31: in cui si viene messi alla prova dalla vita

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Le ore iniziarono a trascinarsi lente e dolorose, come gocce di condensa su un vetro appannato. Sergio smise di piangere, Diego di parlare. Natalia si fissava le ginocchia scoperte, sfuggite alla fasciatura della gonna da cameriera. C'era talmente tanto silenzio che le orecchie di Kim si riempirono inesorabilmente di sibili e delicati scricchiolii, come se i suoi timpani stessero trasmettendo messaggi Morse direttamente dal flusso sanguigno. Aveva fame, ma ormai quello non era che un pensiero di sottofondo rispetto al desiderio primario, quello di bere. Labbra rotte, lingua secca. Le bruciavano gli occhi e il suo cervello era ormai fisso sul pensiero di quanto sarebbe stato bello poter sentire l'acqua scivolarle sulla lingua e poi in gola. Avrebbe ucciso per avere qualcosa di diverso dalla sua saliva ipersalata da deglutire. 

Si sarebbe morsa un braccio e avrebbe leccato il proprio sangue pur di bere qualcosa. Se lo era detto scherzando, cercando di fare ironia con sé stessa, ma poi aveva iniziato a ripetersi quella frase fino a quando non era diventata una sorta di mantra. Ora ci credeva ciecamente e non poteva impedirsi di lanciare continue, frettolose e desiderose occhiate alle perle color smeraldo. Erano ancora quattro, ma per quanto sarebbero rimaste tali? Sergio non aveva più dato segni di volersi arrendere alla scappatoia offerta da quelle pillole per lotofagi, ma a Kim non era sfuggito il modo con cui Natalia, a volte, sembrava fissarle con sguardo svogliato, assente. Oh, conosceva quella tattica: la utilizzava anche lei, nonostante ormai non trovasse neanche più necessario fingere.

Forse quelle caramelle erano rinfrescanti. Forse avrebbero potuto alleviare la cocente arsura che piano piano divorava la sua lucidità, lasciando nel suo cervello solo un tarlo grasso e ingordo a rosicchiare i suoi pensieri ossidati dai bisogni della sopravvivenza. Avrebbe voluto dormire, ma ogni volta che socchiudeva gli occhi, il suo cervello ne approfittava per costruire pensieri deliranti e spaventosi, vere e proprio praline al gusto di incubo che le facevano battere il cuore all'impazzata e la facevano ricadere nella realtà come quando si sogna di precipitare nel vuoto. Dopo la terza volta che accadeva, aveva versato una lacrima per l'angoscia e si era ripromessa di stare sveglia. Ma non era facile. Per niente.

Aveva capito che i bambini, o chi ragionava per loro, erano ben più furbi di quanto avessero valutato. Non li avevano rinchiusi lì in attesa di chiamare sulla nave altri demoni dei vapori, no. L'intento principale di quella gente era sfruttare i loro bisogni umani per ridurli in suo potere. Perché era questo che sarebbe successo a breve: la fame, la sete, la paura di impazzire avrebbero avuto la meglio. La loro stessa natura umana si sarebbe rivoltata contro di loro, come un cane che si morde la coda. E allora sarebbe stato troppo tardi per sperare di salvarsi.

Kim distolse lo sguardo dalle sfere verdi non appena si rese conto di averle fissate apertamente molto più di quanto si fosse concessa fino a quel momento. Ebbe un moto di disperazione e si appigliò sconfortata al sollievo che sarebbe derivato dalla morte. La morte metteva fine ai desideri umani, no? Non era forse definita come riposo eterno? Questo le avevano insegnato anni di libri e film e discorsi con i suoi coetanei. La religione dei suoi nonni, però, parlava chiaro: si stava bene nell'Altro Mondo, certo, ma un morto non sepolto e onorato dalla famiglia, si trasformava in uno spirito maligno. Kim non voleva crederci. Aveva smesso di farlo all'università, quando aveva bollato le superstizioni e le credenze popolari come informazioni infondate, buone solo per spaventare o affascinare i bambini. Aveva visto i suoi compagni ridere di quelle sciocchezze e anche lei, col tempo, aveva riso con loro. Erano racconti e invenzioni, niente di più. Storielle che si narravano per non annoiarsi durante i noiosi lavori contadini o alla sera, sulla veranda della casa degli avi.

Da bambina aveva avuto paura di molte cose, ma nulla l'aveva terrorizzata più della storia del fratello di sua nonna, l'uomo che aveva dato il nome ad An. Il primo An era stato un giovane di venticinque anni disperso di guerra, scomparso nella foresta, mai più ritrovato. Sua nonna lo aveva pianto e tuttora lo piangeva, ma la sua disperazione non era tanto legata alla sua morte prematura quanto al fatto che non era stato sepolto come dovuto. Aveva inculcato con cura la regola a tutti i suoi nipoti: un morto non sepolto e non onorato, non poteva conoscere pace. Quante notti insonni aveva passato, ripensando a quel povero soldato errabondo, senza tomba né serenità, perso in una foresta buia e spaventosa in attesa che qualcuno trovasse le sue spoglie e desse loro degna sepoltura, ogni anno che passava sempre meno fiducioso, sempre più solo.

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