Area 3-13

By PaolaFerrero9

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All'inizio erano solo John e Jane, due perfetti sconosciuti ritrovati in una zona di contagio. Infetti ma non... More

Fuoco
Sole
Musica
Azione
Sesso
Dopo
Mesi
Alba
Jack
Ancora
Vicino
Allerta
Soli
Recupero
Tramonto
Squadre
Arte
Sorprese
Immagini
Appendice 1 - Colonna sonora
Jill
Rivelazione
Voci
Junior
Rischi
John
Sogno
Lacrime
Memoria
Imbrunire
Incubi
Aurora
Battaglia
Chiusura
Inverno
Rientri
Caduta
Dolore
Tramonto II
Pensieri
Lontano
Contatto
Rabbia
Adam
Via
Arrivo
Appendice 2 - Mid-fazione
Avanti
Labirinto
Devon
Pattuglia
Joanne
Addii
Caldo
Lauren
Gocce
Schegge

Notte

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By PaolaFerrero9


A Jack, ovunque sia,

e a Tersicore,

che fa danzare i miei sogni.

P.




Prima Parte



Atlanta, un futuro prossimo...





Dalla finestra della stanza, attraverso i pannelli fotopolarizzanti orientabili, il bagliore giallo dei lampioni tagliava l'aria scura. Il letto era illuminato da una pallida lampadina, mentre fuori la luce brillava della vita frenetica della base.

La donna al centro del letto era immobile, collegata a flebo e cavi, circondata da monitor di ogni tipo che registravano segni sempre più deboli di vita. Gli occhi si muovevano veloci sotto le palpebre e così pure sembravano scattare i nervi delle mani, unici particolari a tradire la calma apparente di quel luogo. Ai piedi del letto, una cartella attribuiva alla donna il nome fittizio di Jane Doe; come a dire che lei, in realtà, non esisteva affatto.

Lì accanto, dietro al vetro che separava le stanze, due uomini erano intenti a osservare le immagini trasmesse dalla paziente ai monitor: Jane Doe, attraverso la mente, stava indicando loro dove dirigersi. Una squadra si stava già muovendo verso l'obiettivo. La caccia era nel suo pieno svolgimento, c'erano uomini e donne da salvare.


Nel grattacielo della Corporate la festa era al suo culmine. Dopo un discorso condito di tutta la retorica e ogni dettaglio tecnico possibile, tenuto dal direttore scientifico della multinazionale - una delle più importanti aziende farmaceutiche del pianeta - era stato servito ogni ben di dio, cibo e bevande in quantità. Ora uomini e donne di età diverse ma egualmente ben vestiti ballavano, parlavano, bevevano e si divertivano.

C'erano a disposizione tutti gli uffici del piano, riadattati per concedere agli ospiti della presentazione dell'anno una serata indimenticabile. Gli invitati erano un numero imprecisato, calcolando anche chi era riuscito a imbucarsi potevano esserci almeno duecento persone, o così sembrava alla ragazza.

Micaela Warren era stata mandata dai suoi datori di lavoro, troppo impegnati per andare a una festa a rappresentare uno degli studi legali più importanti di Atlanta. Una bella ragazza fa sempre buona impressione e certo si sarebbero ricordati della sua presenza; il resto non era fondamentale.

Aveva bevuto parecchio per combattere la noia, tanto non doveva fare altro che consegnare il plico riservato a ogni partecipante contenente i dettagli legali dell'operazione. Tutto sommato poteva trattare la serata come una specie di vacanza premio. Era stata lontana dalla droga. Sapeva che ne sarebbe girata parecchia, come spesso accadeva in feste come quella, ma era abituata a non consumarne e a concedersi un solo vizio "da stordimento": vino rosso o champagne, in occasioni del genere erano più che sufficienti.

Vagava da una sala all'altra, stanca per aver ballato fino a poco prima. Voleva farsi un'idea di quanto fosse grande quel posto, di quanta gente ci fosse e di quante persone che conosceva avrebbe colto in momenti imbarazzanti. La vista era un po' annebbiata, faceva caldo e una strana euforia la stava contagiando, come l'arrivo improvviso della primavera.

Passò attraverso una stanza in cui i tavoli imbanditi erano ancora stracolmi di cibo, riempiti ogni volta che serviva da attenti camerieri del catering. Le pareti color ocra rendevano caldo l'ambiente, tutto metallo, legno e vetro. Le tovaglie bianche quasi scomparivano sotto ai vassoi e alle zuppiere. C'era ancora gente che mangiava, nonostante l'ora e il caldo.

Decisamente troppo caldo.

Micaela si tolse il cardigan e slacciò appena la camicetta, già abbondantemente aperta sui seni, tanto non ci avrebbe fatto caso nessuno e intorno a lei c'era gente meno vestita. Lasciò il suo golfino in mano a un cameriere, apparso come per magia al suo fianco, raccomandando che lo portasse al guardaroba a suo nome. La festa era davvero ben organizzata e forse aveva bevuto troppo. Non le capitava spesso e aveva anche cercato di farci attenzione; non voleva che qualcuno se ne lamentasse con il suo ufficio.

Percorse un corridoio. Le luci ambrate piovevano dal soffitto, come ad avvolgere chi vi passava attraverso, poi lentamente percepì una melodia sensuale appena accennata, non la musica forte che aveva ballato fino a poco prima. C'era sicuramente un "privé", una sala in cui appartarsi, ormai c'erano ovunque. Se ne sentì attratta, in fondo le sue ultime relazioni erano state deludenti, non sarebbe successo nulla se si fosse divertita un po' anche lei. Era ora che lo facesse.

Trovò la stanza, dietro a una vetrata più scura che la separava in parte dal resto della festa. La porta, anch'essa di vetro, era aperta. Invitava.

Al suo interno, figure si muovevano nella tenue luce gialla che era il leitmotiv della serata. Tutto coperto d'oro, di ambra, di preziosi riflessi. Più in là c'erano un tavolo da biliardo, divanetti e poltrone tutte dello stesso colore e forma. Posti accoglienti su cui si stava consumando il più dolce dei peccati.

Micaela sentì un brivido. Alcuni invitati li riconosceva, avevano scambiato parole inutili durante il buffet, quelle frasi e discorsi che nessuno ha modo di ricordare nemmeno dopo un'ora. Infatti, lei ricordava appena di aver parlato con quel giovane decisamente carino che ora stava facendosi strada tra le gambe di una bellissima ragazza mentre un'altra lo accarezzava in modo provocante. Il tavolo da biliardo era diventato una specie di letto su cui una massa di individui ondeggiava semivestita. Micaela non voleva fissare nessuno, si sentiva eccitata e incuriosita da quelle persone, ma non voleva infastidire coloro che già si divertivano. Desiderava un incontro meraviglioso e casuale di cui ricordarsi l'indomani.

Ai lati della porta da cui era appena entrata, notò due pilastri di canne e spighe, corde e nastri d'oro: una decorazione in tema con la serata. Sentiva la gente muoversi davanti a lei mentre camminava lentamente verso il centro della sala e percepiva un odore particolare, di cui non afferrava l'essenza. La luce sembrava più fioca... Forse era l'effetto del caldo misto all'alcol.

E lui era lì, una visione. Micaela restò a bocca aperta. A pochi metri da lei, un giovane la fissava: un bel ragazzo alto e ben piazzato, con spalle degne di un nuotatore, la camicia bianca aperta sul petto liscio e armonicamente muscoloso (quel tanto che basta per non sembrare un uomo di plastica). I capelli mossi di un nero corvino che poteva riprendere il colore della notte, abbaglianti riflessi d'argento, circondavano un viso magnetico. Occhi chiari, sembrava da quella distanza, il naso dritto e proporzionato, una bella bocca con labbra ben disegnate, pelle scura, ciglia lunghe e un fare provocante. Lui la fissava dritto negli occhi, chiamandola.

Micaela fece un altro passo, poi uno ancora. Si fermò: doveva veramente accettare quell'invito? Era difficile rinunciare, ma di colpo percepì una sensazione di disagio; pensò all'effetto dell'alcol. Barcollò appena, prima di riprendere la via verso quella visione: lui non distoglieva l'attenzione da lei. Era splendido, più gli si avvicinava e più lo vedeva nei particolari. Non sembrava esserci anima viva insieme a loro, eppure lei ancora sentiva muoversi e sospirare gli altri; sussurri di piacere, a volte gemiti, parole sussurrate nelle orecchie.

Lo raggiunse. Lui, con voce calda e morbida, la salutò e le disse che la stava aspettando. Micaela pensò a uno scherzo o a una frase stupida usata come corteggiamento, una stonatura. Lui allungò una mano fino ad accarezzarle il viso. Le disse il suo nome, David, ma Micaela non ne era così sicura e non importava, ora che la sua mano le sfiorava la pelle in quel modo...

Con un gesto delicato, mentre lei cercava di riprendersi da quella sensazione di stordimento, David la tirò a sé. Oscillò al suono della musica, mentre il corpo di lei si abbandonava al suo. Micaela si sentì invadere da un caldo tremendo e si rese conto di avere voglia di sesso, come tutti gli altri lì dentro. In ogni caso si lasciò cullare tra le braccia di David, aspettando il passo successivo di quel sogno. Il suo odore era inebriante, quasi la stordiva. Lui si chinò a baciarla. Un bacio appassionato, dolce, sensuale, che prometteva cose inimmaginabili. Micaela rispose a quel gesto con trasporto e inaspettato coinvolgimento, poi di colpo si staccò da lui. David le fece cenno di seguirlo, verso un angolo buio della sala.

Fu in quel momento che a Micaela parve di vedere la realtà cambiare aspetto, solo per un attimo. Frammenti di secondi che le fecero intravedere qualcosa che strideva, qualcosa che però non riusciva a decifrare. David la chiamò.

Di nuovo, appena un passo più avanti, le sembrò che la realtà vacillasse. Un istante soltanto, come negli incubi, ma tutto era bello e normalissimo. Si stavano divertendo, lei aveva incontrato un uomo, uno che non riusciva a staccare gli occhi dai suoi... Si fermò ancora.

Lui tese una mano, invitandola.

Il volto di David era bellissimo e seducente, ma abbassò lo sguardo notando una mano bianca, sottile, con unghie lunghe e scure. Chiuse gli occhi: doveva riprendersi, non poteva permettere all'alcol di rovinarle la serata. Quando li riaprì tutto era normale. Fece per muoversi ma, come in un lampo di luci stroboscopiche, ciò che vedeva cambiava forma a intermittenza.

Al posto del ragazzo che la chiamava c'era una figura mostruosa dalla forma umana e occhi scuri. Lei si guardò intorno, di certo stava dando i numeri. O aveva bevuto troppo o le avevano messo qualcosa nel bicchiere, sicuro. Tra gli invitati, altre creature vestite di nero sostituivano alcune delle persone che lei aveva visto entrando.

Quella che era la magnifica ragazza sul divanetto si trasformava in una creatura orribile; entrambe le ragazze chine sul giovane lo erano. Lui sembrava non vederle, era intento a baciarne una in modo lascivo mentre l'altra era piegata su di lui e gli leccava il torace glabro e imperlato di sudore. Anche il tavolo era diventato una visione agghiacciante: creature, uomini e donne si mischiavano in un'orgia di corpi in movimento che sembravano banchettare mentre gli altri, quelli normali, parevano godere di rapporti sessuali inesistenti. Lei tornò con lo sguardo a David, che rimaneva umano solo qualche istante, in un gioco di flash alternati che la facevano impazzire.

Fu allora che Micaela cominciò a urlare.

Inizialmente, nessuno ci fece caso. Solo il bel ragazzo la fissava con occhi predatori, insondabili, fatti di sola pupilla color nero intenso, torcendo le labbra altrettanto scure ma quasi inesistenti in una smorfia di disgusto. Lei era paralizzata; non si mosse finché lui non cominciò lentamente ad avvicinarsi, poi la voce le mancò. Quello che vedeva non era possibile. Era tremendo e schifoso, e impossibile.

Cominciò a indietreggiare, guardandosi attorno. Alcuni dei mostri avevano alzato le bocche dal loro pasto e la stavano fissando. In qualche modo, sembravano comunicare tra loro senza emettere suono. Micaela pensò di non avere scampo quando realizzò che oltre a quelle creature nessuno sembrava averla sentita. Cercò di riprendere fiato, con le gambe che tremavano e il cuore che voleva abbandonare la cassa toracica.

I normali, quelli che avevano mangiato con lei alla festa, ora erano imbambolati nelle loro posizioni, nemmeno l'espressione contrariata di chi è stato interrotto nel bel mezzo di un'ammucchiata grandiosa. Erano tutti fermi, pallidi e con lo sguardo fisso nel vuoto - anzi, non proprio, perché guardavano Micaela senza vederla. Come dei pupazzi: assenti.

Le tempie le scoppiavano, continuava a indietreggiare senza speranza e a tentare di arrivare alla porta senza cadere, invasa dall'effetto di una visione stroboscopica che rendeva i movimenti di quei mostri estremamente lenti e allo stesso tempo mutevoli: da bellissimi uomini e donne a figure terrificanti, e il contrario. Non riusciva a muovere le gambe più in fretta, i pochi metri che la separavano dalla porta sembravano allungarsi sempre più.

L'uomo che la chiamava stava muovendo le labbra, ma lei non sentiva suoni oltre al suo tentativo di gridare ancora. Solo una vocina che le diceva che andava tutto bene, sottile, si faceva strada nella sua mente.

Micaela non ci credeva nemmeno un po'. Non poteva andare bene.

Niente andava bene.



La squadra mandata dalla base era sul posto, dovevano solo salire.

All'ospedale, Jane Doe spalancò gli occhi con un gemito: occhi bianchi, infetti. La cura non aveva fatto effetto, avevano solo potuto sfruttare le sue capacità fino all'ultimo. Uno dei medici entrò nella stanza e controllò i pochi monitor che non avevano un ripetitore nella camera accanto. Dopo aver scosso la testa, abbassò la levetta e lasciò che il liquido sospeso accanto alla flebo entrasse in circolo.

Afferrò il telefono e, mentre spegneva uno a uno i monitor e gli apparecchi presenti, comunicò.

«Non ce l'ha fatta... »

Riagganciò, coprì il viso della loro prima sopravvissuta e la lasciò a chi avrebbe finito il lavoro, fatto l'autopsia ed eliminato il corpo in modo definitivo e asettico.

Triste che il loro primo cenno di speranza fosse durato solo due anni. La prima donna arrivata con i segni di infezione, che ne era guarita e li aveva aiutati a combattere. La prima vera sconosciuta della base, una donna che non sapeva chi era stata prima di essere Jane Doe.



Nel grattacielo Corporate, intanto, Micaela cercava di riprendersi dallo choc e tentare una reazione. La sua mente non accettava quello che gli occhi continuavano a mostrarle, confuso e altalenante specchio della realtà. Era arrivata quasi alla porta ma loro erano vicini: non tanto il leader, che doveva essere David, quanto quelli che occupavano divanetti e poltrone accanto a lei.

Non ce l'avrebbe mai fatta a uscire. Se anche fosse successo le erano addosso, l'avrebbero fermata entro pochi passi e lei non voleva certo dare loro le spalle per fuggire. Sebbene incutessero timore, voleva averli sempre sott'occhio.

Allungò una mano per capire quanto spazio ci fosse tra lei e la porta. Mano che una volta allungata si strinse su di una canna di bambù, lì per decorazione ma utile; fu una sorta di istinto primordiale a guidarla, nemmeno lei sapeva bene cosa farne. La roteò in aria e si preparò a difendersi. O a offendere, ancora meglio.

A mano a mano che le creature avanzavano, lei le colpiva con tutta la forza che aveva in corpo, cercando di non farsi disarmare. Era terrorizzata, ma non gridava più. Non aveva tempo.

La voce nella sua testa si faceva più insistente, mentre lentamente un brusio di più voci creava un nuovo e inquietante sottofondo. David voleva che lei lasciasse quell'arma improvvisata e si arrendesse all'abbraccio caldo e sensuale della visione che le martellava la mente. Lui cercava di mostrarsi ancora con quell'aspetto avvenente. Micaela incrociava il suo sguardo il meno possibile, non voleva cedere ora che aveva visto il suo vero volto. Agli altri, invece, sembrava non importasse più fingere. Non erano più belle ragazze e giovani aitanti, ma semplicemente incubi in forma umana, pallidi e scheletrici. Con delle vocine stridule e una lingua pressoché incomprensibile.

Colpì, affondò la canna dove poteva, la usò come una lancia, come un bastone, come qualsiasi cosa potesse offendere, ma era sola. Nessuno sembrava volerla aiutare. Dal poco che vedeva al di là dei suoi aggressori, tutti erano fermi lì dove i mostri li avevano lasciati; lo sguardo fisso su di lei senza espressione, il corpo molle, come senza volontà, ma vivi in apparenza.

Il bambù si spezzò, Micaela continuò a sferrare colpi finché le fu possibile: mentre uno dei nemici le stringeva una spalla, affondò la punta spezzata nel ventre di un altro come ultima disperata azione difensiva. Poi la presero. Sprofondò in un sogno sensuale, erotico, avvolgente.

C'erano uomini e donne, forse non particolarmente affascinanti ma desiderabili. Tutti la bramavano, la carezzavano con mani delicate, con passione. E lui, lui era lì, che le veniva incontro, sorridendo. Bello, coi suoi riflessi di stelle nei capelli e quel sorriso spavaldo, le ciglia folte che sbattevano sugli occhi chiari. E il suo profumo... David la voleva. Più di tutti gli altri.

Gliela lasciarono tra le braccia. Lui, più alto di lei di una spanna, dovette abbassarsi per baciarla di nuovo. Micaela sentì un lungo brivido di piacere attraversarle la schiena: nessuno l'aveva mai baciata così. Per un istante si rese conto che Lui non era umano. Cercò di sfuggire alla presa, poi dimenticò ogni cosa.


Gli uomini che arrivarono, si avventarono sui mostri davanti alla porta. Era semplice, visto che tutti stavano ammirando il loro capo che pasteggiava, o qualunque cosa facesse mentre infettava la ragazza.

Si accorsero subito che lei era speciale: si dimenava strenuamente come un'ossessa. Nessuno riusciva a resistere ai Persuasori, a meno che non fosse un Reagente o non si fosse iniettato una dose di STP6 da pochi minuti, ma in quel caso non era certo possibile.

Uccisero a colpi d'arma da fuoco alcune creature, mentre David lasciava la presa e se ne andava in un lampo, prima che queste cominciassero a fuggire in ogni direzione, rigorosamente dopo di lui. Senza perdere tempo a inseguirli, gli uomini cominciarono a visitare ogni essere umano presente. Due di loro iniettarono un farmaco nel collo di Micaela e la portarono via di peso. Non era del tutto cosciente, ma era ancora decisamente umana.

«Non se ne è salvato neanche uno tranne questa, Troy».

«Siamo arrivati tardi, questi accidenti di grattacieli» Troy, che teneva Micaela, si fermò nel corridoio.

«Che facciamo?»

«Date fuoco a tutto, come al solito. Fate attenzione che le fiamme non si allarghino più del necessario. Deve sembrare un incidente» Troy se ne andò.

Come sempre, un incidente mortale. La popolazione non sapeva, non voleva e non doveva. La politica del silenzio aveva risparmiato il panico generale, anche se l'epidemia si andava diffondendo sempre più. La gente non voleva smettere di godersi la vita senza preoccupazioni.

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