Capitolo 37: Fame - I

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Non aveva idea per quanto tempo avesse vagato senza una meta. I suoi piedi erano coperti di vesciche e tagli, le gambe segnate dai graffi, la pelle livida per il freddo. Non sapeva nemmeno quale motivo lo spingesse a compiere un passo dietro l'altro.

La sua pancia era dolorosamente gonfia e cercava invano di scaldarsi, sfregandosi le cosce e le braccia con dei gesti automatizzati.

Da tempo era entrato in uno stato comatoso, quindi ci mise qualche minuto a capire che quella in lontananza era una casa.

Una casetta di quelle che si vedevano nelle cartoline di montagna. Aveva un piccolo camino, da cui fuoriusciva un filo di fumo, e qualche luce era accesa. Era davvero minuscola, ma, nell'insieme, graziosa.

Avrebbe voluto andare più veloce, ma le sue gambe gli permettevano di mantenere solo quel ritmo dannatamente lento. Quando raggiunse la soglia, ormai i raggi del sole si erano allungati a sfiorare le cime degli alberi.

Non si preoccupò di bussare. Aprì la porta, scoprendo con pigro stupore che non era chiusa a chiave, e trascinò i piedi sullo zerbino.

La capanna era costituita da una sola, grande stanza, con una zona cucina, un televisore, un tavolino quadrato e, in fondo a destra, un letto ad una piazza e mezza. A sinistra c'era un piccolo separé oltre il quale era stata installata una doccia, e un piccolo ripostiglio con una libreria e dei cuscini ricoperti di peli di gatto. Nel letto c'era un fagotto di coperte variopinte, dal quale faceva capolino un ciuffo di capelli argentati.

– Chi sei tu? - sbottò una voce, tutt'ad un tratto.

Lui abbassò lo sguardo e scorse un gatto nero ai suoi piedi. I suoi occhi erano di un assai insolito viola. Buffo. Gli era quasi parso che avesse parlato.

– Ehi, sei sordo? Rispondi! - ringhiò la bestiolina.

Lui si sfregò gli occhi con i pugni, certo di aver avuto un'allucinazione. Cercò di parlare, ma aveva la gola talmente secca e la lingua tanto gonfia da riuscire solo ad emettere dei suoni inarticolati.

Dal letto provenne un grugnito lamentoso.

– Bonifax... sto cercando di dormire. Con chi parli?

Dal fagotto di coperte emerse un uomo imbaccuccato dalla testa ai piedi. Aveva limpidi occhi azzurri, segnati da delle brutte occhiaie.

– Oh, mio Dio. - balbettò, scendendo dal letto con un balzo. - E tu, chi sei?

– E' quello che gli stavo chiedendo io, genio. - si lamentò il gatto, stizzito.

L'uomo si avvicinò in punta di piedi e l'espressione sul suo volto si fece via via più incredula.

– Non è possibile. - sussurrò. - Io ti conosco.

– Cosa? Tu conosci questo tizio?

– L'ho visto nei miei sogni per mesi.

Il gatto assunse a sua volta un'espressione stupita.

Entrambi lo fissarono in un silenzio attonito, poi l'uomo si riscosse e andò a prendere una coperta, che pose attorno al suo corpo nudo.

– Guarda come sei conciato. Chi ti ha ridotto così, Timothy?

– Tim... othy. - ripeté lui, con un grande sforzo. Quel nome gli ricordava qualcosa che giaceva nei recessi della sua mente, seppellito e quasi dimenticato.

– Sì! Sì, è il tuo nome! - disse il giovane, in tono incoraggiante. Lo guidò fino al letto, dove lo fece distendere fra le coperte ancora calde, incurante del fatto che lui fosse sporco di fango e sangue dalla testa ai piedi. - Io, invece, sono Teddy. Sembrerà strano che ti conosca, ma di me ti puoi fidare. Sono tuo amico e ti aiuterò, se me lo permetterai.

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