Capitolo otto

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«You want to stay alive, better do what you can, so beat it, just beat it» la mia voce stonata sovrasta la canzone che si propaga nell'abitacolo, facendo probabilmente rivoltare nella tomba Michael Jackson.

Dalla macchina accanto alla mia un signore muove in senso circolare un dito vicino alla tempia mentre una sfumatura di disgusto si mescola a quell'espressione perplessa che ha sul viso.

Con fatica, apro il finestrino e grido: «Buona giornata anche a lei!», alzo ancora di più il volume della musica e continuo a muovermi al volante finché non sento qualcuno suonare il clacson ininterrottamente dietro di me e il signore che mi ha dato della pazza attraverso i gesti, grida: «Muoviti, non sei in Flashdance, stai bloccando il traffico!»

Cerco di partire.
Il motore si è spento.

«No, ma dai!», un piagnucolio abbandona pigramente la mia bocca. «Perché sempre a me?», sussurro provando ancora una volta ad avviare il motore, dopo una serie di clacson impazziti, tutti dedicati a me.

Apro lo sportello ed esco fuori, con il tacco che per poco non affonda in una crepa sull'asfalto, lascio il motore acceso, e grido: «Sto partendo, sto partendo, un attimo!»

Ho aperto gli occhi alle sei, ho sorriso per tutto il tempo davanti alla tazza di caffè, mi sono preparata, e adesso arriverò al lavoro in anticipo. E tutto ciò è davvero un miracolo.  La frase di Kenneth non ha abbandonato la mia testa da ieri. L'ho perfino sognato mentre mi rimproverava per il ritardo. Ecco perché, almeno una volta nella mia vita, voglio fare le cose per bene e in modo professionale, e arrivare lì puntuale come orologio svizzero. Non un minuto in più, non un minuto in meno. È quello che ha detto.

Guido senza alcun intoppo fino al lavoro.
Scendo dalla macchina e stringo la borsetta con una mano, mentre con l'altra chiudo con forza la portiera, ma vedo l'aletta parasole staccarsi e pendere nuovamente all'ingiù.

«E allora vai al diavolo!», borbotto, puntando il dito verso l'auto. Il portiere, in cima alle scale, inclina il capo per guardarmi meglio.

«Ha bisogno d'aiuto?», chiede cordialmente.

«No, grazie», rispondo, tenendo strettamente la borsa sotto il braccio. Inizio a salire le scale ed entro nell'imponente edificio. Il suono dei miei tacchi si confonde al borbottio di alcuni dipendenti man mano che avanzo. Afferro il cellulare dalla borsetta e guardo attentamente l'ora, soffermandomi sui minuti e i secondi.

Sono le sette e cinquantasei.

Sorrido vittoriosa e contengo l'entusiasmo che vorrei far uscire sottoforma di applauso. Grande, Kendra!

La segretaria mi fissa imbambolata con il telefono appiccicato all'orecchio e la bocca mezza spalancata.

«Ha visto? Non sono scappata», affermo, gonfiando il petto con orgoglio.

«Non ancora», ribatte acidamente e gli angoli della bocca si sollevano soltanto per pochi secondi, in modo rigido.

Controllo di nuovo l'ora: sette e cinquantotto.

Inizio a fare avanti e indietro per un po', non trovando pace, poi scelgo di raggiungere il suo ufficio.
Rimango davanti alla porta immobile e inizio a contare i secondi con il cuore che batte all'impazzata.

Cinque.

Quattro.

Tre.

Due.

Uno.

Busso moderatamente in modo che mi senta. Né troppo forte da pensare "Mi sta buttando giù la porta", né troppo piano da non farmi sentire.

Boyfriend- Un ragazzo in prestitoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora