Capitolo 9.

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Martedì 7 Febbraio.

Ero sola.

Il silenzio e il vento, che si insinuavano tra gli spifferi della finestra della mia camera, mi facevano compagnia. I miei erano fuori per i soliti impegni. Mia madre era dalla nonna, si era alzata presto quella mattina e non sarebbe tornata prima di cena. Mio padre era indaffarato con le solite pratiche da preparare e pur di non essere a casa si inventava di tutto. Lo vedevo sempre di sfuggita, come se io e la mamma fossimo un peso troppo grande da affrontare. Per lui erano più importanti il lavoro e lo sport. Praticava calcio tre volte a settimana e la sera tornava spesso molto tardi.

Le sue origini erano francesi, ma si trasferì in Italia quando era solo un bambino. Mio nonno aveva il sogno di aprire un ristorante all'estero, così optò per una piccola città di mare italiana, sperduta tra la vegetazione e l'odore di iodio. I primi anni furono fruttuosi e tutto sembrava andare per il verso giusto. Ai clienti piaceva la cucina di mio nonno e la nonna si divertiva a conversare con la gente; teneva banco in ogni situazione. Con quei soldi comprarono anche i tre piccoli appartamenti costruiti sopra al ristorante. Grazie al sudore e alla tenacia riuscirono a creare qualcosa di speciale. C'era allegria nell'aria, ma la felicità non durò per sempre.

I tempi cambiarono e mio padre, crescendo, prese lo stesso carattere ottuso della nonna. Invece di seguire la scia della ristorazione, scelse di diventare avvocato. Il ristorante venne chiuso qualche anno dopo la mia nascita. Mio nonno era diventato troppo vecchio e non c'era più nessuno a prendersi cura dell'attività. Voleva godersi la sua pensione ed i suoi ultimi anni che gli rimanevano. Si limitava ad uscire nei giorni di sole per incontrare i suoi amici, per una partita a carte, e fare un salto al cimitero, per portare i fiori freschi alla nonna.
Purtroppo non conoscevo bene la storia di mio padre, non me ne parlava quasi mai. Ogni tanto mio nonno, quando veniva a trovarmi, mi raccontava qualche brandello mancante della mia vita. Mi sentivo come un puzzle incompleto dei suoi pezzi più importanti.

Rannicchiata nell'angolo vicino al termosifone, cercavo disperatamente di ricordare momenti felici per togliermi quel buco nero creatosi nella mia anima, ma con scarsi risultati. Non riuscivo a dimenticare il volto colmo di tristezza di Marco. Quelle iridi verdi, simili a smeraldi, erano solcati da ombre scure, come se Morfeo si fosse dimenticato di abbracciarlo nelle notti più buie.
Il suo sguardo, distrutto e indifeso, cercava di nascondere un dolore troppo pesante per un corpo fragile simile a porcellana. Avrei voluto stringermi a lui in quell'angusto corridoio d'ospedale, come le rondini che cercavano di nascondere i propri piccoli all'interno dei loro nidi caldi e accoglienti. Volevo proteggerlo tra le mie braccia; lontano da ogni male, che la vita ci metteva come ostacolo.

C'era qualcosa, in me, che stava cambiando, non avevo mai capito cosa significasse tenere tanto ad una persona. Con Lorenzo era diverso. Gli volevo bene e non lo avrei mai abbandonato. A dieci anni lo credevo quasi come un membro della mia famiglia, ma non avevo quel brivido di angoscia o di paura nel perderlo da un momento all'altro. Ero sicura che non lo avrebbe mai fatto.
Dal giorno in cui se ne andò senza dirmi nulla, lasciandomi in balia delle mie emozioni, come una boa in mezzo alla tempesta, mi abituai alla sua assenza. Quando ritornò, non avevo più nulla da condividere con lui. Non aveva mantenuto la promessa.
Ebbe anche la faccia tosta di venirmi a trovare domenica verso il pomeriggio.
Non volevo vederlo, avrei preferito la solitudine invece della sua compagnia. Eravamo diventati due estranei che si conoscevano troppo bene.
Voleva portarmi in spiaggia in ricordo dei vecchi tempi. Non ne avevo per niente voglia, ero ancora sconvolta dall'intensa giornata in ospedale.

«Mi dispiace, ma oggi passo» gli dissi sbrigativa, mettendomi seduta sul letto.
«Ma non ti annoi a stare tutto questo tempo tra queste quattro mura?» alzò le braccia per indicare l'area della mia piccola stanza «non essere sempre la solita musona».
«Non lo sono, non sai cosa sto passando» risposi guardandolo dritto negli occhi. Quei due pozzi scuri non mi facevano sentire a mio agio. Quello sguardo non lo riconoscevo quasi più.
«Sei sempre la solita drammatica» sorrise divertito, come se quella situazione lo facesse ridere. Odiavo il suo comportamento, tanto tempo fa non si sarebbe mai atteggiato in quel modo. Si sarebbe seduto accanto a me e avrebbe ascoltato ciò che mi tormentava. Lo facevamo sempre quando eravamo piccoli; ognuno si prendeva cura dell'altro.

Non farmi addormentare.Nơi câu chuyện tồn tại. Hãy khám phá bây giờ