04. 2016

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L'acqua era calda e perfettamente trasparente, pura come avrebbe potuto esserlo l'acqua appena sgorgata da una sorgente. Guy mise una mano sotto il getto, come per accertarsi che fosse reale, poi chiuse il rubinetto, come gli era stato fatto vedere da uno degli infermieri.
Di tutte le cose strane che lo circondavano, quella stanza era senza dubbio la più interessante.
Bastava un solo tocco per avere acqua pulita, calda o fredda, a volontà, senza che nessun servo dovesse perdere tempo a prenderla dai pozzi o dal fiume e a farla bollire sul fuoco e poi c'era una specie di latrina, completamente diversa da quelle orribili e fetide del castello.
L'infermiere che gli aveva pazientemente spiegato come usare gli oggetti di quella stanza gli aveva mostrato anche il funzionamento della cabina trasparente che occupava uno degli angoli, azionando un getto d'acqua che serviva per lavare tutto il corpo di una persona senza dover usare un catino o riempire una vasca. L'uomo gli aveva detto che lui avrebbe dovuto aspettare che le sue ferite fossero guarite prima di poter usare la doccia, ma già il lavandino con la sua acqua calda e limpida era un netto miglioramento rispetto alle brocche e ai catini a cui era abituato.
Guy si appoggiò al lavandino per non perdere l'equilibrio e chiuse gli occhi per un attimo. Negli ultimi giorni aveva iniziato ad alzarsi da letto per periodi sempre più lunghi e riusciva a camminare nella stanza senza troppi problemi, ma si sentiva ancora debole e a volte gli girava la testa quando restava in piedi troppo a lungo.
Rimase chinato in avanti e respirò piano per un po' finché non si sentì meglio, poi rialzò lo sguardo e fissò la propria immagine nello specchio: era sempre lui, ma gli sembrava di essere cambiato, come tutto il mondo che lo circondava.
L'immagine riflessa era limpida e precisa, non offuscata come quella dello specchio che aveva nella sua camera di Locksley, e gli permetteva di vedersi in ogni minimo dettaglio, dalla piccola cicatrice che gli era rimasta sulla fronte dopo la malattia che aveva avuto da piccolo e che aveva fatto riempire di bolle sia il suo corpo che quello di Isabella, al segno sottile che il pugnale di Robin Hood gli aveva lasciato sulla guancia. Sullo zigomo, appena sotto l'occhio, era visibile la lieve traccia di una cicatrice ormai quasi sbiadita, il taglio causato dal pugno di Marian quando lo aveva lasciato all'altare...
Guy si sfiorò quella piccola traccia di lei e pensò che ormai anche quella stava svanendo. Presto dell'unica donna che avesse mai amato non sarebbe rimasto più nulla se non il ricordo.
Ti ha perdonato...
Guy si aggrappò alle parole che Robin gli aveva rivolto in sogno, pregando che fossero vere. Lui non meritava il perdono, non meritava pietà per averla distrutta, ma saperla in pace e felice con il suo vero amore era allo stesso tempo un tormento e una consolazione.
Anche se fosse stata ancora viva non sarebbe mai stata sua, ormai se ne era reso conto, ma Guy avrebbe sacrificato lo stesso tutto il tempo che gli restava da vivere solo per poterla stringere in un ultimo abbraccio, per poter ricevere il perdono dalle sue labbra e sentirsi dire da lei che sarebbe andato tutto bene.
Ma era un desiderio impossibile e lo sapeva: era solo e sperduto in un mondo che non comprendeva.
Si guardò allo specchio, chiedendosi come potesse apparire agli occhi degli altri.
Un tempo la gente dei villaggi lo temeva, era spaventata dalla sua presenza e si ritraeva al suo arrivo, ma ora le persone che si prendevano cura di lui lo trattavano con gentilezza e con una cautela quasi eccessiva, come se avessero il timore di ferirlo, come se fosse più fragile di quello che in realtà era.
Era debole per le ferite e faticava a comprendere una buona parte di quello che vedeva, ma alcuni di quei guaritori si erano rivolti a lui come se fosse stato un bambino piccolo o un folle completamente incapace di intendere e di volere. Quando aveva intimato loro di smetterla di trattarlo come un idiota, si erano semplicemente scusati e avevano scritto qualcosa nel fascicolo che avevano sempre a portata di mano ogni volta che avevano a che fare con lui.
Guy si era chiesto se quelle scuse fossero sincere o se si fossero semplicemente limitati a dargli ragione per evitare un conflitto.
Toccò lo specchio con un sospiro.
- Ho perso la ragione? È per questo che sembra tutto così diverso?
Ma tutto quello che lo circondava era troppo reale e solido per essere nato dai deliri di un folle.
Quando aveva ucciso Marian, per un lungo periodo aveva avuto l'impressione di poter vedere il suo spettro, di sentire le sue parole di accusa. Qualunque cosa facesse, la vedeva accanto a lui, pronta a puntare il suo dito esangue a indicare le sue colpe. E la notte, quando chiudeva gli occhi, esausto dopo un altro giorno di angoscia, i demoni erano in agguato nell'ombra, pronti a straziargli l'anima coi loro artigli.
Quelli erano gli incubi di un folle, pensieri confusi e spezzati che gli impedivano di fare qualsiasi cosa. Per giorni, dopo averla uccisa, era rimasto a fissare il vuoto, dimenticandosi di mangiare o di lavarsi, perso nei propri incubi, e se lo sceriffo non avesse ordinato alle guardie di occuparsi di lui, probabilmente Guy si sarebbe lasciato morire perché semplicemente non aveva alcun motivo per continuare a vivere.
Ma ora era in grado di pensare in maniera coerente, i suoi pensieri non seguivano il ritmo frammentato di un delirio. Era confuso e spaventato da tutto ciò che vedeva e il suo cuore era afflitto nel pensare a tutto quello che aveva perduto, alle persone che gli erano care e che non avrebbe rivisto mai più, ma non credeva di essere in preda alla follia.
Robin Hood era morto, ormai ne aveva la certezza. Se lo sentiva nel cuore e il sogno che aveva fatto era stata solo un'ulteriore conferma.
Quello che non avrebbe potuto immaginare era che avrebbe sentito così tanto la mancanza del fuorilegge, che la sua morte lo avrebbe addolorato a tal punto.
Si erano odiati e combattuti per anni e nel corso della loro vita ognuno aveva strappato all'altro qualcosa di molto caro, ma alla fine Robin gli era stato accanto. Come un amico. Come un fratello.
Ogni volta che Guy faceva il nome di Robin Hood, medici e infermieri si lanciavano brevi sguardi perplessi e preoccupati, come se sapessero qualcosa che non volevano dirgli.
Gisborne decise che avrebbe dovuto insistere, costringerli in qualche modo a confessare la verità, ma non sapeva come fare.
Erano tutti gentili con lui: si prendevano cura delle sue ferite e cercavano di assecondare le sue esigenze e di metterlo a proprio agio, ma aveva l'impressione che se avesse provato ad allontanarsi dalla sua stanza glielo avrebbero impedito. Avrebbero detto che doveva restare lì per il suo bene e forse avevano anche ragione, non avrebbe saputo affrontare quel mondo assurdo da solo, ma di fatto era come se fosse un prigioniero. Inimicarsi i propri carcerieri senza un motivo valido sarebbe stato sciocco.
E poi dove avrebbe potuto andare senza avere nemmeno i propri vestiti? Glieli avevano tolti quando lo avevano soccorso e gli avevano dato solo degli indumenti intimi e una specie di camicia da notte che era stata pratica quando era stato costretto a restare a letto, ma che ora era piuttosto scomoda e un po' ridicola. Quell'abbigliamento lo faceva sentire sgradevolmente vulnerabile.
Qualcuno bussò alla porta del bagno, riscuotendolo dai suoi pensieri.
- Guy? Va tutto bene?
Era la voce della dottoressa Little, una dei guaritori che si occupavano di lui e forse quella che aveva più pazienza nel rispondere alle sue domande e spiegargli ciò che non riusciva a capire da solo.
Un altro dei vantaggi di rifugiarsi in quella stanza era che gli altri non entravano senza preavviso quando lui era lì dentro, ma si limitavano a bussare e ad accertarsi che non avesse problemi. Era una specie di rifugio sicuro dove potersi nascondere quando quello che vedeva intorno a lui iniziava a diventare troppo difficile da sopportare o quando i dottori gli facevano troppe domande.
Aveva imparato che gli bastava dire che doveva andare in bagno e gli altri lo lasciavano andare senza chiedergli nulla e senza disturbarlo.
In quel momento non sentiva l'esigenza di restare solo, perciò socchiuse la porta e sbirciò dalla fessura prima di aprirla del tutto: la dottoressa era sola, non accompagnata da altri medici o infermieri.
La donna gli sorrise.
- Buongiorno, Guy. Come ti senti oggi? Posso controllare le tue ferite?
Guy annuì e sedette sul letto, fissando lo sguardo a terra per dissimulare l'imbarazzo che provava.
Alicia gli aveva spiegato che esaminare i pazienti faceva parte del suo lavoro che che non aveva motivo di vergognarsi. Inoltre, a differenza dei primi giorni, ora indossava almeno gli indumenti intimi, però non poteva fare a meno di arrossire quando la donna gli sollevava il camice per cambiare le medicazioni e guardare la ferita.
La dottoressa lavorò in maniera veloce ed efficiente, consapevole del disagio del suo paziente.
- Mi sembra che vada tutto bene. Provi dolore?
- No, non molto. Solo se faccio determinati movimenti.
La dottoressa gli sorrise.
- E tu non farli allora.
Un sorriso guizzò all'angolo della bocca di Guy e la dottoressa si rallegrò nel vederlo un po' più sereno del solito.
- Ti ho portato qualcosa da indossare al posto del camice.
- I miei vestiti?
- Temo di no. Quelli li ha presi la polizia, devono esaminarli per capire cosa ti è successo.
- Ve l'ho detto cosa mi è successo. Molte volte. Non mi credono?
- Devono fare lo stesso le loro indagini, non prendertela. - Alicia gli porse una busta di carta. - Ma ora prova questi e vedi se la misura ti va bene. Sei un ragazzo alto, spero di non aver sbagliato.
- Ragazzo? Alla mia età?
La dottoressa sorrise.
- Per una della mia età lo sei. Concedi qualche libertà a una vecchia signora.
Guy le rivolse uno sguardo divertito, ma prese il sacchetto e sparì di nuovo in bagno. Nella busta c'erano un paio di pantaloni neri di stoffa morbida, alcune magliette con le maniche corte fatte di un materiale più leggero e una specie di giacca aperta sul davanti ricavata dallo stesso materiale dei pantaloni.
Guy si chiese come mai i pantaloni non avessero dei lacci per chiuderli, ma toccandoli si accorse che intorno alla vita il materiale era elastico, simile a quello degli indumenti intimi che gli avevano dato. Li infilò senza troppe difficoltà, badando solo che l'elastico non toccasse le ferite, poi indossò una delle magliette, scegliendone una nera, e la giacca della tuta, lasciandola aperta perché non aveva lacci o fibbie per chiuderla.
Prima di tornare dalla dottoressa si guardò allo specchio per un attimo: non erano gli abiti a cui era abituato, ma erano già un miglioramento rispetto al camice ospedaliero e lo facevano sentire un po' meno vulnerabile.
Quando Guy tornò in camera, Alicia approvò con un sorriso.
- Mi sembra che vada bene. L'elastico dei pantaloni è troppo stretto? Ti dà fastidio?
- No. Anzi, forse è un po' largo.
La dottoressa guardò la cartella clinica.
- Mangi abbastanza, Guy?
- Non ho molto appetito. E poi...
- Cosa?
- Spesso non so nemmeno cosa sia quello che mi danno. Il cibo ha un sapore strano. Se non conosco il sapore che dovrebbe avere, come posso capire se è sicuro mangiarlo?
- Cosa intendi?
- Nei periodi di carestia, o durante l'inverno i cuochi del castello erano costretti a usare gli ingredienti che avevano messo da parte e non sempre erano conservati bene. A volte la carne era troppo vecchia e il grano ammuffito e, per timore di non poter servire nulla alla tavola dello sceriffo, spesso i cuochi cucinavano usando anche gli ingredienti guasti. E poi c'è sempre il pericolo del veleno: se sento che un sapore è diverso dal solito, non mi fido a mangiare quel cibo senza prima farlo assaggiare a uno dei servitori.
Alicia lo guardò, allibita, ma gli sorrise.
- Posso assicurarti che il cibo dell'ospedale non sarà il massimo come sapore, ma è perfettamente sicuro. Gli ingredienti sono di buona qualità e nessuno ha l'intenzione di avvelenarti. Cerca di mangiare i pasti che ti danno, ne hai bisogno per riprendere le forze. E se hai qualche dubbio sugli ingredienti, chiedi pure.
- Ci proverò.
La dottoressa gli sorrise, poi tornò seria, con un piccolo sospiro.
- Guy, devo farti alcune domande, potresti cercare di rispondermi sinceramente?
- Non vi ho mai mentito.
- Puoi dirmi il tuo vero nome?
Guy si accigliò.
- Lo conoscete già. Guy di Gisborne.
- Ascoltami, forse hai paura che lo riferiamo alle autorità, forse hai fatto qualcosa che non dovevi, ma è importante che contattiamo la tua famiglia per aiutarti nel modo migliore. Puoi fidarti di noi.
- Ma è evidente che voi non vi fidate di me! - Guy la guardò, ferito da quelle parole. - Non vi ho mai mentito. Mai!
- Ma forse ci hai detto quello che vuoi credere. La tua mente potrebbe essersi ingannata da sola per qualche motivo, inducendoti a credere di appartenere al mondo di Robin Hood. Ma forse se ci pensi bene, potrebbe venirti in mente il tuo vero nome...
- Il mio vero nome è quello che vi ho ripetuto fino alla nausea: Guy Crispin di Gisborne. E poi perché parlate tutti di Robin in quel modo?!
- In quale modo?
- Come se aveste tutti un segreto che volete tenermi nascosto. Avete uno sguardo strano ogni volta che parlo di lui, perché?
La dottoressa lo fissò per qualche attimo senza dire nulla. Era sicura che non stesse mentendo e si chiese cosa avrebbe dovuto fare.
Gli esami non avevano rilevato danni o anomalie cerebrali e quando parlava con lui aveva notato che i suoi discorsi erano lucidi e coerenti, dimostrava curiosità e intelligenza ed era capace di ragionamenti complessi.
Se non fosse stato per quella storia di Robin Hood, Alicia avrebbe pensato che fosse perfettamente normale, traumatizzato dall'incidente, ma sano di mente.
Alicia prese una decisione, sperando che fosse quella giusta. Sapeva prima di prendere l'iniziativa che avrebbe dovuto consultarsi con i colleghi e probabilmente chiedere un consulto psichiatrico, ma se lo avesse affidato a un altro reparto avrebbe avuto l'impressione di tradire la sua fiducia.
Prese una sedia e sedette di fronte a lui, guardandolo negli occhi.
- Perché non è possibile, Guy. Non puoi aver conosciuto Robin Hood.
Gisborne la guardò, offeso.
- Mi state dando del bugiardo? Robin mi ha tenuto tra le braccia quando stavo morendo, ha cercato di rendere sereni i miei ultimi momenti anche se stava morendo anche lui e voi mi dite che non è vero? Che mi sto inventando tutto?!
- Quando è successo questo?
- Pochi giorni fa, quando sono stato ferito.
Alicia prese un oggetto dalla propria borsa e glielo mise tra le mani.
- Allora come puoi spiegarmi questo?
Guy guardò l'oggetto e vide che era un libro. Era molto diverso da quelli che aveva visto in passato, ma inequivocabilmente un libro.
La copertina di tela era un po' consumata e rovinata dal passare degli anni e aveva l'aspetto di essere stato letto molte volte. Guy lo osservò meglio e sgranò gli occhi nel vedere il disegno di un arciere vestito di verde sulla copertina e la scritta "Robin Hood" in lettere dorate.
Guy fissò la dottoressa.
- Cosa significa?
- Devi spiegarmelo tu, Guy. Leggevo questo libro quando ero una bambina e Robin Hood è un eroe del passato, una leggenda antica. Come puoi averlo visto solo pochi giorni fa? Forse hai letto questo libro anche tu e l'incidente ti ha confuso le idee facendoti credere che quelle storie fossero ricordi.
- No! Io conosco Robin! Volete ingannarmi, per caso?
- Apri il libro. Guarda la data in cui è stato stampato, è scritta proprio qui, 1972. Come posso ingannarti se quel libro è stato stampato più di quaranta anni fa?
Alicia indicò la data, ma Guy scosse la testa, ostinato.
- Non ha senso. Quella data non può essere esatta.
- Perché no?
- Perché? Vi prendete gioco di me? Avete detto 1972.
- Infatti. Te l'ho detto: è stato pubblicato quarantaquattro anni fa.
- Ma siamo nel 1194!
- Guy, questo è il 2016. Ora capisci perché non puoi aver conosciuto Robin Hood?
Gisborne si alzò in piedi di scatto.
- No! State mentendo! State dicendo queste cose solo per confondermi!
Voltò le spalle ad Alicia e aprì la porta della stanza, avventurandosi nel corridoio: lì fuori c'erano molti più rumori e oggetti strani, ma Guy non si lasciò intimidire, vide una rampa di scale che scendeva e si diresse in quella direzione a passo svelto, anche se quell'andatura gli faceva girare la testa.
- Guy! Aspetta, Guy! Dove stai andando?! - La dottoressa lo seguì, ansiosamente.
- Via di qua! Non so quali scopi abbiate, ma non mi lascerò raggirare dalle vostre bugie assurde! Volete farmi credere di essere pazzo, ma so di non esserlo, non fino a credere a certe assurdità, perlomeno!
Alicia era costretta a correre per restare al passo con lui e per un attimo pensò di avvisare la sicurezza per farlo fermare, ma respinse quell'idea: il suo paziente era troppo agitato e non avrebbe reagito bene a una situazione del genere. Inoltre era preoccupata per la sua salute, non si era ancora ristabilito abbastanza per sostenere quel passo ancora a lungo.
- Ti giuro che vogliamo solo il tuo bene, Guy.
- Il mio bene è tornare nella foresta di Sherwood, dai miei compagni! Forse Robin è morto, ma Archer no e nemmeno gli altri fuorilegge. Non potete impedirmi di farlo, a meno che non vogliate chiudermi nelle segrete!
Alicia decise di fare una scommessa con il destino.
- Va bene, allora. - Disse in tono tranquillo. - Se lo desideri, vai pure. Quella porta conduce all'esterno. Sarebbe più saggio da parte tua tornare tra qualche giorno per far medicare le ferite, ma non morirai in caso contrario.
Guy si fermò a guardarla, stupito.
- Non proverete a fermarmi?
- Probabilmente finirò nei guai con la polizia, ma sei un uomo adulto, non posso impedirti di andartene. Vai, se è quello che vuoi.
Gisborne si diresse verso le porte, ma il suo passo era già meno sicuro di prima: si era aspettato di dover lottare, ma a quanto pareva nessuno lo avrebbe fermato. Spinse l'anta della porta e uscì all'aperto.

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