Confessioni al tramonto

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“Di tutte le forme di prudenza,
la prudenza nell’amore
è forse la più fatale alla vera felicità.”
Bertrand Russell

«Vieni Sakura, siediti e fammi compagnia!»

Tsunade Senju sedeva su una panchina del parco degli Eroi e osservava il sole calare lentamente, tingendo tutto di quel suo caldissimo rosso-arancione.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso si era riscoperta molto brava in quell’attività da anziana signora: le regalava una pace che non aveva provato per troppo tempo.
Sakura le si sedette accanto tenendosi il ventre ingrossato e sorridendo all’indirizzo di due figure che stavano litigando furiosamente.
«Che cosa ha combinato stavolta?» chiese sospirando la più giovane, portandosi una ciocca rosa dietro l’orecchio.
«Oh, nulla di che, come al solito, ha solo messo in atto per l’ennesima volta la tecnica seducente che gli ha insegnato Naruto, dicendo che come ragazza sarebbe molto più carino di lei.» Tsunade rise di una di quelle sue risate sincere che la riportavano ad un tempo in cui era ancora felice. «Diciamo che Moegi non l’ha presa bene.»
La risata di Sakura fu interrotta da un calcio del bambino che cambiò posizione, deformando il pancione dalla pelle tesa e strappandole un gemito.
Tsunade non aveva avuto figli e a dirla tutta non era sicura che, potendo, li avrebbe avuti. Non era una donna coraggiosa e aveva visto morire troppa gente senza distinzione di sesso o età per assumersi la responsabilità di mettere al mondo una creatura condannata a morire. Sakura era stata decisamente più coraggiosa di lei: fedele al suo primo amore, di quell’amore portava adesso in grembo il frutto, camminando a testa alta di fianco a Sasuke Uchiha finalmente redento.
Tsunade nutriva tutti i dubbi del caso riguardo a che il vero amore della sua allieva – la persona più vicina ad una figlia che avesse avuto – fosse Sasuke. Non metteva in dubbio che fosse il primo, quello che mai avrebbe dimenticato – lei stessa non aveva mai scordato Dan – eppure dubitava che fosse quello vero, quello che fa battere il cuore e annodare lo stomaco, quello che ti dà sui nervi eppure ti fa sentire a casa, quello che ha il potere di farti sentire amata, perfetta e voluta con una singola occhiata
«Come stai?» chiese l’ex hokage.
«Il bambino sta bene, cresce in fretta, come puoi vedere» ridacchiò, simile a quando era più bambina e meno donna, quando ancora non aveva dovuto affrontare una guerra e migliaia di battaglie. «E Sasuke sta bene, è sempre il solito tenebroso uomo di poche parole.»
Forse fu solo Tsunade ad accorgersi dell’amarezza nel tono di Sakura, amarezza corredata da un carezzarsi teneramente la pancia.
«Ci vorrà del tempo…dopo tutto, quello che ha passato non è stato semplice…» la rassicurò Tsunade, ricevendo in cambio solo un cenno distratto d’assenso.
Konohamaru e Moegi, intanto, litigavano. O meglio, lei urlava e lui subiva.
Tsunade ridacchiò, Sakura sorrise, Moegi aveva le guance arrossate di chi è pieno di rabbia. Jiraiya era morto, Naruto passeggiava per mano a Hinata, Konohamaru fissava di sottecchi l’amica che gli stava sbraitando addosso.
 


Tsunade e Jiraiya sono dei ragazzini, lei lo prende in giro perché non ha conquistato i campanelli, lui le dice che è piatta come una tavola, lei gli tira un pugno, offesa, lui incassa.

Poi sono più grandi, Jiraiya viene beccato a spiare delle ragazze, Tsunade lo picchia fino a ridurlo in fin di vita. È un altro discorso che poi pianga, di notte, sola nella sua stanza, pregando che non muoia.
È Jiraiya a porgerle la spalla su cui piangere, a stringerla in un abbraccio caldo e familiare quando, prima Nawaki poi Dan, Tsunade è costretta ad affrontare la morte di chi ama. Orochimaru è Orochimaru: freddo come i serpenti di cui è il signore, incapace di calarsi nei panni di coloro a cui comunque, a modo suo, tiene. È Jiraiya a prendere il posto di colonna a cui Tsunade possa aggrapparsi nella disperazione dell’essere rimasta sola.
Jiraiya rimane, negli anni, l’unico punto fisso di Tsunade, l’unico a ricordarle una vita diversa, un’epoca felice in cui lei non aveva avuto paura del sangue e in cui era stata capace di amare.
Ama Jiraiya, anche se a modo suo, ma non lo ammette né a lui né a se stessa, codarda. Si limita a pensarci, ogni tanto, a pensare al suo corpo solido, al suo odore – così vivido nella sua memoria olfattiva anche a distanza di anni – e al suo abbraccio caldo in cui non si era mai sentita sola o straniera. Non fa ritorno a Konoha – sarebbe comunque inutile, visto che Jiraiya è chissà dove a fare “ricerche” per i suoi libri da pervertito – resta lontana finché non è lui, con quel ragazzino iperattivo e senza peli sulla lingua, a trovarla e riportarla a casa, ad affidarle l’onere di Godaime Hokage e a sparire di nuovo, lasciandola sola.
Sono ormai adulti quando Jiraiya parte per l’ultima volta e Tsunade sa, se lo sente dentro, che quell’uomo alto e sempre allegro – quell’uomo che nonostante tutti i rifiuti, nonostante i pugni, nonostante lo abbia quasi mandato all’altro mondo non l’ha mai lasciata sola – non farà più ritorno ed è forse anche per quello che scommette contro se stessa, oltre che contro di lui, per questo che desidera ardentemente perdere: perché se perderà vorrà dire che si è sbagliata e che Jiraiya farà ritorno e che lei sarà sua, nascondendo la gioia dietro il broncio infastidito di chi ha perso una scommessa. Vorrebbe tenerlo a Konoha, vorrebbe non lasciarlo andare, portarlo a casa e stringerlo a sé, baciarlo, essere sue davvero, senza lo stupido imbroglio di una scommessa a far dire a entrambi la verità: che si amano da sempre.
“Sarei stata tua per tutto il resto della nostra vita, Jiraiya…” pensa malinconicamente, seduta sulla staccionata del lungo fiume, mentre un ranocchio verde e brutto la osserva stranito seduto su una pietra che affiora dall’acqua del canale.

Confessioni al tramonto // NaruSakuWhere stories live. Discover now