Ira. La Sindrome di Didone (V...

Av ChristinaMikaelson

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"Perché io sono un bamboo e tu sei il vento che mi fa oscillare ma non mi spezza" Volume 3. N.B: è necessario... Mer

Premessa 🏛🏛🏛
Dedica
Prologo (Non editato)
1. (Non editato)
2. [1/2] (Non editato)
2. [2/2] (Non editato)
3. (Non editato)
4. (Non editato)
5. (Non editato)
7. [1/2] (Non editato)
7. [2/2] (Non editato)
8. (Non editato)
9. (Non editato)
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12. [2/2] (Non editato)

6. (Non editato)

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Av ChristinaMikaelson



All'arrivo in hotel, cominciarono a scendere in fila ordinata dal pullman e a raccogliere i propri bagagli.

L'edificio era composto da otto piani più la terrazza e si ergeva nel bel mezzo de La Rambla, il viale più popolare di Barcellona. Nonostante fossero le undici e mezza di sera, le auto sfrecciavano sulle strade e le persone passeggiavano facendo baccano come se fosse ora di punta.

Cat rimase impressionata dalla folla ammassata lungo la via, dalla vivacità dei suoi colori e dai volti che la animavano: statue viventi, musicisti, mimi, cartomanti, fiorai e venditori ambulanti.

Vi aveva appena messo piede, eppure quella città aveva qualcosa di magico, era come se potesse percepirlo nel pulviscolo atmosferico.

Seppur al buio, riuscì a scorgere da lontano la facciata ondulata di una delle famose architetture di Gaudí.

Non vedeva l'ora di poter ammirare alla luce del giorno tutto ciò che in quel momento poteva avere solo una vaga idea di quanto fosse bello.

Un profumo familiare la obbligò a ritornare alla realtà, bruciandole quasi i setti nasali. Quell'aroma era diventato un gas tossico dal quale avrebbe dovuto ripararsi.

Pregò che evaporasse in fretta o che almeno si mischiasse ai numerosi odori che la circondavano, invece continuava a essere perfettamente distinguibile, incancellabile, l'unico a prevalere su tutti. Lui era a due passi da lei, aveva preso la propria valigia e la stava guardando.

Non aveva bisogno di vederlo per saperlo, percepiva la violenza del suo sguardo sulla propria pelle, le doleva come se la stesse squarciando con i suoi occhi a forma di pugnale.

Non guardarlo. Non guardarlo.

Doveva resistere solo per qualche altro secondo e lui si sarebbe dissolto insieme al suo profumo. Si aggrappò al manico del trolley con gli occhi serrati, come se così potesse sopportare meglio quel malessere, mentre sentiva in un suono ovattato il professore De Santis sgridare uno dei suoi compagni per aver fatto cadere fuori dal bagagliaio del pullman una serie di valigie.

Ma il profumo divenne sempre più incombente e il suo cuore smise di battere, nel momento in cui le sue braccia le avvolsero la vita in una stretta che non aveva nulla di affettuoso, men che meno di passionale.

Non c'era calore in quell'abbraccio, i muscoli di Adriano erano dei pezzi di legno, il suo corpo stava ritratto all'indietro, quasi temesse di poterlo infettare sfiorando quello di lei.

Sembrava composto di lame, le sentiva tutte infilzate nella propria schiena.

Le sue braccia, che lei aveva reputato il luogo più sicuro e accogliente del mondo, erano diventate inospitali come la Siberia.

Cat trattenne il fiato come quando in piscina era costretta a fare cinquanta metri in subacquea, rimase in apnea per impedirsi di respirarlo, cercando di combattere il bisogno di riemergere in superficie. Non avrebbe reagito da codarda, mai. Sarebbe rimasta impassibile a qualsiasi tortura, anche se si fosse trattato di baciarlo per finta.

Dio, perfino se mi buttasse su un letto e mi spogliasse non lo degnerei di un singolo sentimento.

Non poté però impedire al proprio corpo di reagire, quando le riempì l'orecchio del suo alito alla menta: sobbalzò come se qualcuno le avesse dato la scossa.

Avrebbe voluto non provare quei brividi in sua presenza, perché a causarglieli era lo stesso corpo, ma non lo stesso ragazzo.

Si era creata questo angolino sicuro nella mente in cui nascondersi, dove lo immaginava come il tramite di un altro individuo e trovava più sopportabile convivere con la sua mancanza.

Non è lui.

Adriano è morto.

Non è lui.

Lo ha ucciso e si è impossessato del suo corpo.

«Non esaltarti, non ti sto toccando perché mi va» ci tenne a precisare con fare sprezzante. Era solo una scusa per parlarle senza destare sospetti. Si odiò per non essere stata in grado di restare immobile e avergli dato la certezza di aver provato qualcosa attraverso quel contatto.

«Cosa non hai capito del fatto che mi fai schifo?» gli rimarcò aspra, le dita che formicolavano per l'esasperante impulso di colpirlo. Come poteva anche solo insinuare che la cosa la esaltasse? Provava vergogna per le sensazioni che le sue mani le suscitavano, perché non erano soltanto di rabbia, ma anche di lussuria. Odiava che si assemblassero ai suoi fianchi come delle parti meccaniche che non avrebbero potuto funzionare senza fondersi insieme.

La presa sulla vita si fece più salda, cosa che non aveva molto senso, poiché lei non si stava divincolando.

Chiuse gli occhi e rivide la foga con cui l'aveva afferrata per quegli stessi fianchi e spinta contro il muro, a testimoniare che quelle mani, che ora le trasmettevano solo gelo, sarebbero state ancora in grado di sprigionare fuoco se il loro proprietario lo avesse voluto, se l'avesse ritenuta all'altezza di ricevere quelle fiamme.

"Voglio entrarti dentro" le aveva bisbigliato ansante, dopo averle fatto perdere il lume della ragione con i suoi baci famelici. Le aveva artigliato il viso e aveva premuto la fronte contro la sua in uno strano impeto.

Dapprima si era convinta che si riferisse a qualcosa di fisico, poi si era chiesta se piuttosto non alludesse a quell'istante, al suo bisogno disperato di imprimerglielo dentro.

Adesso, invece, era arrivata alla conclusione che si trattava di uno dei suoi soliti deliri di onnipotenza.

Voleva entrarle dentro, sì, ma per distruggerla dall'interno. Per invaderla, conquistarla, sterminarla.

Si era insinuato dentro di lei con l'inganno, come un infido cavallo di Troia, un virus camuffato da panacea che le aveva fritto ogni circuito. Si chiese se non le avesse somministrato piccole dosi di veleno ogni volta che le sue labbra l'avevano toccata, proprio per condannarla a una morte lenta e straziante.

«Perché non la facciamo finita subito con questa pagliacciata? Ormai Leo lo sa. Potete finalmente cavalcare verso il tramonto, che senso ha aspettare?» Il timbro era irridente, glaciale e controllato come in aereo, eppure Cat colse una novità.

C'era stata una vibrazione sospetta nel momento in cui aveva pronunciato il nome di Leonardo. Una sua corda vocale si era rifiutata di suonare allo stesso modo delle altre, si era spezzata, facendo trapelare un sentimento di rabbia.

La rabbia era la sua unica possibilità, avrebbe potuto fare perno su quella per distruggerlo.

Vuol dire che sei ancora lì dentro, Adriano. Dammi un altro segno.

Si girò per guardarlo in viso, voleva sapere se avrebbe visto anche nei suoi occhi una luce diversa.

Li dividevano una manciata di millimetri, ogni sua cellula si tendeva verso di lui, poteva quasi vederle proiettarsi fuori dal suo corpo e allungarsi come delle mani invisibili per afferrarlo.

Doveva fare almeno un tentativo.

«Hai ragione. Ma per quanto io stia morendo dalla voglia di chiudermi in una camera con lui e farmi scopare così forte da rompere la testiera del letto, ha appena rotto con Bea e non posso farle questo. Devi continuare a farmi da ruota di scorta ancora per un po'» sorrise astuta, decisa a scatenare l'unico sentimento che credeva di aver percepito in lui.

Arrabbiati, insultami.

Non aveva mai bramato l'ira di qualcuno come se fosse la sola cosa capace di farla respirare. La desiderava con la stessa ferocia con cui un prigioniero sognava la libertà.

Le iridi di Adriano non sembravano nemmeno vive, erano fisse nelle sue, immobili e artificiali, come se gli avessero rubato l'anima. Sentì una delle sue mani lasciarle il fianco e nel giro di un attimo se la ritrovò stretta attorno al mento.

Cat non si scompose di un centimetro, continuò a fissarlo negli occhi con determinazione, ordinando al cuore di rallentare i battiti. Lei era più forte di quello stupido organo che occupava spazio inutilmente dentro il suo petto.

Avrebbe potuto usare quello spazio per conservarci una bomba da innescare all'istante se si fosse azzardato di nuovo a toccarla, per esempio. Adriano piegò le labbra in quello che doveva essere un sorriso divertito, ma Cat lo giudicò solo un trattino orizzontale disegnato su un blocco di cemento.

«Dimmi una cosa, sono curioso: fingere che ti importi davvero qualcosa della tua amica o di chiunque altro all'infuori di te stessa ti fa dormire più serena la notte?» le sussurrò suadente, spostando per la prima volta lo sguardo sulle sue labbra. Aumentò la forza con cui le stava stringendo il viso e ripiantò subito gli occhi dentro i suoi, quasi volesse riprendere la rotta di una nave finita in balìa di una tempesta.

Lei assunse un'aria ricolma di superbia.

«Devi esserti confuso, Greco. Sei talmente abituato a parlare di te che nemmeno te ne accorgi di dover cambiare soggetto ogni tanto» lo sbeffeggiò.

Fuori si mostrò impassibile, ma dentro, quella sua frase le aveva attorcigliato le budella. Le erano tornate in mente le parole che Micaela le aveva sputato addosso nella loro ultima telefonata. Anche la sua migliore amica la pensava come lui, ed era preoccupante.

C'era una parte di lei che temeva avessero ragione e le faceva accapponare la pelle.

Sentì il pollice di Adriano muoversi verso il labbro inferiore e poi ritrarsi per tornare al suo posto. Fu un movimento impercettibile, un riflesso che Cat pensò di aver immaginato, dato che lui le liberò il mento in un gesto brusco.

«Io non ho bisogno di fingere, Farnesi. Non ho nessun problema ad ammettere che non mi importa un cazzo di nessuno.»

Non è vero, Adriano. Lo sai che non è vero.

"Voglio che mi guardi mentre non me ne frega un cazzo", la gola le pulsò da morire a quel ricordo, la colse una disperata voglia di piangere, perché avrebbe tanto voluto godersi quell'Adriano di più, quando era ancora vivo.

Era vero che ci si accorgeva del reale valore di qualcuno solo dopo che lo si perdeva.

«Ehi, voi due, non è questo il momento di amoreggiare» li redarguì bonariamente De Santis, indicandogli le porte automatiche scorrevoli oltre le quali il resto della scolaresca stava passando attraverso. Il biondo non perse tempo a cogliere il suo suggerimento e a darle la schiena.

«Adriano» lo chiamò, sopraffatta dalla tentazione di porgergli una domanda che l'assillava da quando lo aveva incontrato in aeroporto. Il ragazzo si girò in modo repentino a un passo dalle porte, forse sorpreso di sentire il proprio nome uscire dalle sue labbra con quel tono pregno di malinconia.

Mi manchi, in un modo così lancinante che soltanto adesso capisco per la prima volta cosa significhi davvero la mancanza.

È come un buco, un vuoto che riesci a riempire solo in parte e mai del tutto.

Cerchi di tapparlo, di nasconderlo, ma nessuna forma coincide alla perfezione, nessuna dimensione per quanto simile risulta adatta, e così quel maledetto spiffero resta lì, a impedirti di sentirti completo e a rinfacciarti che ti mancherà sempre qualcosa per esserlo.

«Perché non porti più gli occhiali?» Per Cat fu dura tenere a bada l'amarezza. Aveva affibbiato agli occhiali un significato intrinseco, quasi la loro assenza rappresentasse già una prova del cambiamento d'identità di Adriano. Con era Clark Kent, senza Superman.

Superman aveva bisogno di Clark Kent, aveva bisogno del suo lato terrestre per non dimenticarsi chi era, per ricordarsi che anche lui era un uomo e non un eroe invincibile venuto da un altro pianeta.

«Non mi fanno sentire me stesso» Scrollò le spalle lui, dando l'impressione di aver risposto con la prima cosa che gli era capitata. Adriano parlava per codici, attraverso frasi dette a metà o non dette proprio, espressioni che non erano espressioni, e lei sentiva di star perdendo il senno nello sforzo di decodificarle.

E qual è il tuo vero te stesso, Adriano?

C'è ancora in te un briciolo del ragazzo che mi ha letto l'Eneide prima di addormentarmi? C'è mai stato o era una recita anche quella?

Sei convinto di dover uccidere Clark Kent per essere Superman? Perché non puoi essere entrambi?

Avrebbe voluto essere debole per sopprimere il proprio orgoglio e supplicarlo di tornare a essere il ragazzo della foto scattata a casa sua, però sapeva che sarebbe arrivata a uccidersi per impedirselo.

Non avrebbe supplicato nemmeno di fronte alla Morte in persona per farsi risparmiare la vita, figurarsi se si fosse abbassata a pregare Adriano di tornare da lei.

Non avrebbe lasciato che le portasse via altri pezzi di sé, non sarebbe mai stato il centro del suo mondo, non quando in esso vi erano cose molto più importanti per cui valeva la pena vivere.

Sarebbe stato un peccato mortale non goderne a causa di un mentecatto.

Lanciò un'ultima occhiata alla Rambla brulicante di vita, prima di seguire il biondo dentro l'albergo. Se credeva che avrebbe trascorso quella settimana a farsi il sangue amaro per lui si sbagliava di grosso.

Mi spezzerò, non mi piegherò.

Fortsett å les

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