IX

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Nel soggiorno del 221B di Baker Street era calato il silenzio. Emily era impietrita, sconvolta dalla rivelazione che John le aveva fatto così, a bruciapelo. Si era lambiccata il cervello per tre ore, aveva sopportato uno Sherlock annoiato alle prese con una pallina da tennis e una pistola - una pistola! - e poi, proprio quando si sentiva vicina a ottenere un primo e meritato successo in un campo che l'affascinava sempre di più, il migliore amico del suo coinquilino rovinava tutto.

John, dal canto suo, non era in grado di capire cosa avesse bloccato così la ragazza, né tantomeno perché Sherlock lo stava guardando a quel modo. Aveva detto qualcosa di sbagliato, quella era la sua unica certezza.

«Ben fatto, John» si complimentò sarcastico Sherlock.

«Cos... Ho detto qualcosa che non dovevo dire, vero?»

Gli sguardi di entrambi gli uomini si posarono su Emily e lì rimasero, in attesa di una sua reazione. Lei si riprese dopo diversi, lunghi, secondi di silenzio.

«La domestica» esclamò. «Ovvio! Ecco com'è stato possibile che la lettera venisse recapitata. È talmente banale che è paradossale che Scotland Yard non ci sia arrivata» disse, tutto d'un fiato.

«Ah, allora convieni con me che Scotland Yard si trova in difficoltà su cose da nulla» cercò improvvisamente manforte Sherlock.

John continuava a guardarli senza capire bene cosa fosse accaduto. Dopo il suo lungo silenzio Emily si era ridestata e pareva essere più energica e coinvolta che mai. Oltretutto lo stava completamente ignorando, cosa che gli risultò improvvisamente strana, sebbene gli diede modo di convincersi del fatto che, forse, non aveva fatto uno sbaglio tanto grande.

«Posso... posso sapere cosa succede?» domandò infine, avvicinandosi ai due inquilini del 221B.

«Stavo lavorando a quel caso» rispose Emily, alzando serenamente lo sguardo sul medico. «Quello del Vice Primo Ministro» aggiunse poi.

«Come, scusa? Perché ci stai lavorando tu? Vuoi dire che in realtà non è stato risolto?»

«No, no, niente del genere. È stato risolto, è stato Sherlock.»

Il detective si esibì in un'espressione piuttosto esaustiva, come a ricordare a John che molto spesso c'era lui dietro a certi articoli di giornale.

«Io stavo semplicemente cercando di risolverlo da sola, giusto per la soddisfazione di poter dire di essere riuscita a risolvere un caso» proseguì la ragazza, sempre in direzione del medico. «Solo che, adesso, serve a poco.»

John si sentì a disagio a quelle parole. Era vero che non aveva smascherato il colpevole di proposito, così come non poteva sapere che Emily stesse lavorando a quel caso – anche se solo per il piacere di farlo – eppure non poté fare a meno di sentirsi in colpa, come se avesse sottratto la ragazza a qualcosa che la faceva stare bene.

Tuttavia, come spesso capitava, Emily era tranquilla, senza la minima traccia di irritazione in volto per quello che era appena accaduto. Era ancora seduta alla scrivania, le carte sparpagliate sul piano, i capelli rossi spettinati, malamente raccolti sopra la testa. Alle sue spalle Sherlock era in piedi, una specie di elegante protettore dietro di lei.

«Mi dispiace molto» si scusò infine John, realmente dispiaciuto.

La ragazza, di tutta risposta, gli regalò uno dei suoi sorrisi più dolci. «Ti perdono. Ma solo perché non potevi saperlo.» Gli puntò contro la matita e assunse un'espressione fintamente minacciosa. «La prossima volta, però, gliel'ha farò pagare cara dottor Watson.»

The young redheadDove le storie prendono vita. Scoprilo ora