•Capitolo XXVIII

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La musica si è interrotta, la magia spezzata e in pratica io vengo travolta dalla folla. Gli invitati corrono senza controllo e le loro grida mi perforano i timpani. Qualcuno mi afferra per un polso e mi trascina via.

Merda, che diavolo sta succedendo? Un secondo prima stavo ballando con Derek, mentre quello dopo... questo. — Chiudete tutte le entrate, subito! — tuona mio padre con voce così potente che, persino dall'altra parte dell'enorme salone, lo sento nitidamente.

— Derek, che succede? — bisbiglio, troppo spaesata per poter essere spaventata. Siamo schiacciati contro la parete latitudinale, nell'unico angolo in cui la concentrazione di persone sembra minima, ovvero sotto la scalinata laterale, attaccata alla parete e accanto a quella dalla quale siamo scesi. Il mio respiro è sempre più irregolare.

— Non lo so, quando è iniziato stavo ballando con te. Improvvisamente c'è stata un'esplosione e si è scatenato il caos — bisbiglia. — È molto probabile che sia un'imboscata, forse ribelli... non ho la minima idea di come abbiano fatto a penetrare dentro l'edificio.

Mio padre ha dato l'ordine di chiudere tutte le entrate... e sappiamo entrambi che è un'arma a doppio taglio: intende trovare all'istante i responsabili dell'attacco, ma ciò significa che nessun invitato può scappare, dunque che molte persone moriranno. Il cosiddetto «il fine giustifica i mezzi.»

Spero davvero che ne valga la pena.

Una donna cade ai miei piedi; i suoi graziosi boccoli nocciola sono sfatti, mentre il lungo vestito è imbrattato, sulla parte alta del torace, di sangue. Troppo per sperare che la vita sia ancora nelle sue vene.

Stranamente, la fisso senza scompormi. — Devo andare da mio padre — affermo, voltandomi verso Derek. — Sai bene che né io, né te, per quanto lo desideriamo, possiamo restare qui. Ti prego, trova tutti, anche Alya e Thomas. Ci rincontriamo qui tra un'ora — dichiaro, e per la velocità e la decisione delle mie parole, non riesce a ribattere all'istante.

— No, aspetta, dobbiamo prima ragionarci. Se uscirai allo scoperto nella folla, ti ammazzeranno! Per cosa credi che siano qui? — replica, al limite dell'esasperazione.

— Succederà anche se restiamo qui fermi, perché prima o poi il numero dei morti supererà quello dei vivi e ci troveranno — mormoro. — Derek... da quando hai così paura?

Lui non risponde, e il suo viso si contrae in una smorfia di dolore. Avanza verso di me e con uno slancio mi prende il volto, affondando le sue labbra nelle mie. — Se non ti trovo qui tra un'ora, giuro che distruggo questo posto — sussurra, mentre io mi apro in un sorriso.

— Affare fatto — Non posso trattenermi oltre, perché se lo facessi perderei la forza per uscire e inoltrarmi in questo mare di disperazione.

Forza... non so cosa mi spinga a farlo, ma so per certo che non è perché dentro di me possieda un forza innata. D'altro canto, non ho nemmeno paura. In questo momento sono in un placido e vanificante intermezzo tra le due, dove nulla è presente. È strano sentirsi in bilico quando sono nel bel mezzo di uno strapiombo.

Continuo a camminare senza mai sfiorare la corsa, senza mai sfiorare un attacco. Sono nell'occhio del ciclone ma al contempo non ne faccio parte.

Quando mio padre entra nella mia visuale, mi sembra sia una visione, e al contempo mi sembra di ripiombare nel mondo reale. Scuoto la testa e lui mi adocchia. Corre verso di me. — Abigail, stai bene? Sei ferita? — domanda, con un'apprensione che non aveva mai calcato le sue parole.

— No, sto bene. Tu? — azzardo.

— Sto bene — mormora, e nonostante il caos circostante, tra noi per un istante è il silenzio.

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