Esseri umani

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La foresta nera, il luogo incantato della sua infanzia e pieno di tanti ricordi felici, lo circondava. Joseph si guardava intorno sentendosi come un bambino, felice di poter percorrere di nuovo quei sentieri tanto amati, eppure stupito di indossare la sua uniforme nera. Cominciò a vagabondare tra gli alberi, fermandosi per osservare i funghi che raccoglieva con suo padre, gli alberi, certi angoli particolari che nonostante il tempo erano ancora chiarissimi nella sua memoria. Ma la foresta era più grande di quanto non ricordasse e presto si ritrovò a correre cercando la strada per tornare a casa, da suo padre. Era notte, adesso, e lui non era mai stato nella foresta con quel buio e quel freddo: dalle fronde degli alberi non penetrava neanche un po' della luce lunare. Non avrebbe mai immaginato che gli stessi alberi che gli apparivano come una casa, di giorno, di notte fossero l'incarnazione di tutti i suoi incubi. Voleva andare più veloce, voleva correre con tutto se stesso, ma le sue gambe erano pesanti, sembravano fatte di piombo, e gli alberi erano macchie verdi che gli passavano ai lati troppo lenti. E poi c'era acqua. Tantissima acqua, veniva dal cielo come pioggia, lo bagnava, ne sentiva il rumore scrosciante, come quello di un ruscello. No, non era pioggia, ma un fiumiciattolo illuminato dai raggi della luna. Sulla riva c'era suo padre, l'aspetto malnutrito di quando lo aveva visto l'ultima volta, le mani e il viso bruciati dai geloni, i vestiti troppo leggeri per quelle temperature. Nevicava lentamente, ma lui non aveva più freddo, mentre suo padre tremava vistosamente. Il ruscello dietro di lui era impetuoso. L'uomo lo guardò, poi scosse la testa, come deluso. Si spostò e Joseph vide il corpo di una bambina. Aveva i capelli rossi sparsi sulla neve che si confondevano con il sangue che le usciva da uno squarcio nel petto, gli occhi verdi e limpidi spalancati dal terrore. Lui teneva in mano la pistola, lui aveva sparato e la consapevolezza del suo gesto lo fece crollare a terra in ginocchio, accanto a lei. Prese Elly tra le braccia piangendo, in colpa con sé stesso, mentre sentiva il suo cuore distruggersi in mille pezzi. Poi alzò lo sguardo su suo padre, in cerca di perdono e conforto, ma lui non era più in piedi. Era riverso a terra, anche lui in una pozza di sangue che arrossava la neve candida. In piedi c'era un altro uomo,con lo sguardo assassino e un ghigno sadico in viso.
«Gli ordini sono ordini, ricordalo»
Quel viso. Quel viso era lo stesso che guardava ogni giorno davanti allo specchio.
Era il suo.
La consapevolezza arrivò insieme alla pallottola, partita dalla sua stessa pistola.
Si risvegliò completamente sudato e con gli occhi sbarrati dal terrore. Tremava.
Con uno scatto si alzò, mentre il lenzuolo gli cadeva dal petto. La stanza era buia, quel poco di luce che c'era veniva da una finestra a destra che dava sul cielo notturno e riversava nella camera la luce di un lampione. Si passò la mano sui capelli scompigliati per il sonno, poi l'ancorò al letto, cercando la forza per alzarsi. La ferita gli doleva da morire, forse a causa di movimenti fatti durante l'incubo. Alla fine si mise in piedi e si diresse con passi strascicati in cucina, passando a piedi scalzi per il corridoio buio pestando ora piastrelle fredde ora tappeti morbidi. In cucina accese la luce e aprì la finestra per fare entrare un po' d'aria. Rabbrividì, ma non importava. Poi cercò un po' di whiskey nel ripiano più in alto dello scaffale a sinistra: ne aveva sicuramente bisogno. Cominciò a tastare alla cieca, tra bicchieri e bottiglie, con le mani tremanti, fino ad arrivare a quello che cercava. Se ne versò due dita in un bicchiere, poi si lasciò cadere su una sedia gemendo di dolore. Bevve il liquore tutto in un sorso, poi aprì la camicia con cui dormiva e osservò il cerotto sul suo fianco. Lentamente ne sollevò un lembo. Gli avevano già tolto i punti ma la ferita era tutt'altro che guarita. Sospirò guardandola. Gli stava dando un bel po' di problemi: non poteva tossire o ridere, gli veniva difficile camminare, perché ad ogni passo era come se gli ficcassero le dita in quel buco. Sollevò lo sguardo verso la porta che dava sulla camera di Elly e trovò la ragazza lì impalata che lo fissava, spaventata, da una fessura.
Forse fu il sogno, o il semplice bisogno umano di compagnia, ma si risistemò il cerotto, poi alzò il bicchiere verso di lei, a mo' di invito.
«Whiskey?» lei uscì dalla sua camera, con la camicia da notte che la copriva dalla testa ai piedi ma abbastanza trasparente da far intravedere qualcosa, in controluce. Era ancora ammaccata per colpa della sfuriata che le aveva fatto circa quattro giorni prima. Il loro rapporto non era cambiato granché, tranne che adesso Elly lo guardava solo con disprezzo. Prima c'era anche la speranza, a volte una muta preghiera di trattarla meglio. Da quel giorno invece lo aveva guardato come se fosse uno scarafaggio. E lui aveva ricambiato con piacere.
«Non bevo» disse, però si chiuse dietro la porta e gli si avvicinò.
«Non ti farà male, per una volta» disse lui, impulsivo come lo era una volta, prima della NaPola e della scuola per ufficiali. Avevano rimodellato perfettamente il suo carattere, ma a volte in momenti come quello, in cui non pensava poi molto, il suo vecchio io tornava a galla. Come quando aveva detto che l'avrebbe presa con sé e protetta. Lei si accorse del cambiamento. Stupito, Joseph si accorse che lo guardava diversamente. Come se fossero ancora bambini.
«Non reggo l'alcool» gli rispose semplicemente lei, riempiendosi un bicchiere d'acqua dal lavandino. Poi si girò per sorseggiarla, mentre lo osservava.
«Mi hai spaventata. Hai fatto un rumore assurdo poco fa» lui alzò le spalle.
«Non riuscivo a trovare quella» disse indicando col mento la bottiglia di whiskey sul tavolo.
«Perché lo bevi? La tua vita è perfetta» osservò lei.
«E la tua fa schifo. Eppure non lo bevi»
«Touchè» disse lei sorridendo. Lui si ritrovò a risponderle al sorriso. Poi lei sospirò
«Io non sono un medico, ma ad occhio e croce credo che quel buco che hai nel fianco dovrebbe essere pulito»
«Dovrebbe, infatti» disse lui atono. Lei lo guardò un attimo
«Però tu odi gli ospedali e da solo sei una frana» osservò lei.
«Esattamente»gli rispose Joseph, versandosi altro liquore e mandandolo giù in un sorso.
«Se vuoi lo faccio io» disse con cautela. Non sapeva neanche perché lo stava proponendo, non aveva senso, eppure si era ritrovata a pronunciare quella frase.
«Davvero?» lui spalancò gli occhi chiari su di lei, ora un po' appannati. Lei annuì.
«Io ... te ne sarei davvero grato» disse rivolgendosi a lei finalmente con educazione. Lei lo guardò sconcertata un attimo, poi sussurrò un "ok" e andò in bagno per prendere del disinfettante, alcune garze e due cerotti. Quando tornò nella cucina Joseph aveva mandato giù un altro bicchiere di whiskey. Lei posò l'occorrente sul tavolo e tolse il liquore dalla sua portata.
«Non mi ubriaco per così poco» osservò lui con mezzo sorriso.
«Meglio non correre il rischio» disse Caroline severa. Odiava gli uomini ubriachi, soprattutto quelli potenzialmente pericolosi come Joseph. Poi si inginocchiò davanti a lui per avere la ferita più vicina e lentamente gli tolse il cerotto, frenando l'ondata di nausea che le venne nel guardare così da vicino i danni provocati da una pallottola. Lui la osservava in quella posizione e al suo cervello mezzo ubriaco arrivarono immagini a luci rosse che vennero bruscamente interrotte dal bruciore causato dal disinfettante. Imprecò, ma non si mosse, sapendo per esperienza che sarebbe stato peggio. Le sue mani erano delicate e precise, ci mise cura come se lui non l'avesse mai picchiata o ferita o insultata. Lo lasciò di sasso, con quel suo comportamento. Gli fece venire voglia di implorare perdono, ma si trattenne.
Ci mise poco a pulire e fasciare la ferita. Sembrava esperta e lui se ne chiese il motivo: che lui sapesse non aveva mai fatto l'infermiera. Quando si rialzò lui la guardò un attimo, poi la sua voce pronunciò delle parole dannatamente sciocche, di cui si sarebbe pentito quasi immediatamente. Ma era ancora mezzo addormentato e stordito dal whiskey e dal dolore, quindi non si poteva proprio biasimare.
«Ti ho mentito, sai Caroline? Quando sono venuto a Friburgo, il mio scopo non era solo di rivederti. In fondo, speravo di sposarti. Insomma, da piccola eri la mia unica famiglia. Eri l'unica donna che sapevo avrei rispettato» lei rimase paralizzata davanti a lui. Lui alzò, come per brindare, il whiskey verso di lei, poi lo bevve.
«Buona notte Caroline» posò il bicchiere vuoto sul tavolo e tornò barcollante nella sua stanza. Lei lo guardò uscire, ancora impalata nel punto in cui l'aveva lasciata. Poi si sedette nella sedia prima occupata da lui e, dopo un attimo di esitazione, si versò un po' di liquore, cercando di trovare una risposta al proprio comportamento, impulsivo e privo di senso anche per lei. Sospirò piano, poi buttò giù tutto d'un sorso il liquido ambrato.
***
La mattina dopo si svegliò al solito orario. E, quando Joseph si alzò per reclamare il proprio caffè e la sua colazione, Elly capì con disappunto che niente era cambiato. La trattava con la solita fredda indifferenza, che sfociava a tratti in disgusto. Nessun accenno alla sera prima, nessun commento, neanche un minimo cambiamento sul modo di comportarsi: la ragazza quasi arrivò a credere di aver solo sognato.
Lui uscì presto, come sempre, e lasciò la lista di cose fare e il denaro che le servivano per gli acquisti. Lei fece sospirando quello che doveva.
Non importava se quella notte uno sprazzo di umanità li aveva colpiti, erano tornati alla routine di sempre, fatta di sguardi carichi d'odio che duri ricoprivano la dolcezza dei loro ricordi.
Quella notte era avvenuto un miracolo, ed Elly lo sapeva bene: il loro solido muro aveva lasciato intravedere un po' di quell'antico affetto che li legava indissolubilmente e a doppio filo, rendendo chiaro ad entrambi che non era un capitolo chiuso del tutto. E fu con quella consapevolezza che passò il mese successivo.
Lui scoprì di avere bisogno di lei per tenersi ancorato alla realtà, un'ancora che sembrava non facesse altro che portarlo in fondo all'oceano, ma che in ogni caso era qualcosa di concreto. Quella piccola ebrea, con i capelli rossi che le arrivavano appena sotto l'orecchio, era la cosa più vera della vita dell'ufficiale Joseph Muller, un'SS impiegato nell'ufficio di controllo della purezza della razza a Berlino, un ariano simile a quelli che le ragazze si passavano nelle figurine tra i banchi di scuola, un perfetto soldato.
Oscillavano tra occhiate cariche di risentimento, parole urlate piene di rabbia, umiliazioni continue che ferivano l'orgoglio; e momenti di complicità, di sguardi persi tra i ricordi, piccole gentilezze che neanche si accorgevano di farsi a vicenda, di riscatti.
E così c'erano stati litigi, piccoli battibecchi che si concludevano spesso con qualche livido sul corpo di Caroline, piccole contusioni che guarivano ma restavano doloranti nel cuore, fino a che lo stesso che gliele aveva inflitte non dimostrava qualcosa. C'era stata quella volta che il giorno dopo averla schiaffeggiata le aveva fatto trovare una fetta di torta al cioccolato sul tavolo.
C'era stata quella volta che si era scorto allo specchio mentre stava per alzarle le mani e si era guardato pieno di vergogna, prima di lasciarla e rifugiarsi nel suo studio.
C'era stata quella volta che lei era quasi caduta dopo un suo spintone, se non fosse stato per la sua prontezza nell'afferrarla.
Era una vita fatta di equilibri precari e già inclinati dall'inizio, ma per un certo periodo proseguì senza intoppi o avvenimenti degni di nota.
E poi arrivò quel dieci agosto, il diciannovesimo compleanno della ragazza, che lei stessa aveva quasi finito per dimenticare.
Caroline si alzò allo stesso orario di ogni mattina, gli preparò il caffè e la colazione, mentre lui non la degnava di uno sguardo. Non se la prese, si aspettava esattamente questo da lui, anzi le fu grata per la tranquillità con cui svolsero ognuno il suo ruolo. Quando però lui fu uscito di casa, Caroline vide un biglietto e dei soldi sul tavolo. Credendo di dovere sbrigare commissioni andò a leggerlo, per poi sorridere felice per un gesto tanto inaspettato. Nel minuscolo pezzo di carta, con la grafia sinuosa ed elegante di Joseph c'era scritto:
Quelli sono tuoi. Divertiti.
E buon compleanno.
Gli auguri erano stati scritti in uno spazio ristretto sotto la prima frase, ciò la portò a pensare che li avesse scritti dopo, in un momento di impulsività.
Saltellando e canticchiando allegra andò a vestirsi, poi prese i soldi, un borsetta che di solito utilizzava per la spesa, e uscì di casa felice come una pasqua.
Si dette alla pazza gioia. Camminò in lungo e largo per la città che quel giorno era illuminata dal sole, girando per i negozi sgargianti della città, orgogliosa delle piccola fortuna che aveva avuto l'accortezza di nascondere nel regipetto. Si guardava intorno estasiata, felice come non era da molto, gli occhi le brillavano. Passeggiò tutta la mattina osservando le vetrine curiosa e indecisa su cosa comprare. Alla fine prese un vestito estivo nuovo e bellissimo. Era verde con una fantasia a fiorellini, aveva uno scollo tondo che risaltava il suo seno senza però essere volgare e le maniche corte a palloncino. Si stringeva in vita, con un grazioso cinturino, e la gonna morbida arrivava sotto il ginocchio. Non aveva idea per cosa lo avrebbe indossato, sapeva solo che le stava da dio, ora che non era magra come un chiodo, e che quindi lo voleva nel suo armadio. Quello non fu il suo unico acquisto: comprò anche un altro vestito, più semplice però, da utilizzare ogni giorno, un paio di scarpe nere, una borsa nera, un cardigan morbidissimo bianco da abbinare al vestito e anche della biancheria. Concluse con uno splendido rossetto color corallo e un piegaciglia. Interruppe le sue spese solo per pranzare e si fermò solo quando non le restarono che pochi spiccioli. Erano circa le tre del pomeriggio. Ci avrebbe messo poco per tornare a casa, se solo avesse avuto un'idea precisa di dove diamine fosse, così decise di comprare un gelato al cioccolato e sedersi in un tavolino all'aperto, guardando soddisfatta la gente che passeggiava e sperando in una ispirazione improvvisa che le suggerisse in quale direzione andare. Si stava proprio godendo il suo cono gigante, quando un ragazzo le rivolse la parola.
A occhio e croce doveva avere intorno ai venticinque anni, i capelli e gli occhi scuri, anche se non ne distingueva bene il colore. Era bello in viso e portava abiti che indicavano uno stato sociale non elevato. Si rivolse a lei con cortesia, e lei lo adorò anche solo per questo.
«Posso sedermi, signorina?» le chiese educatamente, indicando il posto di fronte a lei. Caroline rimase spiazzata. Nessun le aveva mai rivolto la parola con quel rispetto e con quel tono pacato. Lei tentennò un attimo, poi senza sapere bene che rispondere annuì disorientata. Lui parve accorgersi del suo smarrimento, così cercò di tranquillizzarla con un bel sorriso.
«Ho visto che era sola, così ho pensato che, visto che sono solo anche io, potevamo farci compagnia» la sua voce era amichevole e per niente intimorita. Si capiva che non era un ragazzo timido e che sapeva mettere la gente a suo agio.
«Mi sembra una splendida idea» si decise a dire lei, con un filo di voce e gli occhi bassi.
«Il mio nome è Dimitri. Dimitri Kraus» disse porgendole la mano. Caroline per poco non si presentò con il suo vero nome e dovette fare un piccolo sforzo di memoria per ricordarsi quello che era scritto nel documento che portava con sé.
«Emma Schuster» rispose stringendogli la mano dopo una manciata di secondi.
Che stupida devo essergli sembrata, una che non ricorda neanche il proprio nome pensò, non senza un pizzico di fastidio verso se stessa. Invece Dimitri non smetteva di sorridere.
«Ma gli amici mi chiamano Elly» aggiunse di getto. Non voleva rischiare di non rispondere al suo nome, in quel modo invece non avrebbe corso rischi.
«Elly? Ma non c'entra nulla con Emma» disse lui senza smettere di sorridere rilassato.
«Lo so, lo so. Non so neanche io perché mi chiamano così: non c'entra nulla col mio nome» disse sinceramente, ridacchiando.
«E lei è qui da sola?» le chiese allora lui, continuando a mangiare placidamente il gelato.
«Si ... mi sono data alla pazza gioia» disse indicando il numero consistente di pacchetti che aveva intorno.
«Lo vedo! Deve essere stato una giornata interessante»
«Eccome! Io non sono di Berlino, mi sono trasferita qui da poco, e sinceramente non immaginavo che ci potessero essere tanti negozi tutti insieme!» lui rise
«Parla come se avesse trovato una miniera d'oro»
«Ma è così! Mi sento come una bambina nella fabbrica di babbo natale» disse, poi si affrettò a chiedere.
«E lei invece, vive qui da molto?»
«Da tutta la vita. E amo questa città, sembra quasi magica. Non la lascerei per niente al mondo» lei gli sorrise.
«Io invece vengo da Friburgo. Quella città è vicinissima alla foresta nera e ci sono delle case fatte di legno che si affacciano sul fiume e ... -sospirò - mi manca molto» lui la guardò comprensivo.
«E allora perché è venuta a Berlino?»
«Per lavorare. Sono rimasta sola, e un ufficiale mi ha chiesto di fargli da cameriera» lui parve scioccato.
«Io ... mi dispiace» disse lui spiazzato. Lei rimase immobile un attimo.
«E lei? Come mai non è al fronte?» chiese lei ansiosa di cambiare argomento.
«Sono il più grande di dieci figli. Mia madre ha ottenuto la croce di ferro, ma in ogni caso non basta per sfamarli tutti, soprattutto dopo che mio padre è morto, due anni fa. Così il governo mi ha permesso di restare a lavorare: fino a che non ci sarà una situazione di grave crisi, io potrò restare a Berlino» lei annuì, non sapendo bene che rispondere.
«Che c'è? Si è improvvisamente rattristata» disse lui con un sorriso gentile.
«È che ... mi dispiace per suo padre» un'ombra gli passò negli occhi ma lui riprese presto il sorriso.
«È la vita» disse semplicemente.
Poi passarono ad argomenti più leggeri. Lui gli raccontò che era un panettiere e la divertì con le mille stranezze di cui erano capaci clienti, aveva una voce gradevole e parlava così bene che riusciva a coinvolgerla nella conversazione anche se si trattava solo di aneddoti sciocchi. Lei più che altro ascoltava e se apriva bocca era solo per fare un qualche commento intelligente e spesso anche pungente, con uno spirito che neanche immaginava di avere. Finirono il gelato, ma non ci fecero neanche molto caso. A entrambi piaceva stare lì a chiacchierare e non fecero neppure attenzione al tempo che passava.
Quando, in lontananza, Caroline sentì suonare le quattro, sobbalzò e lo guardò spaesata.
«Mio dio, sono le quattro!» disse, interrompendolo bruscamente. Lui parve disorientato quanto lei. Caroline si alzò di fretta e furia, mentre lui ancora restava lì.
«È stato un piacere, ora però ... »
«Aspetti, io volevo ...»
«Devo andare»
«Se mi dà il tempo di ...»
«Spero di incontrarla un'altra volta, è stato proprio divertente ma ...»
«Dobbiamo ancora pagare il conto!» urlò infine lui.
«Devo scapp .... ah» lei arrossì.
«Vado io» disse infine lui, mentre lei rimaneva di pietra.
«Però non scappi, va bene?»
«Io ... non c'è n'è bisogno. Affatto. Vado io» disse decisa. Era arrossita fino all'inverosimile, adesso la sua faccia era dello stesso colore dei suoi capelli.
«Sai che sei arrossita?» le disse allora lui con tono divertito.
«Sono sicura che sia il caldo. E poi non le ho chiesto di darmi del tu!» lui rise.
«Aspetti qua» disse, per poi superarla. In un attimo aveva pagato, e a lei non rimase che rimanere impalata a guardarlo. Un attimo prima era gentile, l'attimo dopo era diventato un burlone.
«Allora, dove abita?» gli chiese lui dopo, avvicinandosi con le mani in tasca e l'espressione curiosa e malandrina.
«Perché?» chiese allora lei.
«Per riaccompagnarla, no?» disse cominciando a uscire dal bar. Lei rimase nello stesso punto in cui lui l'aveva lasciata.
«Non era in ritardo?» le chiese allora con le sopraciglia aggrottate.
«Decisamente» disse, lei affrettandosi per trovare la fermata del bus.
«Conosco bene questa città, se mi dice dove abita potremmo accorciare parecchia strada. Visto che è in ritardo» le spiegò allora lui camminando dietro di lei. Caroline si girò a guardarlo. Aveva il viso rivolto verso il sole, e così i suoi occhi sembravano ...
«Ma tu hai gli occhi blu!» disse allora stupita. La sua intenzione era quella di ringraziarlo, ma si era ritrovata a osservare quel particolare così ... insolito. I suoi occhi avevano la profondità degli occhi scuri e la particolarità del blu. Sembrava di guardare la notte.
«Ora chi è che è passata al linguaggio informale?» chiese lui raggiungendola.
«Comunque si, sono blu. Le piacciono?» lei aveva ripreso a camminare e a quella domanda era arrossita. Di nuovo. Perché, beh si, le piacevano. E tanto anche.
«Sono insoliti» rispose, per togliersi dai pasticci. Lui rise.
«Non le ho chiesto se ha mai visto occhi di questo colore. Le ho chiesto se le piacciono» la provocò lui, mentre una nuova ondata di calore le invadeva le guancie. Lui rise e lasciò perdere.
«Le si potrebbero friggere delle uova, in faccia»
«È il caldo» si scusò di nuovo lei, facendosi aria con la mano, come a provare quello che diceva. Ottenne solo le risate del ragazzo.
«Si sta ripetendo, signorina. E il suo viso è così rosso da confondersi con i capelli»
«Che ha contro i miei capelli?» disse lei, risentita da quella frase. A scuola erano in molti a prenderla in giro per quel rosso così simile all'arancione. Lui la guardò stupito.
«Assolutamente nulla. Mi piacciono. E non mi vergogno a dirlo,soprattutto»
«Non sembrava così sfacciato quando si è seduto» osservò lei corrucciata, non sapendo ancora bene se quel suo modo di fare la infastidiva o la intrigava.
«Beh, in realtà si. Non è sfacciato chiedere di sedersi con una signorina sconosciuta?» chiese lui.
«Un po'» disse lei, non volendo dargliela vinta. Effettivamente era sfacciato, ma lui si era posto in maniera così gentile da indurla ad accettare come se fosse normale.
Continuarono a chiacchierare per buona parte del tragitto, fianco a fianco, mentre una strana felicità si diffondeva dentro Caroline. Stava bene con lui, era gentile anche se adesso non si risparmiava le battute pungenti, la faceva ridere tanto. Quando arrivarono davanti al suo portone lei si fermò e Dimitri si guardò intorno.
«Bel quartiere ...» commento, lo sguardo perso tra i palazzi. Sembrava indeciso. Lei aprì la porta e fece per entrare. Lui la bloccò, prendendole gentilmente il braccio. Aveva la mano grande e callosa, calda contro il braccio della ragazza.
«Aspetta» lei rimase immobile e lui la lasciò.
«Io volevo chiederle ... cioè spero che potrai, ma non voglio che fraintenda. Beh in effetti avrebbe ragione ma ...» Caroline non capì nulla, e lui guardandola si riscosse. Sospirò, come a prendere coraggio.
«Non è che potremmo vederci, qualche volta?» disse. Questa volta le sue guancie si colorarono lievemente di rosso, e lei le rivolse un piccolo sorriso.
«Chi è che arrossisce adesso?» chiese lei, cercando di prendere tempo.
«Ah bhe ... è il caldo» la imitò lui, poi risero entrambi.
«Mi piacerebbe tanto, Dimitri. Ma non so se posso» lui annuì.
«Sabato sera. Ti aspetto lì all'angolo alle sette e mezza. Torneremo prima del coprifuoco, lo prometto. Se non potrai, capirò»
«No, hai frainteso. Davvero non so se potrò uscire. Mi piacerebbe. E tanto. Ma non lo so» disse con gli occhi bassi. Lui la fissò per un istante.
«E se non ci sarai ti manderò una lettera. Va bene?» lei annuì.
«Ci vediamo, allora» disse entrando nel palazzo. Lui annuì.
«Ci vediamo» lei lo guardò per un altro istante e poi chiuse la porta.
Il cuore le batteva a mille, mentre il blu dei suoi occhi era ancora ben limpido nella sua mente.

L'uniforme Nera con la Svastica RossaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora