Capitolo I

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Dall'altra parte della Frattura

13 Ottobre 1999

I Clarks erano una famiglia normale, in un quartiere normale, di una città normale. Solo che di normale non c'era proprio nulla.

La struttura in cui vivevano non era normale. Era un gigantesco palazzo con stanze ampie e dai soffitti alti, uno di quelli impossibili da riscaldare. C'erano dieci stanze da bagno sparse per i sei piani che la costituivano. Le stanze da letto sembravano infinite e un grosso salone per ogni piano rappresentava il luogo di ritrovo a seconda degli eventi.

Se la struttura era del tutto fuori dall'ordinario, le persone che la abitavano erano ancora più bizzarre. Ed erano un'infinità. Si notava subito, una volta varcato l'ingresso, dal vociare continuo a tutte le ore del giorno.

La famiglia Clarks non era normale. Affatto. E aveva uno dei doni più rari e interessanti di tutta Coda. I Clarks avevano i desideri. Quello che questa famiglia facesse -poi- di questo dono è tutta un'altra storia.

Tutti, dal primo all'ultimo, dei Clarks avevano i loro desideri realizzati. Con poche eccezioni. È vero, non potevano desiderare la morte di qualcuno e non potevano andare contro la natura delle cose, ma era comunque sufficiente per fare di loro una banda di viziati cronici, sempre alla ricerca di qualcosa in più e difficilmente accontentabili.

I peggiori erano i bambini. Ce n'erano 11 ed erano incredibilmente chiassosi. Non che gli adulti fossero particolarmente calmi: c'erano discussioni di continuo in un tumulto di fermacarte volanti e finestre rotte. Tanto poi bastava desiderare che venissero riparate.

Era un altro problema di quella famiglia: non dovevano aver a che fare con le conseguenze delle loro azioni praticamente mai. Questo li rendeva più spregiudicati che mai.

Certo, c'erano delle regole. C'era una Gerarchia solida.

Il capo famiglia impartiva ordini e stabiliva regole ferree e, essendo il più potente membro di quell'accozzaglia incasinata, le faceva rispettare sempre. Era l'unica cosa che teneva un po' di ordine. Un ordine strano, però, davvero poco giusto, pensava Cleo.

Ancora non aveva capito perché i suoi cugini potevano correre all'aria aperta, desiderare animali o armi giocattolo, mentre lei con le cugine era costretta a desiderare bambole e filo da cucito.

Non aveva ben chiaro nemmeno perché alle ragazze toccasse di imparare a desiderare solo in casa, preferibilmente in cucina, mentre i ragazzi potessero desiderare ovunque.

Questo piano piano, di generazione in generazione, stava sempre più indebolendo il potere all'interno dei geni femminili, rendendo di fatto le donne subordinate agli uomini.

Il fatto ancora più grave era, però, che in realtà Cleo non riusciva a desiderare affatto, neppure quel poco che era consentito al gentil sesso. E ormai si stava facendo grandicella.

Aveva passato l'intera vita a desiderare cose. A desiderare di essere altrove, a desiderare un po' di tranquillità. Poi, con il passare del tempo, aveva soltanto desiderato di desiderare con un'intensità fuori dal comune. E infine aveva semplicemente smesso.

Lo aveva capito: lei non funzionava.

Alla domanda "Che cosa desideri di più?" che gli ponevano nonne e zie, rispondeva sempre con un gioviale "Nulla, sto bene così", suscitando una sdegnosa preoccupazione nelle signore prima, e in tutta la famiglia poi.

Questa pressione costante intorno a lei era una tortura.

Cleo era diversa. Diversa dai cugini e da ogni altro membro della famiglia. Non capiva perché la cosa non andasse bene, perché secondo le regole dovessero essere tutti uguali, avere tutti quei modi esuberanti e avere mille e mille desideri. Capiva di non andare bene, però, e questo la faceva sentire sola e sbagliata. Ma come può una bambina essere sbagliata?

Il giorno che si accorse di essere diversa aveva sette anni. Era stata poco bene e uno di quei raffreddori fastidiosi si era impossessato delle sue piccole narici. Mentre gli altri dieci ragazzi si erano alzati ed erano stati portati nei rispettivi luoghi di istruzione a lei era concesso di restare in stanza, visto il malanno.

Era stata affidata alle cure di una delle bisnonne, quella più arzilla in effetti, che le aveva misurato la febbre con un termometro vecchio stile per tutta la mattina, dimenticandosi di continuo il risultato che dava l'aggeggio.

Per Cleo non fu un problema. In realtà quella era stata una delle mattinate migliori che avesse passato in vita sua. Aveva la stanza tutta per sé e un bel un po' di silenzio, interrotto solo dallo sferruzzare e dal costante "Ferma e buona!" urlato dalla nonnina che tutta impegnata a lavorare a maglia non alzava neppure la testa dai ferri e ripeteva la cantilena con una cadenza di una puntualità impressionante.

Cleo non comprese perché continuasse a ripeterlo: lei era "ferma e buona" e la cosa non le dispiaceva affatto. La verità era che quella donnina era così abituata ad avere a che fare con "quei mascalzoni dei tuoi cugini" come li chiamava lei, che ormai riprendeva i bambini in automatico.

Quella quiete, però, permetteva a Cleo di pensare e dare sfogo alla sua immaginazione.

L'anziana donna stava facendo una sciarpa rosa, le disse e se fosse stata brava gliel'avrebbe regalata.

Quando per la quinta volta la vecchina si alzò per controllare il termometro, vide la bambina tutta assorta e attribuì alla promessa della sciarpa il suo temperamento calmo.

Cleo, invece, era immersa in un mondo di colori: vedeva lilla, blu e verdi smeraldo. Finché non si immaginò con una sciarpa al collo, quella che sua nonna stava lavorando. Il rosa però a Cleo proprio non andava giù e immaginò un altro colore: era stufa di quel rosa degli abiti smessi delle cugine che le veniva appioppato addosso, come se una ragazza non potesse indossare altri colori!

Immaginò la sua sciarpa del blu più acceso, un colore sgargiante e impossibile da dimenticare e immaginò fosse morbida e soffice e calda.

Riaprì gli occhi quando sentì la bisnonna sobbalzare mentre stringeva in mano il gomitolo di lana. Aveva cambiato colore ed era proprio del blu stupendo che Cleo aveva immaginato!

Cacciò un urlo «Anita, Anita! Corri!»

Si sentì un goffo scalpiccio su per le scale e poco dopo la figura tutt'altro che snella di zia Anita fece capolino dalla porta della stanza.

«Che c'è?» chiese ansimante.

«Guarda qui, guarda che ha fatto questa teppistella!» strillava mostrando alla donna il gomitolo blu che stringeva tra le mani.

«Non capisco nonna...»

«Ah non capisci? Questa lana era rosa! E delle più pregiate per giunta! Guarda qui, ora è di questo blu sciatto!»

La zia sgranò gli occhi e guardò la bambina che alla veneranda età di 8 anni aveva espresso il suo primo desiderio... o così pareva.

«Oh bambina! Finalmente! Temevamo fossi Versa! Oh ma che notizia, che notizia! Naturalmente non puoi indossare questo obbrobrio, non sarebbe appropriato, ma potrai tenerla come ricordo, magari.» Disse guardando la bambina con lacrime di commozione negli occhi castani. «Ma dimmi, cara, com'è andata? Hai desiderato che cambiasse colore?»

Cleo che non sapeva davvero che pensare disse solo «Ho immaginato forte di indossare quella sciarpa, e che fosse blu.»

«Ecco quindi che l'hai desiderata. Oh ma che gioia!»

A Cleo pareva, per la prima volta in vita sua, di aver fatto qualcosa di buono e il suo cuore palpitava felice, perciò si trattenne dal dire che non era proprio un desiderio il suo, d'altro canto che poteva saperne lei? Le sue zie, di certo molto più esperte, parevano capire bene cos'era successo e così pensò che avessero ragione.

«Oh corro giù a dirlo alle altre. Stasera si festeggerà!» affermò Anita e corse giù per le scale.

«Chissà da dove hai pescato questa robaccia, ladruncola!» borbottò la nonnina bisbetica subito dopo, «Sarà meglio per te che io ritrovi il mio pregiato gomitolo rosa.»

Neanche a dirlo, del gomitolo rosa non si seppe mai più nulla.

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