A Kind Of Brothers? (AKOB?) b...

By serenapittino

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E poi arrivò quel momento, quello che avevo pregato tutto il tempo che non fosse stato ripreso. Sentii Zayn i... More

1 NEW BORN
2. HATE
3. WAKE UP
4. VIDEO
6. RICATTO
5. LO PSICOLOGO
8. COMPITI A CASA
9. PARCO GIOCHI
10. OCCHI
11. RISCHI
12. I WOULD
13. NEXT TO ME
14. BLACK HOLES AND REVELATIONS
15. SOME NIGHTS
16. CHANGES
17. WHAT DO YOU WANT?
18. NEW YEAR & DEJÀ VU
19. BLACKOUT
20. THE DEMONS FROM YOUR PAST
21. WHEN YOU'RE TOO IN LOVE TO LET IT GO
22. SENSI DI COLPA
23. VOICES & TEXTS
24. CAN I HAVE THIS DANCE?
25. BROKEN
26. CRY
27. PHOTOS
28. COMPLICAZIONI
29. GET IT RIGHT
30. SECRETS
31. VIDEO 2.0
32. HURT
33. DADDIES
34. THE LAST DANCE
35. THE CURE
36. FAR AWAY
37. THE QUEEN
38. UNDISCLOSED DESIRES
39. HOLMES CHAPEL
40. THANKS FOR CALLING
41. WATING FOR YOU
42. SHAKE IT OUT

7. IN YOUR MIND

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By serenapittino


Harry

"Ricordi quello di cui abbiamo parlato la scorsa seduta, Harry?"
Sbuffai. "Certo che mi ricordo."
L'uomo poggiò le mani sulla scrivania, mi rivolse uno sguardo paziente. "E ricordi anche cosa ti avevo chiesto di fare in questi due giorni?"
"Sì" sbottai, affondando nella poltrona di pelle.
Lo studio dello psicologo mi sembrava assurdamente caldo, la sua voce dannatamente noiosa e l'orologio a pendolo che ticchettava alle sue spalle, scandendo il tempo minuto per minuto, mi aveva steso addosso un velo di torpore, una fiacchezza insopportabile.
Il tizio di fronte a me continuava a studiarmi, come se potesse cavare qualcosa dei miei occhi cerchiati, i capelli sfatti, le mani intrecciate sotto il mento, quando in realtà tutto quello che avrei voluto fare era dormire.
"Quindi?" mi incalzò, gioviale. "Ci sei riuscito? Ti sei concentrato sui tuoi nuovi famigliari? Hai magari cambiato idea rispetto alla prima opinione che ti eri fatto di loro?"
Alzai gli occhi al cielo. Troppe domande tutte insieme.
A cui non avevo idea di come rispondere, dato che in quei giorni non mi ero concentrato su nulla, a parte un certo video hot.

"Allora?"
La voce del dottor Charles non era cambiata: paziente, calma, profonda; forse per qualcuno poteva risultare rassicurante.
Sollevai lo sguardo. L'uomo mi osservava al disopra dei suoi spessi occhiali, con espressione comprensiva e invitante.
"Allora" iniziai monotono, tornando a fissarmi le mani. "Jay è sempre Jay, ègentile, si preoccupa per me, ma non credo sia molto contenta di avermi preso con sé..."
"Perché lo pensi?"
"Prima di tutto, le sto facendo spendere un bel po' di soldi inutili qui."
L'uomo scoppiò a ridere, mi guardò divertito. "Ma di Jay abbiamo parlato molto l'altra volta. Dimmi degli altri" insistette, ignorando la mia battutina acida.
Scrollai la testa, scocciato. "Le gemelle ancora non le distinguo. Felicitie credo si sia presa una cotta per me, è imbarazzante" mi grattai la testa. "E l'altra... com'è che si chiamava?"
Il dottore sorrise di nuovo, scuotendo la testa. "Non ti sei concentrato abbastanza, Harry. E ti piace fin troppo prendermi in giro."
"Ci provi lei a concentrarsi su quattro bambine e a capirle in due giorni! Che poi sono tutte uguali, cazzo!"
Lui fece una smorfia alla mia imprecazione, ma lasciò correre.
Mi divertiva quando ero io ad avere il controllo della conversazione; anche se era lui a porre le domande, le mie risposte erano abbastanza sagaci da poter essere interpretate come reali, ma a volte troppo ironiche per essere giudicate serie.
Pensavo così di poterlo tenere lontano, almeno un po', dal vero me che, accucciato in un angolo remoto della mia coscienza, tremava al solo pensiero che qualcuno potesse risvegliarlo.
Anche se qualcuno, e non certo quell'uomo, lo stava già facendo...


Louis era steso sul letto, quando rientrai quella sera.
Scorreva veloci le dita sul tablet, ogni tanto sobbalzava per la vibrazione del telefono che teneva sulla pancia, ed era ancora vestito come la sera prima.
Quando entrai in camera tutto quello che fece fu sollevare un attimo lo sguardo, per poi ignorarmi completamente.
E quell'occhiata, così indifferente e distaccata, mi fece male.
Ma perché diavolo ero io a dovermi sentire male? Avevo il pieno controllo su di lui, la sera prima l'avevo umiliato come nessuno aveva mai fatto, ero superiore a lui, più forte, più sicuro.
Allora perché non stavo affatto bene? Perché nel guardarlo provavo più rimorso che soddisfazione? Perché mi stupivo così tanto del suo sguardo di disprezzo? E, soprattutto, perché mi faceva così male?
Mi sedetti sul mio letto con un sospiro. Continuai a guardarlo, aspettandomi uno sfogo come la sera prima; un attacco che magari mi avrebbe permesso di essere ancora scontroso, ancora rude con lui; una parola di troppo, per avere di nuovo l'occasione di infastidirlo, sottometterlo, torturarlo come più mi piaceva.
Ma lui rimase in silenzio. Odiava avermi lì, questo lo sapevo. Ma non si alzò per andarsene, sarebbe sembrato un codardo. E non tornò a supplicarmi come aveva già fatto, il suo orgoglio era ancora troppo forte alla luce del giorno.
Semplicemente restò lì, magari pensando al modo migliore per uccidermi, con le labbra serrate e il respiro controllato, come se la mia presenza fosse un gas letale.
E più lo guardavo, più l'incomprensibile e malsana voglia di parlargli cresceva dentro di me...
Finché alla fine non riuscii più a contenerla.
"Qual era il motivo?" me ne uscii.
Lui sollevò un sopracciglio sottile, mi guardò appena. "Stai parlando con me?"
"Ci sei solo tu qui." 
Lui riportò gli occhi sullo schermo del tablet.
"Ieri hai detto" lo incalzai, incapace di frenare la lingua, "Che c'è un motivo per cui mi odi."
"In realtà ce n'è più di uno." 
"Intendo prima di ieri, prima del video, tu già mi odiavi. Perché?"
Lui sospirò, stanco, forse sconsolato o semplicemente scocciato.
Anche quello mi fece male. Perché era la prima volta che gli parlavo con sincerità, e una reazione del genere faceva vacillare la mia sicurezza.
Ma d'altronde, cos'altro potevo aspettarmi?
"Vuoi saperlo davvero?" sbiascicò.
"Non te l'avrei chiesto altrimenti."
Lui si sollevò, mettendo da parte il tablet.
Mi guardò come un prigioniero guarda il proprio aguzzino, chiedendogli pietà; anche solo parlare con me per lui era una tortura.
Avrei tanto voluto dirgli che non lo stavo facendo per farlo soffrire, che il mio non era un modo assurdo e psicotico per ingannarlo.
Ma ero troppo codardo per farlo, e lui in ogni caso non si sarebbe fidato.
Infatti "A che servirebbe ormai?" sbottò. "Anche se te lo dicessi, non credo diventeremo amici del cuore."
Io mi alzai di scatto e  "Dimmelo e basta!" ordinai, forse con troppa veemenza.
Lo vidi fremere. Per un attimo il mio tono era stato terribilmente simile a quello usato nel sottoscala.
Mi pentii di averlo usato. Mi sedetti sul suo letto, sperando che la vicinanza rimediasse, che lo rendesse più tranquillo.
Invece fu tutto il contrario. Istintivamente raccolse le ginocchia al petto, se le circondò con le braccia, vi appoggiò sopra il mento.
"Sai quello che è successo tra i nostri padri?" cominciò, insicuro.
Forse temeva che quello che stava per dirmi, mi avrebbe aizzato ancora di più contro di lui.
Io scossi la testa, gli rivolsi uno sguardo di incoraggiamento.
Lui prese un respiro e iniziò.

"E loro? Pensi che siano contente di averti come fratello?"
La voce profonda del dottore era sempre più fastidiosa per le mie orecchie.
"Non lo so" sospirai, esasperato. "All'inizio sembravano hum...esaltate, sopratutto le piccole. Ma ora hanno capito che non ho nulla di speciale."
Appoggiai il mento sul pugno serrato, guardai l'orologio dietro la scrivania; ancora mezz'ora di tortura.
"Perché dici così?" Fui felice di notare che il tono dell'uomo non era pietoso o caritatevole, ma sembrava veramente interessato.
Trucchi da psicologo pensai mestamente.
"Perché magari si aspettavano un nuovo amichetto con cui giocare. Ma io non ho tempo di fare il babysitter."
Lui annuì, compiaciuto del fatto che stessi rispondendo quasi seriamente, per una volta.
"E tuo cugino invece?" se ne uscì, appoggiandosi allo schienale della poltrona. "Di lui non mi hai mai parlato."
Sentii le budella torcersi nello stomaco in maniera disgustosa; mi resi conto che i battiti del mio cuore erano aumentati, che tutto il mio corpo era stato attraversato da un brivido.
Affondai le unghie nella pelle morbida della poltrona, abbassai la testa, deciso a non rispondere.
Vidi una specie di guizzo negli occhi del dottor Charles, mentre osservava la mia reazione. Aveva capito che quello era un tasto dolente.
La momentanea simpatia che avevo provato nei sui confronti svanì in un attimo; mi sentivo così nudo, così debole di fronte a lui, e questo non mi piaceva.
"Ha più o meno la tua età, giusto?"
Annuii.
"Andate a scuola insieme?"
"Sì." 
Voleva estorcermi informazioni con domande vaghe e apparentemente innocue. Ma non sarei caduto nella sua trappola.
E ovviamente lui si rese conto che non avrebbe ottenuto nulla da me. Così cambiò tattica.
"Dimmi qualcosa di lui, dai" mi spronò, sorridendo.
Iniziai a far a muovere convulsamente la gamba sotto la scrivania.
"Non mi viene in mente niente."
L'uomo sospirò. "Facciamo così" mi inchiodò con lo sguardo. "Ti farò delle domande veloci, e tu dovrai rispondere solo con una parola o aggettivo, ok?"
Sollevai la testa. Quella proposta non mi piaceva per niente. Forse contava sul fatto che così mi sarei trovato meno a disagio a parlarne.
"Sì" risposi infine, con tono concessivo. Pensavo che se avessi risposto, avrei distolto la sua attenzione dall'argomento "Louis".
Il dottore mi sorrise. "Come lo ricordavi da bambino?"
"Timido." 
"E cosa hai pensato, quando l'hai rivisto?"
Sogghignai. Che è bellissimo. 
"Che ora è diverso."
L'uomo lanciò un'esclamazione divertita. Probabilmente si aspettava che avrei risposto evasivamente.
"Un suo pregio?"
Scoppiai a ridere. "Non credo ne abbia."
Lui inarcò un sopracciglio. "Qualcosa avrai notato, in questo mese."
Mi grattai la fronte.  "Mmm...è molto ordinato?"
"Ok, diamola per buona" il dottore ammiccò. "Un difetto?"
"E' un idiota."
"Questa non vale come risposta."
Mi sporsi verso di lui. "Ma idiota è un aggettivo, dottore" ribattei.
Lui calò il capo, rassegnato. "Un'ultima domanda."
"Questo gioco inizia a stancarmi."
L'uomo si tolse gli occhiali, iniziò a pulirli. "Volevo solo sapere come si chiama."
"Louis. Ma che importanza può avere?" lo guardai con una smorfia. 
"Beh quando ti chiesto degli altri, ti sei riferito a loro sempre chiamandoli per nome" si rimise gli occhiali. "Con lui invece no. Non ti sembra strano?"
Spalancai la bocca per un attimo, preso in contropiede. Quello strizzacervelli pensava di potermi fottere.
"Perché in realtà non ho parlato di lui, ho solo risposto a domande su di lui."
Il dottore mi guardò, ammirato e contrariato insieme. "Touchè!"
Mi abbandonai di nuovo contro lo schienale della poltrona. Il momento critico era passato, e credevo di averlo affrontato abbastanza bene.
"Ci rimangono ancora dieci minuti. Scegli tu di cosa parlare" mi concesse l'uomo, rilassandosi un po'.
Io mi voltai verso la finestra. "Visto che bel sole che c'è oggi?" dissi con fare innocente.
Lui rise. "Sei un tipo interessante, Harry."
"Scommetto che lo dice a tutti i suoi pazienti."
Scosse la testa. "Non c'è proprio nulla di cui vuoi parlare?"
"Veramente no."
"Quindi mi concedi un'altra domanda?"
Alzai gli occhi al cielo.
"Faccia come le pare."
Quando mancava ormai così poco alla fine, il mio tono rasentava la maleducazione.
"Ci sono altre persone che hai conosciuto nell'ambito familiare? Che so, una zia, altri cugini..."
Mi irrigidii.
Scossi la testa con decisone. Non consideravo il padre di Louis come mio parente, né come parte della mia famiglia. Non avrebbe avuto senso parlare di lui. Sopratutto dopo quello che avevo saputo la sera prima.




"Tutto questo non ha senso!" sbottai, interrompendo Louis all'improvviso. "I tuoi si sarebbero lasciati in ogni caso. Perché incolpare la mia famiglia solo perché ha aiutato tua madre?"
Lou mi rivolse uno sguardo disgustato, quasi come se si ritrovasse a discutere con un decerebrato incapace di seguire il suo ragionamento. 
"Sta zitto per favore" sputò "I miei non avevano nessun problema, finché tua madre non si è intromessa. Non conosceva mio padre, non si fidava di lui, pensava che la sua fortuna fosse dovuta a chissà cosa, quando in realtà era solo invidiosa della vita che si era fatta mia madre qui."
"Se Jay avesse amato davvero tuo padre, non si sarebbe lasciata influenzare da lei."
Tommo sospirò e si accasciò contro un cuscino. "Lo sapevo. Sei troppo stupido per capire."
Lo guardai gelido. "Capire cosa? Che mi odiavi perché mio padre ha gestito la causa di divorzio contro il tuo? Perché mia madre si preoccupava per sua sorella? Scusami, ma per me questo è essere stupidi."
Rise, distendendo finalmente le gambe e abbandonando l'espressione di ansia perenne che aveva sul viso. Si trovava a suo agio a difendere suo padre, anche se questo voleva dire parlare con me.
"Puoi immaginare cosa significa essere privato di un genitore all'età di sette anni, e sentirti dire da lui che è stata tutta colpa dell'amato zietto? A quel tempo gli ho creduto sulla parola. Ora penso solo che magari i tuoi potevano farsi i cazzi loro, e lasciare che i miei se la sbrigassero da soli."
Gli lanciai un'occhiata confusa. "Quindi io cosa c'entro, scusa?"
Sollevò le spalle. "Sei figlio loro, dovevo odiarti. Era giusto così."
"Forse temevi che avrei invaso il tuo territorio?" scherzai, sollevando un sopracciglio. Il suo discorso mi appariva così inutile e infantile.
Lui storse le labbra. "Forse perché mia madre ha già abbastanza problemi, e non le serviva certo un nipote psicotico a complicarle la vita."
"Se non fosse che tutti questi problemi glieli procuri tu, sarebbe potuta anche sembrare una scusa plausibile." 
A quelle parole Louis raddrizzò la schiena, strinse i pugni. "Quello che c'è tra me e mia madre non è affar tuo" sibilò.
Rimasi per un attimo senza parole, stordito da quell'improvviso accanimento. 
Poi gli sorrisi di nuovo. Volevo stuzzicarlo, solo un po'.
"Sul serio Lou, quante volte sei stato bocciato? Dev'essere stata una grande delusione per zia Jay."
Le sue labbra già sottili si strinsero ancora di più, gli occhi azzurrissimi si ridussero a due fessure.
Pensavo che mi avrebbe attaccato, magari urlato contro.
Invece riprese in mano il tablet, abbassò la testa.
"Tu non sai niente di me" affermò con calma, come se lo ripetesse a se stesso, per mantenere il controllo.
Io mi imbronciai. "Beh nemmeno tu sapevi niente di me, ma hai deciso comunque di odiarmi."
Lui sollevò lo sguardo, mi trafisse con quei suoi occhi di ghiaccio. Sostenni quell'occhiata raggelante, anche se avrei tanto voluto distogliere gli occhi dai suoi.
Cavò la mia penna usb fuori dalla tasca e me la lanciò.
"Questa è tua,"
Io mi alzai, rigirandomi tra le mani la pendrive probabilmente vuota.
"Io non ho niente contro di te, Louis. Tutto questo è successo per colpa tua" sussurrai, quasi a volermi giustificare.
Lui rimase impassibile.
"Puoi lasciarmi in pace, adesso?"
La sua voce fu così fiacca che capii che era arrivato il momento di lasciarlo in pace davvero.




"Facciamo così" iniziò il dottor Charles, quando ormai mancavano meno di due minuti. "In questi giorni cerca di andare oltre le apparenze, oltre ciò che le persone fanno per te, o quello che tu fai per loro. Cerca di conoscerle davvero, di capire quale tipo di rapporto puoi instaurare con loro, oppure come migliorare quello che hai già."
"Praticamente è la stessa cosa che mi ha chiesto l'altra volta" osservai.
"Ma stavolta vorrei che tu lo facessi,davvero. Soprattutto con Louis."
Sbuffai. "Mi assegna anche i compiti a casa adesso?"
L'uomo scosse il capo, divertito. "So che ora ti sembra stupido. Ti senti superiore a me e a tutto ciò che ti consiglio, ed è normale. Ma provaci, il risultato ti stupirà."
Inarcai un sopracciglio. 
"Alla prossima, Harry."
Mi alzai. "Per mia sfortuna. Arrivederci."
Uscii, camminai lentamente nella sala d'attesa, snocciolai un "Buonasera Annette" alla segretaria che arrossì, e raggiunsi con tutta calma l'uscita.
Da lì, mi precipitai lungo le scale e una volta in strada, mi sentii quasi come un carcerato il suo primo giorno di libertà.
In effetti andare dallo psicologo aveva i suoi lati postivi: ogni volta che mi liberavo della sua parlantina mi sentivo così bene!
Mi sentivo un po' meno bene a pensare di dover prendere l'autobus. Era così deprimente.
Decisi di chiamare Liam. Magari mi sarei inventato un malore, o una crisi improvvisa, o un attacco dagli alieni, così lui sarebbe venuto a prendermi veloce come un razzo.
Amavo la sua immancabile, logorante, assidua disponibilità. Strano che appena un mese prima fosse la cosa che odiavo più di lui in assoluto.
Camminavo lentamente lungo il marciapiede, impegnato a scrivere un messaggio al mio santo protettore, quando qualcosa attirò la mia attenzione.
Un ragazzo stava appoggiato al muro a pochi metri dal portone del palazzo, le mani dietro la schiena, la testa sollevata a guardare il cielo, i capelli di un biondo slavato leggermente scossi dal vento.
Mi avvicinai, come attirato da una forza misteriosa.
"Niall?"
Il biondo distolse a malincuore gli occhi dal cielo e mi guardò.
Era senza dubbio Niall; quello sguardo vacuo e sospeso, quell'aria distratta e assorta, quel respiro così sottile e controllato, potevano appartenere solo a lui.
Per un attimo credetti che non mi avesse riconosciuto, tanto rimase immobile ad osservarmi. Poi le sue labbra si schiusero in un sorriso teso. "Ciao Harry. Com'è andata la seduta?"
Io gli sorrisi di rimando, quasi sentendomi costretto ad essere gentile con lui. 
"Una noia come sempre" risposi allegramente. "Tu devi salire?"
Scosse la testa. "Ho finito alle quattro" si guardò intorno, come se non riuscisse a fissarmi negli occhi mentre parlava.
Io rimasi a bocca aperta. "Quindi sei qui da due ore?" 
Niall annuì con un gesto fluido del capo. "Sto aspettando che vengano a prendermi."
Lo guardai stranito. Stentavo a credere che qualcuno avesse avuto il coraggio di lasciarlo lì per tutto quel tempo, quando appariva così debole, indifeso.
"Non potevi prendere un auto? O un taxi?" non riuscii a trattenermi dal domandare.
Lui scosse di nuovo il capo. "Mi piace aspettare."
Cercai di non sembrare troppo scioccato da quella sua dichiarazione senza senso.
"Sei sicuro che verranno a prenderti?" chiesi quasi preoccupato. Solo immaginare di lasciarlo di nuovo lì da solo mi faceva sentire a disagio, così come mi sarei sentito abbandonando un cucciolo su un'autostrada.
Non so perché la sua aria distaccata e astratta sviluppava il mio lato protettivo.
Niall si voltò verso di me, per la prima volta con un vero sorriso stampato sul viso pallido.
"Su questo non c'è dubbio" disse con una sicurezza che cozzava con il suo tono delicato. "Credo si sia solo dimenticato che oggi uscivo prima."
Rivolse di nuovo gli occhi alla strada.
Il fatto che parlasse come se io non ci fossi era dannatamente inquietante. Sembrava preso da un mondo tutto suo, probabilmente io gli apparivo come un fastidioso insignificante sogno, lontano mille miglia dalla sua realtà.
E la pietà che provavo per lui mi impediva di innervosirmi per questo.
"Comunque" ripresi, schiarendomi la gola, "un mio amico sta vendendo a prendermi. Possiamo darti un passaggio."
Lui soppesò le mie parole, indeciso. Ma poi la sicurezza e la convinzione di poco prima tornarono, modificando per un momento i suoi lineamenti rilassati.
"No" affermò, serrando la mascella. "Meglio di no. Ma grazie comunque."
Inarcai un sopracciglio, sempre più sorpreso. Parlare con lui era  peggio che stare nello studio dello psicologo.
"Come vuoi" risposi, ritrovando un po' della mia acidità. Ma non mi mossi. 
Per qualche strano motivo non volevo lasciarlo solo. Se il dottore non stava riuscendo a riportare alla luce il vecchio Harry, senza dubbio quel ragazzo stava avendo più successo. 
"Eccolo!" saltò su all'improvviso, guardando dall'altro lato della strada. "Grazie per avermi fatto compagnia" mi sorrise, prese a camminare con calma.
"Alla prossima" lo salutai, seguendolo con lo sguardo.
E solo in quel momento mi accorsi che la macchina ferma sul lato opposto era di un colore rosso dannatamente familiare. 
Socchiusi gli occhi e feci qualche passo avanti per guardare meglio.
Sì, era una Mercedes rossa. Sì, Niall aprì proprio uno di quelli sportelli e vi salì.  
E quello alla guida accanto a lui, non poteva essere che Zayn.







Louis

Zayn fece scattare di nuovo l'accendino, si distese sul letto accanto a me, afferrò il joystick abbandonato sul cuscino e fece ripartire il gioco.
"Quindi non ci vieni nemmeno domani a scuola?" borbottò a denti stretti, tenendo la sigaretta tra le labbra.
"Non credo" risposi atono, mentre premevo i tasti freneticamente.
Lui sbuffò, fece fuori uno dei nostri nemici virtuali con un colpo secco. "Mi spieghi che senso ha? Harry te lo ritrovi comunque tra le palle a casa."
Io incrociai le gambe, mi avvicinai allo schermo del minuscolo televisore. "Non mi va di venire, cazzo. Harry non c'entra niente."
"Così gliela dai solo vinta, Lou." 
Sollevai le spalle, insofferente, mentre il mio avatar nel gioco veniva ridotto in poltiglia da una scarica di mitragliatrice.
Sospirai e gettai il joystick ai piedi del letto.
Le parole di Zayn non servivano certo a spronarmi. Ero in uno stato semivegetativo da tre giorni ormai: non uscivo, non mangiavo, a malapena dicevo più di due parole al giorno, e dormivo si e no tre ore a notte.
Quella era la prima volta che mettevo il naso fuori di casa, solo perché Malik era passato a prendermi, portandomi a casa sua per una bella lavata di capo.
Tentava di rassicurarmi, di convincermi che quel video non era poi così compromettente, che la mia vita non dipendeva da quello, che avrei potuto approfittare della situazione per uscire allo scoperto e in gran stile, come diceva lui.
Non sapeva che a me non importava più un cazzo di quello stupido video. Non mi importava più di niente ormai.
Mi sentivo come un corpo svuotato, un semplice involucro trascinato dall'imprevedibilità degli eventi, dall'inarrestabile scorrere del tempo, dallo sfuggente alternarsi dei giorni e delle ore, logorato dall'infinita attesa che la catastrofe si abbattesse su di me.
Non era tanto il pensiero di quello che sarebbe successo dopo a preoccuparmi; a quello ormai mi ero mentalmente rassegnato.
Era quella situazione di calma apparente, quell'ansia pressante e costante, quella trepidazione mista al puro terrore con cui aspettavo che Harry si decidesse a darmi il colpo di grazia. 
E poi c'era l'incertezza, il dubbio che in realtà lui non volesse fare proprio niente; che non avesse nessun altro video, che stesse bluffando solo per farmi crollare.
Ecco quel dubbio, infimo e sottile, mi rodeva dentro. Non sapere cosa sarebbe successo, quando sarebbe successo o addirittura se sarebbe successo, era una tortura straziante.
L'unico modo per cercare di riprendermi, era starmene per conto mio per un po'.
"Avete più parlato del video?"
Anche Zayn aveva lasciato perdere il videogioco e ora mi guardava con quei suoi occhi scuri e penetranti, così difficili da interpretare.
"No" risposi secco, sdraiandomi con le mani dietro la testa.
Lui non sapeva niente del guardaroba nel sottoscala. Non sapeva dell'umiliazione che avevo subito, che ancora mi bruciava dentro, mi rodeva l'animo come un mucchio di tarme che divorano il legno. Non sapeva quanta vergogna provassi, quanta riprovazione e disgusto avessi per me stesso. E solo nel migliore dei casi, mi ricordavo di rivolgere questo disgusto anche verso Harry, di convertire il mio dolore in odio, desiderando un riscatto, sperando che prima o poi sarei riuscito a vendicarmi.
Ma questo non mi aiutava.
E il perché lo sapeva anche Harry.
Nel profondo, ero consapevole che il casino in cui mi trovavo ero stato io stesso a crearlo. Perché diavolo mi ero dovuto accanire contro Harry, appena era arrivato? Perché non avevo continuato ad ignorarlo, lasciando separate le nostre vite?
Cosa avevo ottenuto, seguendo il mio sadico, autolesionista, senso del divertimento?
Solo di essere seviziato da un cugino che a malapena conoscevo, che trovavo dannatamente attraente, e che appena un giorno prima aveva iniziato ad atteggiarsi da amico.
Ed ecco un'altra cosa che non capivo: che diavolo di senso aveva comportarsi così civilmente con me, dopo quello che mi aveva fatto?
Ci doveva essere qualcosa sotto, c'era sempre qualcosa sotto quando si trattava di lui.

"Vuoi che ci parli io?"
Il tono conciliante di Zayn mi riscosse.
"Cosa?" 
"Vuoi che parli io con Harry?" sbottò, "So essere molto persuasivo, questo lo sai."
Io scossi il capo. "Non ti ascolterebbe nemmeno se gli rompessi tutte le ossa."
Zayn roteò gli occhi. "Forse dobbiamo cambiare strategia."
Lo guardai, curioso. "Che intendi?"
Zayn incrociò le gambe, raddrizzò la schiena e mi guardò dritto in faccia. "Credi che lui sia l'unico a sapere del video? Che abbia davvero organizzato tutto questo da solo? Non c'è qualcun altro molto vicino a lui che ce l'ha con noi?"
Spalancai gli occhi, quando capii di chi stava parlando e "Payne" sussurrai.
Lui annuì. "Esattamente. Dobbiamo puntare su Liam, lui è l'anello debole."
Scoppiai a ridere, per la prima volta dopo giorni.
Quel suo fare cospiratorio era quasi esaltante.
"E scommetto che vorrai occupartene tu."
Lui sorrise sornione. "Sai che è cotto di me dalla prima media. Sono avvantaggiato."
"Ma io potrei essere geloso" lo baciai.
Quello che sarebbe dovuto essere un gesto scherzoso presto diventò qualcos'altro.
Le sue labbra si accanirono sulle mie, mi infilò in bocca la lingua senza troppe cerimonie, afferrandomi dalla nuca per portarmi più vicino a sé. 
Mi lasciai trasportare per un attimo dalla lingua che avvolgeva la mia, dalla saliva calda, ancora impregnata del sapore del fumo, che ora mi invadeva la bocca, ma quando sentii la sua mano correre giù, lungo l'addome, diretta al cavallo dei pantaloni, d'istinto mi ritrassi.
Non sapevo perché l'avessi fatto, e la cosa mi spaventò a morte; solo un pazzo avrebbe rifiutato le avances di Zayn.
Lui comunque non sembrò intuire il mio disagio; riprese fiato, si rilassò, e si distese tra i cuscini.
Incredibilmente fui io a chiedergli "Che succede?" notando il suo sguardo pensieroso.
"Nulla."
"Guarda che puoi confidarti con me anche se prima non scopiamo." 
Lui sbuffò, improvvisamente nervoso. "Hai ritrovato la tua parlantina a quanto vedo."
"Dimmi cos'hai e tornerò muto come una tomba."
Si infilò un'altra sigaretta in bocca e "Niente" sospirò, facendo scattare l'accendino. "Solo che oggi mi sono dimenticato di andare a prendere Niall."
Per qualcuno che non avesse conosciuto Zayn, quella frase sarebbe apparsa completamente senza senso, soprattutto se vista come motivo del suo malumore.
Ma io lo conoscevo, e anche troppo bene. E sapevo che quando si trattava di Niall, la situazione si faceva delicata.
Perché qualsiasi cosa accadesse attorno al biondino, qualsiasi cosa lui facesse, qualsiasi cosa lui dicesse, Zayn ne era irrimediabilmente e fottutamente condizionato.
E il fatto di averlo lasciato lì, ad aspettare da solo, mentre lui era chissà dove, pesasse sulla sua coscienza come un macigno. Era una mancanza che non avrebbe mai dovuto commettere, un errore per cui si sarebbe dannato all'infinito.
Io potevo solo cercare di alleviare quel suo inutile, superfluo, senso di colpa.
Perciò "Ed è sopravvissuto?" scherzai, evitando di guardarlo negli occhi.
Lui aspirò un po' di fumo, poi lo soffiò verso la finestra. "Ha aspettato lì due ore" disse in tono grave.
"Non poteva chiamarti?"
"Avevo il telefono spento" scrollò la sigaretta, facendo finire la cenere a terra senza alcun ritegno.
"E si è arrabbiato?"
"Lui non si arrabbia mai, lo sai."
"E tu ti sei scusato scommetto. Quindi problema risolto, non ti pare?"
"Il problema è che sono un idiota" sbottò.
"Questo è vero, ma non cambia le cose" sorrisi.
Lui aprì la bocca per ribattere, ma un colpo alla porta lo interruppe.
"Zayn?" 
Pronunciato da quella voce fioca e sottile, il suo nome sembrò ancora più bello.
"Entra!" disse subito il moro, sollevandosi 
La porta si aprì e la testa bionda di Niall fece capolino nella stanza. Come accadeva sempre, restò per un po' ad osservarci, come se fossimo un raro tipo di pianta esotica, di cui voleva cogliere ogni dettaglio.
Zayn si alzò. "Che succede?" 
Il suo tono era quello che amavo definire "voce da Niall", un misto di apprensione e dolcezza che usava solo con lui.
L'altro non gli rispose. "Ciao Lou" fece invece, rivolgendomi un sorriso inquieto, senza nemmeno accennare ad entrare.
Gli feci un cenno col capo. "Come va, Nialler?"
Lui scrollò le spalle, tenendo le mani ancorate alla maniglia della porta. "Stiamo preparando la cena, mangi qui?"
Sulle mie labbra si andava già delineando la parola "NO", ma Zayn fu più veloce.
"Certo che mangia qui" affermò sorridente, "Tra un po' scendiamo."
Il sorriso di Niall si allargò ancora di più, stette un secondo a guardarci, poi si dileguò, veloce e silenzioso come sempre.
Io mi alzai. "Vuoi tenermi in ostaggio, Malik?"
Lui si stiracchiò, spense la sigaretta che gli era caduta a terra. "Almeno finché la tua parlantina non si sarà ristabilita, sì."
Io chinai il capo, lo seguii mentre usciva dalla stanza.
Era sempre meglio che stare a casa con Harry.



Zayn mi riaccompagnò a casa presto, rispetto ai nostri soliti orari, dopo avermi convinto ad andare a scuola il giorno dopo.
In effetti non è che io avessi fatto poi tanta resistenza; avevo annuito e basta, sapendo che comunque tutto sarebbe dipeso dal mio umore della mattina dopo.
Perché sì, in quel momento si poteva dire che stessi bene. La cena con Niall e Zayn mi aveva rilassato, riportandomi coi ricordi diversi anni addietro, a quando eravamo bambini e con i piatti in mano ci accomodavamo sul tappeto del salone, a guardare la tv.
Quella sera avevamo fatto esattamente la stessa cosa.
Niall accucciato sul divano, il piatto sulle cosce, silenzioso come sempre.
Zayn a terra, appoggiato alle sue gambe, la schiena curva e l'espressione concentrata.
Io disteso sul tappeto a pancia sotto, il piatto tra i gomiti, i piedi a sfiorare quelli di Zayn.
Stesse posizioni. Stesse scadenti patatine fritte nel piatto. Stesso vecchio televisore e stesso tappeto ammuffito.
Mi ero sentito come fuori dal tempo, sospeso in una realtà in cui non esistevano ansie, preoccupazioni, cugini psicotici, o video hot.
E mi aveva fatto bene.
Ma quella serenità era destinata a durare poco. Perché mi bastò solo entrare in stanza e vedere Harry, per distruggere il mio effimero idillio interiore.
Il riccio era seduto sul suo letto a gambe incrociate, con una pallina di gomma rossa in mano. La lanciava ritmicamente contro il muro, mentre guardava la tv accesa sulla scrivania, e quella dopo qualche secondo ritornava indietro, tra le sue mani aperte a coppa.
La mia entrata non disturbò minimamente il suo passatempo.
"Ciao."
Gli risposi con un cenno del capo. Mi chiedevo come mai si ostinasse tanto a parlarmi. Non avevo già sofferto abbastanza? Perché continuare a torturarmi con quella parvenza di amichevole convivenza?
Gli voltai le spalle e mi tolsi la maglia con uno scatto.
Sentii i tonfi della pallina contro la tappezzeria interrompersi. Capii che mi stava guardando, mi affrettai a cercare la maglia del pigiama. Non che di solito fossi timido o pudico, e in effetti, anche se il mio fisico non era paragonabile al suo, non è che avessi niente da invidiargli. Ma dopo quello che era successo, provai davvero vergogna a spogliarmi davanti a lui.
Afferrai la prima cosa che mi capitò a tiro e, mentre mi infilavo la maglia, gli lanciai un'occhiata.
Era immobile, nella stessa posizione di prima, la pallina in mano, schiacciata tra le dita lunghe e bianche. I suoi occhi erano fissi su di me, come in trance, e il suo respiro era forte, irregolare.
Essere guardato in quel modo mi fece quasi paura.
Rinunciai all'idea di cacciarmi i pantaloni e mi buttai con i jeans sul letto.
Lui continuò a guardarmi, senza alcuna discrezione, senza provare nemmeno a fingere di spostare lo sguardo.
Io alzai gli occhi al cielo, innervosito. 
"Si può sapere che hai da guardare?" 
Harry sollevò le spalle, mantenne la sua espressione pensierosa. "Devo fare i compiti a casa." 
Aggrottai le sopracciglia. "Che cazzo stai dicendo?"
Lui sorrise, in quel suo modo così arrogante ed insieme enigmatico, coinvolgente. 
"Lo psicologo crede che debba concentrarmi sulle persone per capirle meglio. E mi dispiace davvero, ma in questo weekend toccherà a te."
Feci una smorfia e sbuffai. 
Harry non si faceva comandare da nessuno, non avrebbe mai davvero messo in atto il consiglio del dottore; la verità è che in quel caso gli faceva comodo, perché gli avrebbe permesso di torturarmi.
"Non puoi capirmi solo guardandomi" affermai, scocciato.
Il suo sorriso di allargò. "Quindi posso anche parlarti?"
Lo guardai, interdetto. Davvero non capivo quale fosse il suo gioco.
Ma ciò che appariva evidente, era la sicurezza e la spavalderia con cui mi parlava. Prima era stato sempre taciturno, remissivo; non osava nemmeno chiedermi di passargli il latte a colazione! 
Ora invece si sentiva forte, padrone della situazione; aveva il coraggio di tenermi testa, di sottomettermi.
E questo poteva voler dire solo una cosa.
Ha ancora il video pensai amareggiato Ma non lo userà, almeno non ora.
Iniziai a capire che in realtà quella non era un'arma per ricattarmi, ma un mero sostegno a cui lui tentava di aggrapparsi solo per sentirsi più sicuro.
Quindi alla fine dei conti, ero ancora io il più forte?

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