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Dancing - Elisa

***

Strofinavo una forchetta nella cucina del Tetch, mentre osservavo quella macchia incrostata che non riuscivo a scacciare via. Strofinai con più forza e questa, dopo vari tentativi, finalmente svanì. Dovevo ancora pulirne altre, così non mi persi d'animo e ne colsi un'altra dal cesto ricominciando a strofinare. Altre macchie, altra sporcizia da cancellare.

Da cancellare, come la mattina che era appena trascorsa.

Sfregai lo straccio sul metallo freddo e anche questa macchia si pulì.

Lo sporco se ne andò, come i sentimenti che per anni avevo occultato, dissimulato, taciuto, e che ora stavano riaffiorando con dubbi, rabbia e un po' di paura. Anzi, parecchia paura.

La nebbia mattutina che impregnava l'aria non era mai stata così asfissiante e fastidiosa come quando ci eravamo incamminati verso un bar in cui poter discutere riguardo a quella cosa di cui doveva parlarmi. La sua immagine perfettamente curata si era ripresentata come una vecchia fotografia che avevo odiato e che continuavo ad odiare con tutta me stessa.

-Che mi devi dire, allora?-

-Ancora non abbiamo di fronte una tazza di tè, o sbaglio?-

Ero esasperata, non resistevo più e il pensiero di dover essere già al Tetch a lavorare mi pressava almeno quanto il desiderio di conoscere il motivo della sua inaspettata presenza a Londra.

-Non facciamo i bambini, siamo entrambi cresciuti per questo. Dimmi cosa vuoi da me, qui e adesso.-

Si era bloccato e aveva sospirato, sorridendo. Mi aveva fissato per qualche istante ed io avevo pensato che effettivamente fossi più che convinta che non me lo avrebbe detto, se non nel modo, nel luogo e nel momento da lui stabilito. Ma poi, ancora più inaspettatamente, -Ci ho pensato a lungo, devi credermi...- aveva detto finalmente.

-Hai pensato a cosa?-

Mi aveva guardato un'altra volta e stranamente avevo notato uno sguardo oppresso e mortificato.

-Ho pensato di aver fatto un errore enorme a lasciarti andare così, a diciotto anni. Non avrei dovuto agire in quel modo, come se non mi importasse nulla di te.-

Volevo davvero lasciarlo lì, in mezzo alla strada, senza neanche guardarlo un'ultima volta, e poter tornare a mandare avanti la mia vita, quella che stavo faticosamente costruendo. Ero schifata dalle sue parole: soltanto stupide, inconsistenti e banali parole prive di efficacia.

Avevo alzato gli occhi, ma lui aveva ripreso a parlare dopo aver sospirato nuovamente: -E' che ero troppo preso dal lavoro. Volevo porre le basi per una vita soddisfacente per te, per il tuo futuro...-

Che ridicolo, avevo pensato sospirando, mentre lui proseguiva senza badare alla mia reazione: -Torna da me prima che sia troppo tardi. Torna e potremo ricominciare tutto daccapo. Potrò riparare ai danni che ho commesso in passato, potrò portarti con me nella mia nuova sede, offrirti un lavoro al mio fianco, recuperare il tempo perso...- Avevo già smesso di ascoltarlo.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Voleva che io lo chiamassi "papà" egoisticamente, voleva che io lo riconoscessi come tale tramite un affetto materiale, non quello familiare, quello vero, quello sincero, che avevo trovato a casa di Harry durante il Natale.

Un vero padre non dovrebbe volere la felicità della figlia?

-Non c'è nulla da fare ormai. Nulla che sia possibile riparare.-

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