Prologue.

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8 Agosto 1956, Boston.

Ore: 04:34


<< Vi prego... mio figlio... non portatemi via mio figlio! >>

Le urla agghiaccianti della giovane Compagna rinchiusa in cella ferirono il fragile udito di Dragos, che si portò un dito sulle labbra invitandola a tacere.

La donna lo guardò, scioccata da quel comando espresso con tanta eleganza. Poi gridò di nuovo, costringendo il vampiro ad alzarsi e tirare un calcio contro le sbarre in metallo della gabbia.

Non bastò a farla zittire.

Una pozza di sangue si estendeva sotto le sue cosce semichiuse, tremanti a causa dell'allucinante parto che l'aveva vista protagonista qualche mezz'ora prima. La giovane prigioniera non sapeva calcolare con certezza il preciso istante in cui suo figlio era venuto al mondo.

Sapeva solo che quel viscido verme voleva portarglielo via.

E che lei, al contrario, voleva tenerlo con se.

La pancia gonfia le si sollevava vistosamente ad ogni respiro smorzato, ma nonostante la fiacchezza, il volto madido di sudore puntava maledetto contro il bastardo che aveva intenzione di strapparle l'unica gioia avvenuta in quei lunghi anni di prigionia.

Non gliel'avrebbe permesso. A costo di morire.

A costo di fare follie, come qualunque donna rinchiusa in quel bunker fetido e rivoltante avrebbe fatto.

Un colpo di vertigine le scosse lo stomaco, ma lo sopperì.

Non era il momento di mostrarsi debole, quello.

<< Mio figlio...! Ridammelo! >>

<< Non è più tuo figlio. >>

La risposta fredda del vampiro le congelò le gote pallide, ma non bastò a smuoverla. << Lurido mostro! >> urlò, costringendo tutte le altre prigioniere a puntarle addosso gli occhi spaventati.

Anzi, terrorizzati da ciò che stava avvenendo. Dalla consapevolezza che si stava addentrando nei loro cuori angosciati.

La donna guardò quei volti sconfitti con fare adirato, furioso, costringendone molti a chinarsi per l'imbarazzo. Nessuna poteva comprendere il suo dolore, nessuna cazzo.

Stavano portando via suo figlio.

Il suo bambino.

E presto ne avrebbero portati via altri.

Ecco a cosa servivano loro lì.

<< Porta via di qui il bambino, forza. Impediscigli di vedere la madre. >>

<< No! >> ruggì forte, un grido che le sconquassò il petto, gli occhi dorati inondati di una furia ceca.

No, no.

Nelle vene di quel cucciolo scorreva il suo sangue. Il suo, non quello di Dragos.

Fino a prova contraria, il bambino apparteneva a lei. Era stata lei a dargli la vita, a nutrirlo per nove mesi. Sentiva di volerlo amare, proteggerlo da quelle mani grosse che ora lo tenevano imprigionato, lontano. Se avesse potuto, avrebbe piegato le sbarre e sarebbe corsa da lui, a salvarlo.

A coccolarlo tra le braccia giuste, insegnargli a camminare, sussurrargli parole d'amore per tranquillizzare i suoi pianti isterici.

Dragos le stava portando via la cosa più preziosa che aveva, e le prime lacrime di dolore sgorgarono copiose quando il Servo che teneva il suo piccolo fagotto sparì oltre la porta di ferro.

Si richiuse con un tonfo secco, deciso.

Quello del non ritorno.

<< Schifoso, fammi vedere mio figlio! >> si aggrappò alle sbarre, ignorando il dolore lancinante alla pancia quando scivolò sulla pozza del suo stesso sangue. << Fammi vedere i suoi occhi, cristo! Almeno i suoi occhi! Non puoi farmi questo, dio, voglio indietro mio figlio! Mio fi--

Non fece in tempo a finire la frase. Dragos entrò nella cella e le tirò un pugno devastante, schiantandole il cranio contro la parete fredda, parete che ormai era diventata la sua nuova casa, parete che fino a quel momento aveva assorbito tutti i suoi pianti e le sue grida di dolore.

Una crepa si formò lì dove aveva sbattuto con la testa.

Il suo corpo scivolò debole, il battito cardiaco fiacco, l'adrenalina paralizzata nelle vene.

Poi tutto divenne sfocato, e infine il buio calò sui suoi occhi dorati, serrandoli dolcemente.

Hunter programWhere stories live. Discover now