Caleb Sigà

By LorenzoFabre

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Caleb è un marinaio e un mercenario di Lenvar, alle dipendenze del padre Avidan Sigà, con il quale ha un rapp... More

Prefazione
Prologo: Teste fasciate sulla galea
Capitolo 1: Le sciabole si giocano la Luna.
Capitolo 2. La mia è restata dov'era...
Capitolo 3: Per non disturbare la fortuna.
Capitolo 4: C'è un pesce tondo che quando se la vede brutta, va sul fondo.
Capitolo 5: Al posto degli anni, diciannove, si sono presi le mie braccia nuove.
Cap. 7: la sfortuna è un uccello che gira intorno al culo più vicino.
Cap.8 - E digli, a chi mi chiama "rinnegato"
Cap.9: Che tutte le ricchezze, le ho lasciate al sole
Cap. 10 - Epilogo

Cap. 6: La sfortuna è un avvoltoio, che gira intorno alla testa dell'imbecille.

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By LorenzoFabre

Giorno 75
L'ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

Caleb se ne stava in riga con gli altri prigionieri. Quel viaggio fino alla città di Dreniane era stato più che faticoso: era stato messo al remo, come gli altri lenvari, per giorni e notti. Alcuni dei vogatori erano morti durante la traversata e non dimenticò mai la puzza di piscio, merda, vomito e piaghe che impregnava i banchi di legno dei rematori.

Non era però toccato a suo padre: al capitano spettava lo status di "nobile" e i privilegi del caso. Avidan si era fatto tutta la navigazione ospite di Akhad Bey, il signore khalimico che li aveva catturati.

Dreniane era una delle tante città che il sovrano di Akhad Bey aveva conquistato. Il Sultano di Khalim non si sarebbe mai fermato: avrebbe conquistato tutto quello che un tempo apparteneva al Regno Imperiale di Essava e la sua dinastia ci stava lentamente riuscendo, decennio dopo decennio, sfruttando la decadenza della corte del Re Imperiale. La stessa Dreniane una volta, era una delle città più importanti dell'Impero Sabano, culla di cultura e sapere; il Sultano si era installato nell'ex Palazzo Imperiale, proprio per ribadire il suo scopo, e lo aveva fatto decorare secondo il costume khalimico. I mosaici e gli affreschi erano stati coperti da sfavillanti arabeschi e stucchi colorati, o anche da semplice intonaco bianco. Era così che a quel tempo una cultura si imponeva sull'altra: tentando di cancellarne le sue tracce, o meglio, di nasconderle sotto strati di vernice, stucco e malta.

Al centro della sala delle udienze del palazzo, sostava Akhad Bey. Caleb aveva imparato a conoscerlo meglio durante il viaggio. Il Bey gli aveva salvato la vita quando il giannizzero stava per strappargli i gioielli e buttarlo a mare, durante l'abbordaggio. "Idiota ottuso e irrispettoso", aveva urlato il Bey al suo soldato, prima di fargli infliggere 50 frustate e un mese a mezza razione, per aver tentato di ferire un nobile che andava riscattato, vivo e il più integro possibile: merce pregiata che non andava rovinata troppo, perché non perdesse valore.

"Ci siamo: è il momento", pensò Caleb. Era teso e curioso: quanto valeva la sua vita? Quanto valeva un re? Un contadino? Un mercenario, anzi... un "assentista" come lui?

Avidan se ne stava calmo, in piedi. Nessuno avrebbe mai indovinato che cosa stesse pensando.

«Quanto denaro tu offre?» chiese Akhad Bey ad Avidan, in lingua sabana, carica del forte accento khalimico.

«Trentacinquemila per me e dodicimila per mio figlio Fidan, il capitano della galea Puledra» rispose Avidan; ma lo disse nella lingua malica parlata dai khalimi. Oltre che a scopare, il padre di Caleb era parecchio bravo con le lingue: quest'ultima abilità, del resto, gli favoriva la prima. Anche il figlio conosceva quella lingua, come ogni bravo navigante, ma soprattutto per via della madre.

"Che stronzo. Non ha abbastanza soldi per riscattare tutti. Mi toccherà aspettare anni che raccolga i soldi anche per me" pensò Caleb.

Akhad Bey fissò un dignitario anzianotto che dettava ad uno scrivano sdentato e magro come un chiodo: i turbanti che indossavano li facevano sembrare buffi personaggi delle fiabe d'oriente. Il Bey fece un cenno impercettibile con la testa e poi si voltò di nuovo verso Avidan.

«Tu hai un altro figlio che combatte bene» disse indicando Caleb. «Cosa offri per lui?»

«Cinquemila» disse Avidan. «Lo sopravvalutate, Eccellenza: è giovane non vale molto.»

Piombò il silenzio nella sala: i khalimi rimasero sbigottiti. Caleb credeva di non aver udito bene. "Solo cinquemila. Vuole tirare giù il prezzo. E magari pure farmi cagare addosso", pensò, sperandolo dentro di sé.

«Tu hai deciso che vale dodicimila tuo figlio codardo che ha abbandonato la nave durante la battaglia e cinquemila quello che combatte bene?!» chiese Akhad Bey con fare scandalizzato. Sia che trattassero la vendita di un tappeto che quella di uno schiavo, i khalimici usavano grande teatralità: ampi gesti, timbro di voce alto, sguardo rivolto al resto della platea a cercare approvazione.

«Perdono se le mie parole non sono state chiare: tuttavia il vostro udito è ottimo, Eccellenza» rispose Avidan con un mezzo inchino.

Un altro sguardo del Bey al dignitario: questa volta l'anziano alzò le spalle e spalancò gli occhi.

«Io credo che le cifre per i tuoi figli andranno invertite, capitano Avidan» disse il Bey.

«Rispettosamente no, Eccellenza: quest'altro mio figlio non vale per me che cinquemila. In caso non vi soddisfi, fatene ciò che riterrete opportuno» disse Avidan.

"Che cazzo ha in mente?!" pensò Caleb cercando di catturare lo sguardo del padre, senza risultato.

«Quarantasettemila per te e il tuo figlio codardo, capitano, è comunque troppo poco. Sua Luce il Sultano dice che tu deve pagare settantamila per te e tutti i tuoi tre figli» ribatté Akhad Bey.

Chissà come fa a parlare con "Sua Luce", pensò Caleb. Il Sultano non era presente nella sala: era offensivo per un monarca partecipare a quelle trattative da usuraio, ma era sufficientemente nobile arraffare il riscatto, a cose fatte.

«Non ho quella somma» rispose fermamente Avidan. «Posso arrivare a cinquantacinquemila per me e Fidan, ma mi servono due mesi di tempo.»

Akhad Bey si accarezzò il curato pizzetto. «Cinquantacinquemila è un prezzo accettabile, ma avrai solo un mese per ottenerlo. Se vorrai due mesi, la cifra è settantamila. E ti riprenderai anche tuo altro figlio Caleb.»

«Non credo che sarà possibile, in così poco tempo» ribadì Avidan. «E ribadisco che non ho interesse per Caleb.»

Akhad Bey guardò il figlio abiurato. Anche Caleb lo fissò: non aveva più quel sorriso da principe del deserto di quando aveva catturato la loro nave. E quello che disse dopo quel momento di silenzio, convinse Caleb ancor di più che la nobiltà forse albergava nel suo titolo, ma non nel suo animo. Akhad Bey riadoperò il sabano: voleva essere ben compreso da tutti.

«Bene. Dato che voi infedeli non avete tempo o soldi per pagare riscatto, noi faremo di tuo figlio Caleb un eunuco: sarà reso schiavo al servizio di Sua Luce il Sultano. Sta bene, capitano Avidan Sigà?»

«Potete anche usare i suoi testicoli come sonaglino, per ciò che mi riguarda» rispose Avidan.

«Moderate i termini in presenza della corte!» disse fermo Akhad Bey. «Assisterete allora alla sua castrazione. Yusul!»

Un gigantesco eunuco dalla pelle nera prese per le spalle Caleb che, incredibilmente, non oppose resistenza: continuava a guardare incredulo suo padre. Avidan non lasciava trasparire emozione, al contrario di Fidan che ghignava soddisfatto.

«Dopo la castrazione di Caleb, se tu non accetterai di pagare il riscatto di cinquantacinquemila in un mese, metteremo a morte l'altro tuo figlio; e dopo anche te, Avidan Sigà. Sta bene?»

«Rracimolare la somma richiede il tempo di mandare messaggi in patria ai miei familiari e spedire qui il denaro necessario!» disse Avidan alzando la voce. Si rese conto che la forza era inutile, e cercò di rimediare: «rispettosamente, non credo che un nobiluomo come voi, abituato a questioni di maggiore importanza, sappia come funziona la nostra macchinosa burocrazia lenvare, Eccellenza! Fidatevi di me, che frequento ambienti ben più modesti dei vostri.»

«Fidarmi di un infedele che trasporta armi per i nemici di Sua Luce? L'eccellentissimo illuminato Sultano non ha tempo di aspettare i comodi degli infedeli» rispose Akhad Bey battendo le mani.

Altri eunuchi portarono due ceppi di legno e un'ascia, e li posizionarono al centro della sala. Poi fecero inginocchiare Avidan e Fidan.

"Avevano già tutto bello e pronto dietro le quinte, per il loro spettacolino" pensò Caleb.

Akhad Bey parlò nuovamente: «prima ti faremo vedere come tuo figlio diventa un eunuco. Poi faremo tagliare la testa dell'altro tuo figlio e faremo uscire dal suo corpo tutto il sangue impuro di infedele.»

Fidan a questo punto aveva smesso di ghignare: si stava pisciando addosso.

I servi portarono acqua e riempirono una vasca di rame. Poi, con grande stupore dei lenvari, due di loro buttarono due secchiate di ghiaccio triturato, fatti arrivare da chissà quale angolo del mondo, dritti nella vasca. Spogliarono Caleb completamente e lo fecero stare in piedi nell'acqua gelata. Il ragazzo rabbrividì mentre osservava il padre.

«Ti consiglio di sederti giù nell'acqua fredda. Molto sangue esce quando si taglia: il freddo aiuta a fermarlo» disse Akhad Bey al giovane.

Caleb riservò al padre uno sguardo della stessa temperatura dell'acqua. Avidan non lo osservava.

«Dunque sei sicuro che non il hai denaro per pagare il riscatto?» disse Akhad Bey.

Il castratore si avvicinò con i suoi strumenti di metallo scuro, ben più impressionanti della già malsana idea di sterilizzare qualcuno.

Avidan ribadì il silenzio. Caleb fu legato mani e piedi. Il padre infine gli diede un'occhiata che Caleb non seppe interpretare e poi rimise guardò fisso davanti a sé.

Il castratore arroventò il coltello su una fiamma, lentamente, passando entrambe le facce della lama in maniera rituale. Attorno, gli eunuchi intonavano un canto lugubre che fece rizzare a Caleb tutti i peli del corpo. Era una nenia profonda, bassa, imponente e spaventosa, ma c'era della sacralità in essa.

«Tu combatti bene; sopporta il dolore con coraggio» disse Akhad Bey.

Il coltello si avvicinò. E ci fu un urlo.


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