Capitolo 10 - Noah.

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Per fortuna nella mia Mulberry portavo sempre il necessario per uscire, così, dopo aver frugato all'interno, ne estrassi una matita per gli occhi e il mio lucidalabbra alla pesca.

Acconciai i capelli in una treccia laterale e diedi un'ultima sbirciata allo specchio nella stanza di Jenna. Non ero troppo soddisfatta del risultato, anche perché sembravo una di quelle ragazze stampate sui calendari che fanno compagnia a camionisti sempre ubriachi di mezza età, però cercai di non prestarci troppa attenzione. Mi sistemai una ciocca di capelli, sfuggita alla treccia, dietro l'orecchio e poi afferrai la mia borsa, pronta per sfoggiare la mia quantomeno decente immagine davanti al proprietario del bar.

Jenna mi aveva scritto l'indirizzo su un foglietto di carta che io avevo prontamente già memorizzato, complice la mia perfetta memoria fotografica.
Prima di uscire, salutai la donna con un sorriso.

Quando mi ritrovai all'aperto, decisi di sfoggiare il mio miglior sorriso per dimostrare di essere sicura di me, anche se in realtà ero incredibilmente agitata.
Non avevo mai fatto un colloquio di lavoro prima, non sapevo come comportarmi e sapevo già che mi si sarebbe attorcigliata la lingua, ma dovevo provarci. Speravo solo di non incontrare Shane lungo la strada, o sarei stata perduta definitivamente. Avrebbe potuto farmi cambiare idea con uno schiocco delle dita e non era assolutamente quello di cui avevo bisogno adesso.

Nel giro di venti minuti, percorrendo il marciapiede principale e poi una stradina più in disparte, raggiunsi il luogo dove si trovava il bar. Che, in realtà, aveva più l'aria di essere un mini ristorante.

Fuori l'insegna recitava la scritta Da Noah.
Il portico in legno doveva essere all'incirca lungo una decina di metri, sulla facciata principale erano stampate un paio di finestre circolari. Mi tornarono in mente i film western di cui mio padre era tanto appassionato, perché le somiglianze erano inquietanti, anche per l'ambientazione: la stradina sotto i miei piedi era sterrata, polverosa, disseminata di buche. Fuori erano parcheggiate solo poche auto e qualche bicicletta, non doveva essere un locale troppo frequentato. Tanto meglio, pensai.

Mi feci coraggio, inspirai ed espirai, le mie dita strinsero più forte la borsa.
Mentre avanzavo a testa alta verso l'entrata, si alzò un leggero venticello caldo che mi smosse i capelli.

L'interno del locale era fresco, al contrario del clima che mi aveva avvolto finora, mi regalò una gradevole sensazione di benessere. I tavoli che lo componevano non erano tanti, una decina al massimo, tutti disposti contro le tre pareti frontali; il pavimento era formato da lastre di parquet scuro come i vecchi locali delle località rustiche delle riviste di architettura e design, e al centro vigeva un lungo bancone piantato su un rialzo anch'esso di legno.

C'era solo un uomo anziano seduto ad un tavolo in disparte che sorseggiava il contenuto di una tazza enorme con una cannuccia, ma il retro del bancone era vuoto.

Ne approfittai per darmi un'occhiata intorno e notai degli strani quadri rappresentanti animali, affissi alle pareti. Erano una moltitudine, tutti disposti in fila, avevano un'aria antica e mi attrassero terribilmente. Forse perché ero sempre stata un'amante della storia, dei reperti storici e questi quadri mi diedero l'impressione di appartenere a un'epoca piuttosto vecchia.

Non mi accorsi del mio sorriso da ebete fino a quando una voce non mi giunse alle orecchie, costringendomi a voltarmi.

«Le piacciono i quadri, signorina?» domandò una voce maschile.

Mi voltai appena in tempo per notare il sorriso cordiale di un ragazzo alto che trasportava un paio di scatoloni sotto le braccia.
Appena lo vidi, avvampai: non indossava niente, a parte un paio di jeans stretti in vita da una cintura, che nascondevano a stento la linea di una V decisa e marcata. Il torace era nudo, ricoperto da una leggera peluria chiara, composto da muscoli perfettamente torniti e in rilievo, la pelle leggermente olivastra tesa al di sopra di essi.
Un paio di occhi verde smeraldo mi fissarono in maniera penetrante, mentre provavo l'insano istinto di passare le dita in mezzo ai suoi capelli castani.

«Signorina?» mi chiese ncora, appoggiando uno alla volta gli scatoloni sulla superficie di un tavolo al suo fianco.

«Ehm, sì... » balbettai imbarazzata, schiarendomi la gola.

«Ha bisogno di qualcosa?»

Di un po' d'aria.

Lo fissai come se mi avesse appena chiesto di spogliarmi davanti a lui, prima di sbattere le palpebre.

«No!» risposi scuotendo la testa con aria piuttosto isterica, e feci per oltrepassarlo.
«Cioè, sì.»

Gli angoli della sua bocca si incurvarono verso l'alto, mentre si voltava verso di me.
Avevo la mano sulla maniglia e non sapevo come ci fossi arrivata.
Sentii un improvviso calore salirmi alle guance.

«Sta cercando qualcuno?»

«Sì» dissi a voce un po' troppo bassa rispetto al mio solito.

«In realtà ho sentito che i proprietari di questo locale stanno cercando un dipendente e... Ecco, sarei interessata.»

Non avevo idea di come fossi riuscita a pronunciare tutte queste parole di fila, complice forse l'agitazione che sentivo nella gola e che mi aveva bloccato il fiato non appena l'avevo visto, ma il ragazzo sembrò rifletterci su qualche istante, squadrandomi da capo a piedi in maniera quasi distratta.

«Lei non è di queste parti, vero?» mi domandò con un'espressione divertita.

«Come l'ha capito?»

«La sua borsa» disse mettendosi le mani sui fianchi.

Perfino quel gesto fu dannatamente virile.

«È una Mulberry e nessuno, qui, ha mai sfoggiato una Mulberry.»

Mi scappò un sogghigno.
E così conosce un capo di moda. È sicuramente gay.
Allora questo posto non era così fuori dal mondo.

«Sì, io sono di New York, ma ho deciso di prendermi una vacanza qui, in Alabama. Resterò per qualche mese e necessito di un lavoro.»

Lui annuì, poi si diresse al bancone e versò una birra in un grosso bicchiere di vetro.

«È assunta» decretò facendo scivolare il bicchiere verso di me.
«Sono il proprietario» chiarì come se la cosa non fosse già abbastanza ovvia.

Mi avvicinai con espressione guardinga, appoggiando i gomiti sulla superficie in legno.

«Davvero? Così, senza neanche un colloquio?»

Lui mi osservò con un sorriso, poi sollevò la testa e mandò giù un sorso di birra.

«Non ho bisogno di un colloquio per sapere che lei è la persona che stavo cercando» disse con un tono di voce talmente suadente che sentii un fremito inconsueto al basso ventre.

«Uhm, d'accordo» sussurrai afferrando il bicchiere e spostandolo verso di lui.

«Io non bevo, comunque, ma grazie del pensiero.»

«Mi chiamo Noah, comunque.»
Sembrò ignorare il mio commento precedente e mi tese la mano.

Feci una fatica immensa per distogliere l'attenzione dai suoi muscoli.

«Katherine» gli strinsi la mano e in quel momento sentii ancora quel calore espandersi sulle mie guance.

Sperai non se ne accorgesse.

«Sarà un piacere lavorare insieme, Katherine.»

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