Cap. 7: la sfortuna è un uccello che gira intorno al culo più vicino.

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Giorno 97
L'ex palazzo Imperiale della Città di Dreniane

«Dove si va?» chiese Caleb.

«Tu scemo: tu ora impara» rispose l'eunuco.

«Yusul... se io sono scemo, allora tu sei il mio Sultano» disse Caleb con un inchino.

L'eunuco dalla pelle nera scattò avanti per agguantarlo, ma Caleb era più agile. Yusul lo inseguì per qualche minuto, poi si fermò ansimando, piegato in due. Si asciugò il sudore sulla fronte con un lembo della fascia che portava sotto la cinta, maledicendolo.

Caleb lo osservò: doveva avere quasi quarant'anni. Era nero, grasso e peloso come un cinghiale. Non parlava bene la lingua malica che si parlava a Khalim, quindi dovevano averlo catturato chissà in quale oscura foresta tropicale o deserto sconfinato.

«Scemo: tu viene con me o io fa frustare» ribadì Yusul.

Mentre camminavano nella penombra dei corridoi di pietra color ocra, Caleb pensava ancora alla grande sala dov'era stato immerso nella tinozza di acqua ghiacciata. Ancora non poteva credere che fosse successo. Non aveva più visto il padre né Fidan, da allora. Sperava fossero morti entrambi.

Infine, superarono un'ampia arcata e la luce del giorno lo accecò. Avanzò senza riuscire a vedere e improvvisamente sentì i granelli di sabbia infilarsi nei calzari. Appena gli occhi si abituarono alla luce, vide i gradoni di un antico anfiteatro sabano ormai mezzo in rovina: ciuffi di erbacce spuntavano dappertutto e le pietre erano sbeccate e sporche. Akhad Bey torreggiava in piedi sotto il sole cocente, su quello che una volta doveva essere il palco per le autorità. Era vestito con una tunica bianca che ricopriva in parte un'armatura lamellare dorata: portava il suo solito candido turbante e nonostante fosse vestito pesantemente, neanche una goccia di sudore gli bagnava la fronte, non traspariva nessun disturbo a stare sotto il sole.

«Che cazzo sta succedendo, Yusul?»

«Bey dice tu combatte bene e Sultano vedere se vero.»

«Oggi noi vede te come combatte» disse Akhad Bey, in un precario sabano.

«Dovreste andare entrambi a scuola di lingue» rispose Caleb in malico, indicando Yusul con un cenno del capo. Del Sultano nessuna traccia: ancora una volta il Bey parlava come se fosse lui in persona, investito della sua autorità.

«Tu ora riderai di meno» disse Akhad Bey. E fece un ampio gesto con la mano.

Dall'arcata di fronte, uscì un prigioniero scortato da due guardie: Caleb capì subito. Due spade khalimiche erano state piantate nel terreno in mezzo all'arena; l'unica cosa di colore diverso dal giallo della sabbia, che dipingevano di nero con le loro ombre curve.

«Fino all'ultimo sangue» gridò Akhad Bey.

Due spade nuovamente, come sul ponte della Matrona. Di nuovo un vincitore e un vinto: e non ci sarebbero state intrusioni, stavolta.

Yusul diede a Caleb uno spintone: lo stesso trattamento fu riservato al suo avversario. Mentre si avvicinava alle spade, Caleb vide i suoi tratti: pelle chiara, capelli castani. Era abbronzato: forse era un agricoltore o più probabilmente un marinaio.

I due si fermarono di fronte alle spade, guardandosi con gli occhi ridotti a fessure per la forte luce.

«Da dove vieni? Di dove sei?» gli disse l'altro. A sentire che parlava il volgare del Sud come lui, Caleb si morse il labbro: l'accento era lenvare. "Brutti stronzi: vogliono vedere se ho il fegato di far fuori un compaesano", pensò Caleb.

Caleb SigàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora