Capitolo 8.

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Sabato 4 Febbraio.

La mia vita stava iniziando a non avere più un senso. Le giornate passavano lente e tutte con la stessa monotonia.
Scuola, studio, problemi, solitudine e tutto si ripeteva il giorno dopo.
Sembrava di vivere in un loop continuo, senza vie d'uscita. Era straziante.
Marco sembrava svanito dalla faccia della terra, forse ero davvero diventata pazza -e mia madre reggeva il mio gioco- oppure si era stancato di me. Dopotutto, avrei dovuto immaginarlo.
Ero sempre il solito disastro, l'errore di fabbrica in mezzo a tanti volti perfetti.
Avevo rifiutato, con una stupida scusa, la proposta di Jonia per vederci il sabato pomeriggio. Mia madre mi impose di restare con lei per aiutarla in ospedale e accudire mia nonna.
Non ne avevo per niente voglia, volevo uscire dalla mia malinconia e dimenticare, anche solo per un momento, tutti i miei problemi.

Appena finito pranzo, mi spicciai per prepararmi ad uscire dalla mia calda casa e dirigermi verso il portone principale, insieme a mia madre che cercava di trattenere le lacrime. Le nascondeva sotto a degli scuri occhiali da sole.
Odiava farsi vedere mentre piangeva e provava in tutti i modi di camuffare il suo pianto. Io non ero forte come lei.
Mentre ci affrettavamo ad arrivare il prima possibile verso la macchina, parcheggiata davanti al cancello, mia madre continuava assiduamente a leggere l'orario nel piccolo quadrante del suo orologio. Glielo aveva regalato papà per il loro ventesimo anniversario di matrimonio e da quel giorno lo aveva sempre portato al polso.
Era come se ogni secondo o minuto perso fuori dall'ospedale fosse una mancanza imperdonabile nei confronti di mia nonna.

«Tranquilla mà, non andrà da nessuna parte» dissi, cercando di smorzare la tensione creatasi tra di noi.
Mi sistemai nel sedile passeggero accanto a lei, accese il motore della macchina e, dopo qualche secondo di esitazione, mi guardò. Potevo intravedere i solchi delle lacrime tra le sue guance segnate dal tempo.
Con una voce strozzata dal pianto mi rispose «Non voglio lasciarla da sola, dopotutto sono sua figlia. È il mio dovere».
Non dissi altro, guardai avanti per osservare la pioggia cadere imperterrita sul vetro e non parlai più per tutto il viaggio. Mi aveva tolto le parole di bocca, non mi sarei mai aspettata una risposta di quel genere. Era davvero strano vedere mia madre, forte come una roccia, così fragile davanti a qualcosa più grande di lei e di ogni essere umano di questo mondo.

Tutti avevamo paura della morte. Il terrore dell'ignoto, di ciò che ci avrebbe aspettato dopo aver esalato il nostro ultimo respiro, ci faceva tremare l'anima. Molti dicevano che esistevano un paradiso ed un inferno, altri dei mondi paralleli. I più scettici pensavano che il vuoto sarebbe stato il nostro nuovo rifugio e le interiora mangime per batteri e vermi, che avrebbero trovato dimora tra resti di pelle ed ossa.
Io non credevo a nulla di tutto quello. Non mi era mai capitato di pensare a cosa sarebbe successo alla mia anima, dopo aver chiuso gli occhi per sempre. Forse non volevo nemmeno concepirlo nella mia mente.

Assorta nei miei pensieri, non mi ero accorta di mia madre che mi incitava a scendere dalla macchina. La guardai con un'aria spaesata e, senza dire nulla, mi affrettai a scendere.
Percorremmo una piccola discesa a piedi, inumidita dalla pioggia ormai cessata, ed un centinaio di metri dopo arrivammo a quel fatidico portone.

L'ospedale si chiamava "Giardino Verde", sembrava quasi un eufemismo. Di verde non c'era nulla a parte le scritte e di prati non se ne vedevano nemmeno l'ombra. A lato dell'ospedale era situata una piccola zona incolta con qualche altalena arrugginita dalle intemperie, ma nessuno ci andava mai da anni. Era un enorme edificio in cemento con delle piccole finestre. Alcune avevano le serrande alzate, ma la maggior parte erano serrate quasi da non voler lasciar passare nessun raggio di luce.
Entrammo con passo sostenuto ed un'infermiera ci salutò dandoci il benvenuto dall'ufficio informazioni. La ringraziai di rimando, ma mia madre non la degnò di uno sguardo. Si limitò a camminare lungo il corridoio che portava all'ascensore.
Il bianco regnava in quel luogo e l'unico tono di colore era il verde del pavimento e dei battiscopa.

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