Storia di un minatore (storico-drammatico)

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Racconto basato sulla canzone "una Miniera" dei New Trolls

per il concorso FESTIVAL BOOK

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Il sole, l'erba, il dolce canto degli uccellini a risuonare lieve nelle mie orecchie; un albero a farmi ombra nelle calde giornate estive, la brezza del mare a entrarmi nelle narici: tutti i miei sensi sono inebriati, sono finalmente libero e vivo.

La mia realtà è cambiata e sono bastati pochi istanti, il boato di un'esplosione, la differenza tra l'essere inghiottiti o uscire alla luce del sole.

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C'era buio quella notte, come sempre del resto; i giorni si susseguivano sempre uguali, uscivo dalle baracche che ci ospitavano, salivo sulla camionetta, insieme ai miei compagni di lavoro e partivo.
La strada era buia alle cinque del mattino, nessuno di noi aveva voglia di parlare, eravamo stanchi, assonnati, mai abbastanza riposati, né sazi.
Tra poco, tutto si sarebbe ripetuto con la ritualità di sempre; nulla cambiava mai.
Il capo cantiere ci dava l'elmetto, il piccone, una mascherina, che invero serviva davvero a poco, poi a gruppi di quattro, aspettavamo il nostro turno per scendere nel ventre della terra.

Il clangore del montacarichi era incessante, qualcuno, là sotto, stava ancora lavorando, aspettando il cambio di turno, la possibilità di risalire, di ammirare il sole, di annusare l'aria pulita e non satura di fumo e di carbone.

Silenziosi, salivamo sull'ascensore, pronti a salutare il giorno, di cui vedevamo solo il breve lampo di un'aurora che preannunciava l'alba, con la malcelata speranza di ritornare presto a guardare l'azzurro del cielo.
Scendevamo, scendevamo sempre più giù, il cuore tremava ogni volta, ogni volta la stessa opprimente sensazione di essere inghiottiti.
Odiavo il mio lavoro, ma ne avevo bisogno: avevo una famiglia che contava sul mio stipendio per andare avanti; due figli da mandare a scuola, per garantire loro un futuro migliore del mio; una moglie che mi amava, ma che vedevo sfiorire a ogni mio ritorno.

La lontananza non le si addiceva.

Non sapevo se mi tradisse o no, io lo facevo, con le prostitute, che si aggiravano nei pressi della nostra baraccopoli. Mi sentivo in colpa ogni singola volta, ma non riuscivo a evitarlo; non c'erano molti altri svaghi per noi minatori e il calore e il conforto di un corpo morbido e caldo, erano un balsamo per il nostro animo imbrutito dal lavoro.
Quando tornavo a casa, una volta ogni sei mesi, mi rasavo per bene, mi ripulivo l'anima dai miei tradimenti e abbracciavo mia moglie con un sorriso. Lei mi baciava con trasporto, poi mi prendeva per mano e mi stringeva a sé.
Facevamo l'amore, ogni volta con meno trasporto, lei sentiva, lei sapeva.
Io l'amavo, lei sapeva anche questo, i tradimenti erano solo l'effetto collaterale del mio lavoro e della distanza che ci separava.
Io l'amavo, e presto avrei terminato il mio contratto, presto avrei smesso di calarmi in un'oscurità che un po' era diventata mia amica, parte di me.

Silenzio, a farci compagnia, non ce n'era: solo quei grevi minuti di discesa nel ventre della terra; poi solo rumori assordanti di pale che scavavano, di persone che cantavano per ingannare il tempo, che sembrava non passare mai; di lingue diverse, che facevano battute che avevo imparato a capire.
I miei compagni erano come me: persone semplici, con un'istruzione precaria; come me, erano emigrate in cerca di un futuro migliore, ma quella ricerca di futuro e di possibilità, li aveva costretti nel ventre oscuro della terra.

Io ero un pescatore, il mare era il mio elemento, l'orizzonte sconfinato, il solo limite che mi ponevo, le onde, i cavalli che mi divertivo a cavalcare da bambino e a sfidare da adulto.
Ero un pescatore, ma la pesca non rendeva abbastanza da garantirci un futuro dignitoso; la miniera rendeva molto di più.
Ero partito per una terra fredda, lontano dal mare, lontano dal sole.

Ero partito.

Ora la mia pelle non era più dorata dal lavoro all'aria aperta, ma nera come il carbone che estraevamo senza sosta, senza rispetto, senza pensare che la terra, alla fine, si sarebbe ripresa gli spazi che le avevamo sottratto.

Il suono della campana a ricordarci che il nostro turno stava per finire. Raccattai le mie povere cose e mi misi in fila. Quattro per volta, come sempre.
L'ascensore scese e risalì senza sosta.
Quattro per volta.
Là fuori, altri volti, altri cuori, altri tristi pensieri a prendere il posto dei nostri.
Salii, era il mio turno.
L'ascensore cigolò e si mosse, riportandoci verso l'esterno. Potevo già sentire l'aria sfiorarmi le guance.

Sotto di noi un'esplosione, l'ascensore continuò a salire, indifferente alla tragedia che si stava consumando sotto di noi, indifferente come me; avremmo pianto domani la scomparsa dei nostri compagni, ora l'unico desiderio che accomunava i nostri cuori era quello si risalire e di salvarci dall'inferno di fuoco e fumo che stava avvolgendo chi era rimasto là sotto.
Ci siamo quasi, qualche metro e siamo fuori, pensai con un sorriso a illuminarmi il volto.

****

Il sole, l'erba, il dolce canto degli uccellini a risuonare lieve nelle mie orecchie; un albero a farmi ombra nelle calde giornate estive, la brezza del mare a entrarmi nelle narici. Sono finalmente libero.

Qui, sulla collina che accoglie il mio corpo, nella mia terra fatta di sole, sabbia e mare, mi sento protetto.

La mia realtà è cambiata e sono bastati pochi istanti, il boato di un'esplosione, la differenza tra l'essere inghiottiti o uscire alla luce del sole.

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