Capitolo diciannove

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FLASHBACK

Scesi dalla macchina correndo verso casa prima che mio padre potesse raggiungermi, entrai e corsi su per le scale piangendo disperata, ero completamente nel panico.

Chiusi la porta della mia stanza sbattendola forte, ma una volta dentro scoprì con mio grande orrore che la chiave non c'era più.

Corsi verso la scrivania dall'altro lato della stanza e inizia a spingerla verso la porta per bloccarla ma era troppo pesante per me, non feci in tempo.

Stephen entrò con un odio che non gli avevo mai visto stampato sul volto, si slacciò la cintura e con gesti che conoscevo fin troppo bene ne arrotolò un'estremità sulla mano destra per poi iniziare a colpirmi ferocemente.

Arrivò un momento in cui dalla mia bocca faticò ad uscire qualsiasi tipo di suono, si era sfogato su di me come mai aveva fatto prima di quel giorno, in quell'istante capii il dolore che provava William quando ancora abitava lì.

Mi aveva sempre risparmiata, ma non quella volta.

Il dolore era talmente forte che desideravo solamente svenire, ma non era abbastanza perché accadesse.

Avevo come l'impressione che il mio cuore si fosse rifugiato dentro la mia testa, ogni battito rimbombava nel cervello, colpi violenti come quelli su un tamburo.

Mia madre accucciata accanto a me piangeva spostandomi i capelli dal viso appoggiato sul pavimento.

Guardai le sue ciabatte, erano di un verde scuro con un disegnino rosso cucito davanti, allungai una mano e ne toccai una ripensando al Natale.

Erano ciabatte invernali e le aveva da anni, mi facevano pensare all'albero addobbato, ai regali, alla neve, al fuoco nel camino.

Mi prese in braccio e mi fece sdraiare sul letto dove iniziò a disinfettarmi le ferite aperte.

Era terrorizzata, quando mi tolse la maglietta iniziò a urlare, il viso era diventato completamente bianco, le gambe le cedettero e cadde a terra.

"DOBBIAMO PORTARLA ALL'OSPEDALE" gridò disperata, mio padre che era uscito dalla stanza tornò con gli occhi sgranati.

"Che cazzo stai dicendo brutta troia? All'ospedale? Ma che cosa dici? Diciamo che è caduta dalle scale? Non dire strozzate, sta benissimo sono solo due graffi" mia madre urlò ancora più forte, non avevo forze per andare ad abbracciarla e dirle che si sarebbe sistemato tutto. Ero immobile, volevo solo sparire, volevo che smettessero di parlare, di guardarmi, di litigare, volevo che le minacce finissero che la cintura sparisse, ma tutto era lì davanti ai miei occhi.

Il pugno di mio padre sul viso di mia madre, la sua fragilità, la mia, e la forza di un mostro che non ci lasciava pace.

Rimase a casa dal lavoro per settimane, aspettò che le mie ferite passassero stando attento nei giorni successivi a colpirmi sulla schiena e sulla pancia, zone sempre coperte dal vestiti così che una volta tornata a scuola sembrasse che non fosse successo nulla in quella casa dell'orrore.

William mi chiamava tutti i giorni promettendomi che sarebbe venuto a riprendermi.

Il primo mese lo costrinsi a non farlo, inventai di stare bene, gli dissi che volevo finire la scuola e poi sarei andata io a Los Angeles, di aspettarmi.

Sapeva che era una grande, anzi, enorme bugia ma rispettava il mio desiderio.

Il mese successivo però, la paura era un po' svanita e come promesso William un pomeriggio suonò alla porta.

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