Orphan.

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Il cielo era grigio in quel pomeriggio di settembre o almeno, così pareva, dalla sporca finestra dell'ospedale.

Il sole era oscurato da una miriadi di nuvole e sembrava quasi notte, nonostante fossero le cinque.

Mi ritrovai a fissare le piastrelle bianche del pavimento, aspettando che l'ora passasse.

Possibile che in quel posto non avessero un maledetto orologio?

Mi portai le mani piccine alle guance cicciotte, poggiando i gomiti sulle ginocchia e iniziai a dondolare i piedi, facendo cigolare la sedia.

Sbuffai.

Una signora sulla cinquantina alzò gli occhi dal suo squallido giornaletto di gossip e mi gettò un'occhiataccia, ma me ne infischiai altamente e continuai a muovermi, annoiato.

«Non ti hanno insegnato le buone maniere?» mi chiese seccata, sistemandosi gli occhiali antiquati sul naso.

«Si faccia gli affari suoi» ribattei piccato, ricambiando la sua occhiataccia.

«Che bambino maleducato...» la sentii sussurrare a un uomo grasso con un sudicio berretto calcato in testa, che si trovava seduto sul suo stesso divanetto scolorito.

«È sicuramente colpa dei suoi genitori, fossi in loro lo punirei come si deve» rispose quest'ultimo, al ché mi alzai in piedi, stringendo i miei piccoli pugni.

«Io non ce li ho più i genitori» strillai, cercando di controllare le mie emozioni e non scoppiare a piangere.

Avevo dodici anni, ero grande per queste scenate, ma allo stesso tempo ero troppo piccolo e ben educato per urlare un bel vaffanculo a quei vecchi insensibili e ficcanaso.

Mi sedetti di nuovo.

Il signore ciccione abbassò lo sguardo, come se fosse dispiaciuto, mentre la signora tornò a leggere il suo giornalino inutile.

Chi se ne frega di sapere con chi sta quello, con chi sta quell'altra eccetera?

A me interessava soltanto leggere i miei fumetti con il mio amico Cam sulla nostra casetta sull'albero e salutare con la mano le nostre compagne di scuola, come Talia, che andavano lì a raccogliere i fiori.

Un uomo vestito di bianco uscì dalla stanza davanti al quale si trovava la mia sedia. Mi rialzai col cuore palpitante.

Il medico si abbassò alla mia altezza.

«Ti va di parlare con me, Isaac?» mi disse, con una voce calda e simpatica. In una mano teneva un lecca lecca, nell'altra dei fogli ammucchiati. Una cartella clinica distrutta.

Annuii e lo seguii in una stanza, di nuovo bianca.

Ci sedemmo in silenzio, l'uno di fronte all'altro, su comodi divanetti bianchi.

«Allora, tu sai perché sei qui?» mi chiese, spalancando i suoi occhi verdi e cercando invano di sistemare i suoi capelli brizzolati e spettinati.

Annuii, per la seconda volta.

«Sono qui perché ho ucciso i miei genitori.»

«Oh, Isaac, non devi incolparti di ciò che è successo, è chiaro?» mi riprese il medico. Sulla targhetta appesa sul suo camice lessi il suo nome:

"Dottor Andrew".

«Se non avessi giocato con i freni dell'auto, non sarebbe successo niente ai miei genitori! Sono stato io... sono stato io a ucciderli» urlai, scattando in piedi. Il mio viso diventò rosso e iniziai a respirare male.

Dottor Andrew protese una mano aperta verso di me, come a bloccarmi.

«I freni erano già stati manomessi, Isaac.»

Sbiancai e il respiro cominciò a mancarmi del tutto.

Provai la stessa sensazione di essere bloccato sott'acqua, come se avessi mangiato pietre, esattamente come il lupo cattivo presente in una storia che mi leggeva sempre la mamma quando ero più piccolo.

Portai le mie esili braccia lungo i miei fianchi, impotente, sconfitto e con lo sguardo basso.

I freni erano già stati manomessi.

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