notte. 



Holmes Chapel di sera era un piccolo presepe. Niente montagne scoscese, grotte con mangiatoie o cherubini a svolazzare tra le stelle, ma in qualche modo tra le case basse dai tetti spioventi e sui prati all'inglese aleggiava la stessa sospesa immobilità. 
Harry parcheggiò in una stradina secondaria, vuota se non si contano le poche altre macchine lasciate fuori dalle case. 
Calma, silenzio, ma non desolazione, qualcosa di vagamente simile al conforto si impadronì di me mentre camminavo piano, le mani in tasca e il cervello che, al contrario del corpo, lavorava frenetico. 
Harry mi fu subito accanto, corrucciato e sospettoso come un cagnolino che ha ricevuto troppi calci sul muso, per poter accettare un pezzo di pane senza prima mordere la mano che glielo offre. 
"Ok" sputò senza guardarmi negli occhi. "Ti ho portato qui come volevi, adesso sputa il rospo."
"Non c'è nessun rospo da sputare, Harry."
Scosse la testa, allungò il passo. "Ho quasi litigato con Tom per venire qui con te e..."
"...e lo hai anche tradito un paio di volte in un giorno solo."
"Quella fottutissima scritta sul braccio..."
Mi voltai di scatto verso di lui. "L'ha vista? Che ha detto?"
Il mio tono eccitato lo irritò. "Credo l'abbia ignorata di proposito."
"Perché non avrebbe creduto a nessuna delle tue spiegazioni comunque" sospirai, dandogli una pacca sulla spalla a cui lui rispose con uno spintone. "Non guardarmi così, me l'ha detto lui: mai fidarsi di Harry Styles."
"Ha ragione."
"...è possibile però che ci stia pedinando" mi guardai intorno, ignorando la sua affermazione per poi "Forse ha mandato quel leccapiedi di Nick a spiarci" sussurrare sospetto. 
Riuscii a farlo ridere. 
O meglio sorridere, prima che gli occhi di smeraldo si posassero sul cancello nero in fondo alla strada. Oltre le sbarre dritte si intravedevano le aiuole ben curate, le fronde degli alberi a scendere come cascate verso il terreno, le lapidi conficcate nell'erba come le tessere di un domino. 
Harry distolse lo sguardo noncurante, sospirò, ma trattene il fiato quando passammo accanto al cimitero. 
Esattamente come avevo previsto. 
Ed anche se l'inquietudine nei suoi occhi fu sul punto di farmi cambiare idea, decisi di rischiare. 
Esattamente come avevo previsto. 
Mi fermai di fronte al cancello, il ferro cigolò appena quando lo spinsi aprendomi un varco. 
Harry sobbalzò, si voltò verso di me come un animale infastidito. 
"Che stai facendo?"
"Voglio entrare."
La sicurezza della mia voce non rispecchiava affatto il mio stato d'animo. Ero ansioso, terribilmente teso, come un disinnescatore di esplosivi che si ritrova a dover scegliere quale filo tagliare. Harry Styles era sempre stato una mina difettosa, innocua in superficie, ma pronta ad esplodere non appena ci si fosse azzardati a sfiorare il punto più sensibile; punto che io avevo scoperto e lui mi aveva intimato di non toccare più quella stessa mattina. 
Ma avevo disobbedito. L'avevo portato ad Holmes Chapel, l'avevo trascinato di fronte a quel luogo continuando a stuzzicare quel punto, a premerlo fortissimo. 
E sarei ipocrita se dicessi di averlo convinto a seguirmi senza sperare in un tornaconto, senza pregare che riuscisse una volta per tutte a sfuggire ai suoi demoni per poter smettere di fuggire da me. Ma in quel gesto, in quell'idea bizzarra e forse anche sadica che il rivederlo insieme a Tom aveva risvegliato, c'era di più. 
Dovevo a tutti i costi concludere ciò che a Lancaster avevo iniziato, dovevo salvare Harry Styles perché così, anche se lui non fosse tornato  ad essere mio, sarei riuscito a salvare me stesso. 
E ci avrei provato, l'avrei fatto, pur sapendo che lui avrebbe opposto resistenza, respinto ogni mio tentativo di avvicinarmi, consapevole che invece di aiutarlo avrei potuto causare l'ennesimo crollo, forse quello definitivo. Di entrambi. 
Ma se esisteva qualcuno in grado di avventurarsi tra le macerie di quel muro abbattuto e ricostruito un milione di volte, alla ricerca Harry Styles, quello ero io. 
E non mi sarei tirato indietro ancora una volta. 

"Voglio entrare" quindi ripetei più forte. "Voglio vederli."
Harry inspirò, strinse le mani a pugno, per un momento pensai che mi si sarebbe gettato addosso per strozzarmi. 
Invece "Non è vero" sibilò, avanzando di qualche passo. "Tu vuoi vedere me. Speri che mi commuova, che pianga magari, che ti ringrazi per aver tentato di liberarmi dal dolore" un sorriso freddo si aprì sul suo viso. "Ma non ti darò questa soddisfazione."
Mi strinsi nelle spalle, mi incamminai lungo il sentiero oltre il cancello e "Aspettami fuori allora" sospirai, lasciandolo indietro. 
Camminai a passo lento e cadenzato per più di un minuto, solo il frusciare dei salici piangenti e il frinire delle cicale ad accompagnarmi, i contorni della luna a farsi più luminosi e definiti, le stelle a trapuntare il cielo come punte di spilli, l'odore dell'erba fresca e delle orchidee sempre più forte man mano che avanzavo. 
Per un momento, labile e fugace, credetti che avrei continuato a camminare da solo, il silenzio tra le lapidi a diventare sempre più opprimente, l'aria fresca a trasformarsi in un alito gelido, da far accapponare la pelle. 
Fu un attimo, uno solo, nel quale sentii la necessità di fuggire da quel luogo carico di ricordi, impregnato dal sentore di vite vissute, amori finiti, voci bloccate dal tempo in un lungo, eterno, silenzio. 
Poi lì sentii: i passi di Harry sulla ghiaia, il suo respiro rauco, il profumo al muschio bianco di quello shampoo che ero stato io a versargli tra i capelli.
"Questa non è la strada giusta" mi informò, superandomi veloce. 
Lo seguii mentre svoltava verso destra, passo fermo, sguardo deciso. 
Pensava di aver sfidato me seguendomi fin lì, non sapeva di essersi ritrovato, invece, faccia a faccia con se stesso. 

Si fermò d'improvviso, dopo qualche minuto. Rischiai di cadergli addosso, tanto eravamo vicini. 
Fissai la lapide che gli occhi verdi si rifiutavano di guardare, rifugiandosi tra le stelle. 
Marmo color avorio, venature grigie, lettere d'argento a risaltare sulla superficie liscia, nessuna foto accanto ai nomi e alle date rilucenti, nessuna frase di commiato, nessun fiore adagiato sulla pietra. 
Era spoglia ed inerme, come il figlio che era stato costretto a porla sui corpi dei propri genitori. 
Persone che a malapena ricordavo, che mai avevo voluto conoscere, che per me non avevano avuto alcuna importanza. 
Eppure mentre la fissavo, gli occhi presero a pizzicarmi in modo insopportabile. 

"E' la prima volta che vengo qui dal giorno del funerale."
La voce di Harry mi parve lontana e profonda, come un eco sul punto di spegnersi.
"Non lo sapevo."
"Certo che no" sospirò, decidendosi finalmente a guardarmi. "Tu non sai quasi niente di me, Louis. Eppure mi conosci meglio di chiunque altro. Com'è possibile?"
"Non lo so, Harry" mi inginocchiai sull'erba umida, lo fissai dal basso. "Forse perché tu mi hai aiutato a conoscere me stesso."
"E come? Ricattandoti e rinchiudendoti in un sottoscala per..."
Ansimò, non riuscì a concludere la frase. 
Invece io tremai, inspirai profondamente e "Sì" sputai duro, "perché quel Louis Tomlinson, si meritava ciò che gli hai fatto. Era diventato uno stronzo per difendersi da un mondo che non lo accettava, quando il primo a non farlo era lui stesso. Ogni regola infranta, ogni pugno sferrato non erano altro che armi di una ribellione fasulla, di un accanimento che avrebbe voluto rivolgere contro se stesso. Perché la ribellione, quella vera, era nella sua testa, e far soffrire gli altri era l'unico modo per sedarla" presi fiato, sentii Harry chinarsi, finire in ginocchio accanto a me. Sorrisi prima di "Avevo bisogno di soffrire" continuare in un soffio. "Avevo bisogno di essere punito" cercai la sua mano, la trovai calda e pronta ad accogliere la mia. "Tu mi hai dato ciò di cui avevo bisogno. E grazie a te, quel Louis Tomlinson non esiste più."
Silenzio. Il frusciare soffice delle foglie, un cane ad abbaiare in lontananza.
Poi lui sospirò, strinse appena la mia mano. "Questo però non spiega perché riesci a capirmi così bene."
"Hai ragione" ridacchiai nervoso. "Questo spiega perché ti amo. Del fatto che riesca a capirti, credo tu debba incolpare il destino."
Harry scosse la testa, si alzò lentamente. "Allora dimmi, destino, cosa ti aspetti che io faccia adesso?" 
"Pochi minuti fa credevo che mi avresti picchiato, ma adesso" mi sollevai, scrollai la terra dai pantaloni, "penso che vorresti lasciare qualcosa a loro."
Insieme guardammo la lapide, lui dondolò sui piedi. 
"E cosa? Un fiore o una foto? Non sarebbe nel mio stile" si infilò le mani in tasca, quasi come se loro potessero biasimarlo per ciò che stava dicendo. "I gesti simbolici sono privi di valore come qualsiasi cosa che li rappresenti."
"Come lo è questo accendino, per esempio?"
Harry sgranò gli occhi, quando cavai fuori dalla tasca il regalo del suo compleanno, poi arrossì come se avessi appena scoperto il suo segreto più imbarazzante. 
"Un oggetto inutile" sussurrai poggiandolo sulla pietra di fronte a noi, "per un gesto inutile."
Lui non parlò. 
Lo fissò per un po', tese la mano ad accarezzare il nome di sua madre.
"Non so se potrò mai lasciarli andare, ma sono felice che tu non abbia lasciato andare me, Louis."
Mi si avvicinò, pensai che mi avrebbe baciato. 
Invece mi afferrò la mano, mi trascinò lontano dalla tomba percorrendo a ritroso il sentiero tortuoso e senza lasciarmi il tempo di chiedere cos'avesse intenzione di fare, "Adesso tocca a me portati in un posto speciale" annunciò, con l'ombra di un sorriso sul volto. 



Harry 

Il parco giochi era come lo ricordavo: uno spiazzo sterrato rettangolare, un filare di alberi decrepiti a marcare ogni lato, quattro panchine verniciate di verde bottiglia, un solo lampione al centro, adesso spento. 
Le giostrine si ergevano tra la polvere come vecchi cartelli stradali su una strada desolata, malconce ma decisamente pittoresche.
L'altalena dalle massicce assi di legno, la girandola rossa e in fondo, la casetta. 
Più piccola, più pulita e più graziosa di quella a Lancaster. Lo scivolo a chiocciola giallo era lì, le tegole azzurrognole del tetto ancora perfettamente dritte.
Louis si fermò un attimo a contemplare la minuscola radura tra gli alberi prima di "Sul serio?" sussurrare, a metà tra il divertito e l'estasiato. 
"Sul serio" risposi io, scavalcando la bassa staccionata di legno per entrare. 
Tesi la mano al ragazzo incantato rimasto dalla parte opposta. 
Quello sospirò, sorrise, poi l'afferrò e mi seguì. 
Attraversammo il parco in silenzio, per poi arrampicarci sulle scalette minuscole della casetta. 
Un piccolo tonfo e uno sbuffo mi fecero voltare. 
Louis era scivolato mentre tentava di infilare il piede su uno dei gradini strettissimi. Adesso stava a quattro zampe sulle scale, le mani premute sul legno e sul viso un'espressione corrucciata. 
"Siamo davvero troppo cresciuti per fare cose del genere."
"Ho pensato la stessa cosa quando mi portasti al parco dietro la scuola."
Sorrisi, gli tesi la mano per l'ennesima volta. 
Quello si aggrappò al mio braccio ansimando, chinò la testa per non sbattere contro le travi del tetto, troppo basse anche per lui. 
"Ma il mio parco è una discarica per drogati. Questo beh..."
La sua voce si spense quando mettemmo piede sull'esile ponticello che, al contrario di quello a Lancaster, era perfettamente integro. 
Ci fermammo a metà, senza neanche provare ad appoggiarci alla balaustra che a stento ci arrivava sopra le ginocchia. Fissammo gli alberi, la strada, il cielo che ci sovrastava come fossimo sull'Empire State Building, e non a meno di due metri da terra.

"Harry, cosa ti ho detto più di cinque minuti fa?"
Voce irritata, cipiglio serio appena visibile attraverso le sbarre di legno su cui poggiavo il viso. 
"Di scendere da qui?"
"Allora perché sei ancora lassù?"
"Un ultimo giro, ti prego."
"Harry."
"Solo uno mamma, per favore."
"Lascialo fare, Anne." Un'altra voce, calda e divertita. "Sai che non puoi averla vinta contro di lui."
Urlai di gioia, battei le mani, mi catapultai verso lo scivolo a chiocciola mentre lei continuava a lamentarsi dolcemente, un mormorio di sospiri esasperati alla fine interrotto da una risata cristallina provocata dal marito. 
Era una bella risata. 
Pensai che fosse davvero una bella risata....

Te la ricordi ancora, Harry?
Riesci a rievocarla nella tua memoria? A sentire la spensieratezza e il conforto che ti dava? 
Ricordi ancora quale espressione l'accompagnava? Il modo in cui incurvavo le labbra e socchiudevo gli occhi? Le note acutissime che riuscivo a raggiungere e ti divertivano da matti, quelle te le ricordi Harry?
Ricordi?

Chinai le spalle, affondai le unghie nel legno ruvido della balaustra. 
No, non ricordavo. 
I particolari che avevo giurato di custodire ad ogni costo, le piccolezze quotidiane di una vita data per scontata, ripetitive e banali come il ticchettio di un orologio destinato a funzionare all'infinito, non erano più mie.
Erano sparite all'improvviso, spazzate via dalla crudeltà di un destino che distruggendole era riuscito a farle diventare speciali, uniche, irripetibili. Ma per quanto mi ci fossi aggrappato con tutte le mie forze, alla fine le avevo perse, quelle piccolezze: il tempo aveva offuscato man mano ogni particolare, cancellato parole marchiate nell'anima, reso nuovamente inutile e banale ciò che la morte aveva tramutato in un tesoro inestimabile. 
Ed era un'ingiustizia, una profonda ed inaccettabile ingiustizia, il fatto che mi trovassi lì, su quello stesso ponte, ad inspirare lo stesso odore di legno e terra bagnata, ad immaginare lei ancora davanti a me, senza riuscire però a darle un vero volto, senza poter ricreare nella mia mente quella voce che pensavo non avrei mai potuto dimenticare, come qualcuno che ascolta a ripetizione il ritornello di una canzone che conosce a memoria, senza riuscire a ricordarne il titolo. 
Stavo iniziando a dimenticare.
Avrei continuato a farlo senza volerlo, finché i loro visi non fossero diventati maschere nebulose, le loro voci echi di un passato sempre più distante. Mi odiavo perché sapevo che sarebbe successo, perché avevo permesso a Louis di dare inizio a questa reazione a catena e non avrei potuto far nulla per evitarla. E mi odiavo, mi odiavo infinitamente perché io, per questo, gli ero grato: perché insieme ai bei ricordi, anche ogni traccia di dolore iniziava a sparire. 
Tristezza, malinconia, nostalgia. Questo avevo provato ritornando da Lancaster ad Holmes Chapel. Non sofferenza, non disperazione. 

E credi che anche questa sia una grande ingiustizia, vero Harry?
Credi di averci fatto un torto ricominciando a vivere. 

"Quella è casa tua?"
La voce di Louis mi strappò ai miei pensieri.
Fissai la villetta bianca dal tetto rosso scuro dall'altra parte della strada, uguale a tutte le altre se non fosse stato per il portico più grande e la cassetta delle lettere verniciata di blu. 
Mi mancò il fiato. 
"Come fai a saperlo?"
"Nick" ammise lui con fare colpevole. 
Alzai gli occhi al cielo, attraversai il ponte arrivando all'ultima parte della casetta, di fronte allo scivolo. "Siete diventati davvero intimi voi due, eh?"
"A lui non dispiacerebbe" ridacchiò, si leccò le labbra, ma notai che fissava ancora la casa. 
"Hanno convinto la mia prozia a venderla, alla fine" sospirai senza un apparente motivo. "Ci vive una giovane coppia adesso. Lei è incinta per la seconda volta, hanno già una bambina ma lui non è il padre."
"Li hai spiati a dovere, a quanto vedo."
"Non troppo a lungo, a dire la verità" sorrisi allusivo. "Ad Holmes Chapel, se si vuole scoprire qualcosa su qualcuno, basta chiedere."
Louis annuì, scivolò seduto a terra, poggiando le spalle sulla parete di legno. "E tu cos'altro hai scoperto?"
"Che lui fa il commercialista, che lei porta sempre i tacchi, che la bambina ha cinque anni e il suo vero padre non l'ha mai conosciuto. I capelli biondi però deve averli ereditati da lui; l'ho vista in giardino il giorno in cui sono tornato qui, giocava con uno dei miei vecchi orsacchiotti..." trattenni il respiro, Louis si mosse a disagio, ma alla fine, "credo che non abbiano ancora svuotato la soffitta" riuscii ad articolare senza incepparmi. 
"Vuoi andare a recuperare qualcuna delle tue cose prima che..."
"Le buttino o le vendano al mercatino dell'usato?" conclusi, sedendogli accanto. "Non lo so. Forse."
"In ogni caso non lo farai" Louis tirò fuori una bustina dalla tasca, ne versò il contenuto nel grinder che si portava sempre dietro.
"E per quale motivo, di grazia?"
Sorrise al mio tono irritato. "Per lo stesso motivo che ti ha tenuto lontano da quel cimitero tutto questo tempo, Harry" afferrò la propria carta d'identità, adagiandoci sopra l'erba appena tritata. "Paura."
Non risposi, lo fissai mentre sfilava via una cartina dalla tasca, le mani ferme e sicure, gli occhi concentratissimi e "Non è una cosa negativa" continuava, il filtro tra le labbra a modificare la voce. "La paura, intendo, ma solo se ne hai consapevolezza. Per combatterla, devi ammettere di averla."
"Quindi se ti avessi detto del ricatto di tuo padre, della decisione di partire, spaventato a morte da ciò che ti sarebbe potuto accadere se ti fossi rimasto accanto..."
"Avremmo affrontato tutto insieme" concluse convintissimo. "E tu non saresti dovuto andar via."
"Ma se non fossi venuto a cercarmi, non avresti sconfitto le tue di paure."
Louis sospirò, girò lo spinello tenendo la lingua tra le labbra e "Se smettessimo di psicanalizzarci a vicenda sarebbe tutto più divertente" ridacchiò, prima di tendermi la cartina e "Lecca" ordinare.
Lui rabbrividì. 
Io rabbrividii. 
Poi obbedii, seguendo la strada già tracciata dal ricordo. 
"Nicky non ti ha offerto solo da bere, a quanto pare."
"Il realtà questa ho dovuto a pagarla, tesoro" si lamentò sventolando la canna, un attimo prima di ficcarla in bocca ed accenderla. 
Aspirò, serrò le labbra, reclinò la testa all'indietro. Poi soffiò fuori lentamente, le spalle rilassate, gli occhi come piccole fessure sul viso affilato, elegante. 
La sua bellezza mi disarmò. Non ci ero più molto abituato.
Inspirai profondamente, osservandolo tirare ancora e ancora, le membra molli, lo sguardo vacuo, i capelli scomposti sulla fronte. 
"Sei stupendo."
Lou arrossì impercettibilmente
"Visto che non sei ancora fatto posso considerarlo un vero complimento?"
Mi passò la canna. "Tanto tra qualche minuto l'avrai dimenticato."
"Ma tu continuerai a pensare che sono stupendo" sospirò, distese le gambe sul pavimento. "E' questo l'importante."
Furono le ultime parole che risuonarono tra le pareti della casetta per molto tempo. O forse poco tempo, in realtà non lo so: scorreva lento e insieme inesorabilmente veloce, un gomitolo impazzito ad aggrovigliarsi su se stesso. 
Il prima e il dopo scanditi dai movimenti della mia mano: le mie labbra, quelle di Louis, ciccare un po' di cenere a terra, poi di nuovo alle mie labbra. Lui mi lasciò condurre il gioco fino alla fine, mi concesse addirittura l'ultimo tiro, quello che come il primo spetta di diritto a chi ha girato. 
"Non ti ci abituare però" cantilenò, voce impastata e occhi rossi, mentre aspiravo per poi gettare il filtrino. 
E fu lo sballo forse, o il desiderio lacerante di spazzare via quella sua aria di superiorità, che mi spinse ad afferrargli il mento e soffiare nella sua bocca l'ultima boccata di fumo. 
Lui aspirò, gli occhi spalancati puntati nei miei ancora aperti, l'alito caldo e il respiro affannoso a confondersi con il fumo. 
Poi qualcosa cambiò: la sua mano scivolò sul mio collo, la sua lingua sfiorò appena le mie labbra. 
Voleva baciarmi. 
Baciarmi sul serio. 
Mi ritirai di scatto, tossicchiando imbarazzato e lui scoppiò a ridere. 
"Io a pregarti per un bacio e tu a fare lo stronzo" sghignazzò, dandomi una spallata. "Esattamente come ai vecchi tempi, eh?"
Annuii mio malgrado, sollevando la testa per poi "Peccato che qui non ci sia alcuna scritta da leggere" ribattere, guardando le assi di legno immacolate. 
"A questo possiamo rimediare."
Louis si sollevò sulle ginocchia, cavò fuori dal giubbotto la stessa penna con cui mi aveva marchiato il braccio e si spalmò sulla parete di fronte. Io rimasi in silenzio; sapevo cos'aveva intenzione di fare. 
Eppure, questo non impedì al mio cuore di fare le capriole, una volta che lui si fu spostato e lessi su una delle assi. 

Lou & Harry 
29/10/2012

Dovetti metterci tutto l'impegno possibile per impedire alla mia voce di non tremare quando "Tu sei sempre stato il più romantico, Loulou" lo canzonai, abbassando lo sguardo. 
"Eppure non sono stato io a scrivere nel parco a Lancaster" strisciò sul pavimento con le ginocchia, si infilò tra le gambe che tenevo spalancate. 
"E' stato tanto tempo fa..."
"Ma è grazie a quel gesto che io ho capito" si avvicinò ancora, mi afferrò le mani. "Ho capito che mi avresti dato il permesso di amarti."
Allora pensai che io, il permesso di innamorarmi non l'avevo mai ottenuto, né da lui, né da me stesso. 
Ma soprattutto da loro. 

Non c'era alcun bisogno che lo chiedessi, Harry. 

La voce di mia madre suonò diversa stavolta, perentoria e irremovibile. 
E per la prima volta dopo tanto tempo, guardando il ragazzo che mi stava di fronte, mi ritrovai d'accordo con lei. 
Al diavolo tutti i miei errori, al diavolo i sensi di colpa vecchi e nuovi, al diavolo i sacrifici da eroe e l'indecisione, la falsa freddezza ed ogni mia fottutissima paura. 
Amavo Louis Tomlinson, lo amavo più di quanto amassi loro e di questo non mi sarei più vergognato. 
Per questo gliel'avrei detto, subito, in quel momento, mentre ancora stringeva le mie mani e fissava agognante le mie labbra, l'avrei fatto mio di nuovo, tornando ad essere esattamente come lui voleva: egoista. 

E gli avrei detto tutto, l'avrei fatto davvero, se il suo telefono non avesse iniziato a squillare con fastidiosissima insistenza. 
"Zay?" 
Lou si alzò traballante, borbottò qualcosa infastidito. "Ahi cazzo" imprecò, quando batté la testa contro il tetto per poi "cosa?" esclamare sputacchiando, "che hai detto?"
Mi alzai anche io allora, come una marionetta tirata da fili invisibili. Qualcosa nella sua voce non andava. 
"..stai scherzando, vero?"
"Lou" lo scrollai dal braccio. 
"No, non è possibile..."
"LOU!" Lo costrinsi a voltarsi, Zayn ammutolì all'altro capo del telefono. "Che succede?"
"Si tratta di Niall. E di suo padre."

Zayn 

Crollo nervoso. 
Così Carl, vicino di casa sedicente medico -in realtà poco più che infermiere-, definì il pianto isterico di cui mia madre era stata preda quella notte. In realtà, non era durato più di qualche minuto.
Io l'avevo abbracciata, Liam aveva fatto il tè e lei aveva continuato a singhiozzare sulla mia spalla finché lui non le aveva ficcato la tazza in mano, tentando di riportare l'attenzione su Niall. 
Al contrario di me, con la sua voce dolce e il cipiglio calmo, riuscì ad avere successo. 
E non avrei certo avuto bisogno dell'aiuto di Carl per capire che le lacrime appena versate da mia madre non fossero di dolore o disperazione, ma più che altro di shock, quando lei stessa iniziò a raccontarmi tutto senza battere ciglio. 
La chiamata dal penitenziario era arrivata mezz'ora prima del nostro rientro a casa. 
Normalmente, avrebbero aspettato fino al giorno dopo per contattarla ma Hayley, l'anziana centralinista della prigione, era un'amica di vecchia data di mio padre, conosceva a memoria la nostra storia, dalla morte di lui fino alla condanna definitiva del "nuovo marito" come lo definiva quand'ero bambino. Perciò, non appena la notizia del ritrovamento di un cadavere nel braccio A-3 le era arrivata all'orecchio, era andata su di giri; si era comunque trattenuta dal chiamare la sua cara amica Trisha finché l'identità del defunto non era stata confermata. 
E alla fine, avuta al certezza che sul certificato di morte ci fosse stampato il nome Horan, aveva richiesto uno strappo alla procedura, onorata di poter essere la prima ad annunciare la morte di quell'uomo.
Uomo che comunque Trisha Malik un tempo aveva amato e che immaginare appeso in una cella con un cappio stretto attorno al collo, non le aveva giovato affatto. 
Nessun dettaglio sulle dinamiche dell'accaduto, nessuna conferma ufficiale né informazione indiscreta era trapelata quella notte. 
Quello che sapevamo era il minimo indispensabile. Mark Horan era morto per soffocamento alle 00:21 del 29 Ottobre 2012, il corpo sarebbe stato comunque sottoposto ad autopsia, sarebbe stata aperta un'indagine per accertarsi che si trattasse davvero di suicidio, come quasi sempre avviene dopo un decesso in prigione. 
Ed io tutto questo avrei dovuto dirlo a Niall. 
Non sarebbe stato di certo un gran problema farlo, se lui fosse stato un ragazzo normale ed io non lo avessi amato da sempre con tutto me stesso. In quel caso non avrei esitato nemmeno un secondo: avrei preso il telefono, selezionato il numero, snocciolato la notizia farcendola con parole di conforto e stupidi sentimentalismi; e magari lui avrebbe pianto esattamente come Trisha, per stupore e nervosismo, non dispiacere: se fosse stato un ragazzo normale, della morte di quell'uomo non gli sarebbe importato.
Ma Niall normale, banale o prevedibile non lo era mai stato. 
Ed io lo amavo ancora così tanto che il solo pensiero che la mia voce avrebbe potuto provocargli sofferenza, rischiava di distruggermi. L'avevo sempre protetto da tutto e da tutti, avevo messo la mia vita al suo servizio, la mia felicità in funzione perenne della sua. 
Ma da questo ultimo colpo, come avrei potuto proteggerlo?

Era questa la domanda che aveva galleggiato nella mia mente nelle ore successive, quando Carl se n'era tornato a casa e mia madre era riuscita finalmente a prendere sonno. 
Un'ora e un quarto era passata da quando eravamo tornati a casa. 
Liam era ancora lì, le chiamate di sua madre sul telefono erano rimaste senza risposta. Senza che nessuno glielo chiedesse aveva riscaldato il tè rimasto nel pentolino, me ne aveva portata una tazza sul divano, mentre io fissavo il mio di telefono, indeciso sul da farsi.  
"Preferirei un po' di erba al momento" mi ero lamentato fissando l'infuso scuro. "Sarebbe più utile."
"Non l'hai ancora chiamato?"
"Perché non rimandiamo a domani? Che senso avrebbe disturbarlo adesso?"
"Zayn."
"Gli regaleremmo solo una notte insonne e..."
"...e magari la sfrutterà per trovare un volo che lo riporti fin qui."
Avevo sbuffato, versandomi un po' del tè addosso. "Può sempre cercarlo domani mattina l'aereo, no?"
"Suo padre è morto, Zay. Non credi che lui vorrebbe saperlo adesso?"
Gli avevo lanciato il telefono sulle gambe, evitando il suo sguardo. 
"Faglielo sapere tu, allora."
Liam mi si era accoccolato accanto, gli occhi stanchi, un sorriso comprensivo sulle labbra. 
"Di cosa hai paura, Zayn?"
Ero rimasto in silenzio, eppure sapevo perfettamente quale fosse la risposta. 
Ero stato io a persuadere Niall a testimoniare. Io lo avevo convinto che facendolo avrebbe salvato suo padre, che una volta in prigione sarebbe stato aiutato, che sarebbe cambiato. Gli avevo assicurato che, una volta scontata la pena, avrebbe riavuto un padre. Lui si era fidato di me. E adesso l'uomo che con le sue parole aveva condannato, era morto. Per questo mi avrebbe odiato, ne ero certo, ma non più di quanto avrebbe odiato se stesso. Perché sapeva di essere un bambino cattivo, lo era sempre stato, e la colpa di tutto non poteva essere che sua e sua soltanto. 
Ecco di cos'avevo paura: che Niall tornasse a credere di essere troppo sbagliato per vivere. 

Però non lo avevo confessato a Liam quella notte, prima di alzarmi dal divano, afferrare quel dannato telefono e digitare il numero. Avevo trattenuto il fiato finché dall'altra parte "Zay?" non aveva gracchiato una voce assonnata. "Credevo avessi detto fosse ora di andare a dormire..."
"Scusami, Nialler" cuore impazzito, gola secca, "sei abbastanza sveglio?"
"Abbastanza per cosa?"
"Devo parlarti."
Rumore di coperte spostate, scricchiolii di molle. 
"Non ne dubito, dato l'orario" tono più vigile, voce più seria. "Che succede? Problemi con Liam?"
Avevo guardato il ragazzo che con occhi sgranati mi fissava dal divano. 
"In realtà si tratta di tuo padre."
"Che gli è successo?"
Silenzio. 
Lunghissimo, interminabile, logorante. 
Ma non fui io a romperlo. 
"E' morto."
Un sospiro, un soffio appena percepibile. 
Non era una domanda. 
Avevo annuito anche se lui non poteva vedermi. 
"Mi dispiace, Niall."
Era vero. Non per il defunto, ma per lui. E lo sapeva. 
"Come... com'è successo?"
Gli avevo raccontato tutto quello che sapevo, esattamente come mia madre aveva fatto poco prima. 
Lui era rimasto in silenzio tutto il tempo, solo qualche raro sospiro a dimostrare che fosse ancora in ascolto. 
"Credo che andrò a svegliare mia madre, adesso" mi aveva interrotto infine con voce incolore. "Vorrà iniziare a preparare le valigie."
"Niall..."
"Grazie, Zay"  un colpo di tosse imbarazzato,"per aver chiamato."

Poi aveva attaccato. Avevo passato il resto della notte con Liam, ma non esattamente come avevamo previsto. 
Dopo qualche bacio e un paio di sussurri concitati ci eravamo addormentati abbracciati sul divano. 
Lui era rimasto anche la mattina dopo, e mentre chiamava sua madre io avevo chiamato Louis. 
Parlare con lui non era stato difficile come farlo con Niall, anche se le interruzioni di Harry Styles erano state molteplici. 
"Com'è successo? Come sta il biondo? E' lì adesso? Posso parlagli? Louis? Louis!"
Era toccato al mio migliore amico rispondere alle sue domande, una volta che ebbi concluso il mio dovere di messaggero. 
Fingevo di non sapere perché mi fossi deciso a comunicargli tutto e subito, ma in cuor mio il senso di quella chiamata era perfettamente chiaro. 
L'uomo appena morto era stato colui che in quegli anni ci aveva unito più che mai. Louis e Zayn avrebbero smesso di esistere molto prima dei baci scherzosi e delle sveltine dopo scuola, se non fosse stato per lui. 
Perciò era giusto che anche Louis sapesse. 
Era giusto che anche lui tornasse. 

"Che ore sono?"
La voce di Liam mi riscosse dal torpore in cui i ricordi di quella notte mi avevano gettato. 
Diedi un'occhiata al cellulare, prima di controllare gli orari d'arrivo degli aerei sullo schermo sopra le nostre teste. 
"Le sei passate. Il suo volo dovrebbe essere già atterrato."
Liam annuì, si guardò intorno ispezionando l'entrata dell'aeroporto, sperando di riconoscere nel viavai di persone un volto familiare. 
Io rimasi sbracato sulla sedia di plastica blu uguale a tutte quelle lì accanto e, come avevo fatto fino a quel momento, aspettai. 
Ma non dovetti farlo per molto. 
"Eccoli" infatti annunciò poco dopo il mio ragazzo, sbracciandosi per attirare l'attenzione di due figure in lontananza. 
Una donna dai capelli biondo sporco stretta in un capotto costoso, le dita sul manico di una valigia dalle dimensioni raccapriccianti; alle sue spalle un ragazzo dinoccolato, i capelli di un biondo più lucente, il viso affondato in una sciarpa rossa. 
La muta tristezza racchiusa negli occhi azzurro cielo non scalfiva affatto l'efebica bellezza di quel viso che pur conoscendo a memoria, mi apparve in qualche modo cambiato. Niall Horan non era stato mai così bello in vita sua. 
E mi sembrò ancora più bello quando allungò il passo, percorrendo i pochi metri che ci separavano, per poi fiondarsi tra le mie braccia. 
Era alto quanto me adesso, quasi altrettanto forte a giudicare dal modo in cui mi strinse, ma dentro ancora terribilmente fragile.
In quel momento, nel silenzio infinito delle nostri corpi che combaciavano, capii che non c'era motivo di continuare ad avere paura.
Perché per quanto il mondo attorno fosse cambiato, per quanto noi stessi ci fossimo trasformati, finché ci fossimo ritrovati, come da bambini, l'uno nelle braccia dell'altro, niente avrebbe potuto farci del male. 

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