2. Scuse

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CAPITOLO DUE:

Scuse

Ricordo la prima volta che decorai una tazza come regalo per mia madre.

Era un giorno soleggiato, ma spesso qualche nuvola passeggiera lo copriva. Era il compleanno di mia mamma e io, dall'altezza dei miei sei anni, decisi di pregalarle una tazza da caffè dipinta da me. Volevo vedere la faccia di mia madre sorridente e soddisfatta che teneva tra le mani la mia tazza di caffè. Ero così felice.

L'avevo decorata con fiori rosso fuoco e diversi colori accesi.

Stavo correndo verso casa, quando improvvisamente mi si parò davanti un'ombra.

Era mio fratello Mark, uno dei miei numerosi fratelli, che mi fece un agguato. Certo, non era una novità; capitava molto spesso che tra di noi ci facessimo scherzi del genere, ma quel giorno era diverso perché in mano avevo la mia tazza e questa, a causa dello spavento che presi, cadde a terra e si ruppe in mille pezzi.

I miei riflessi, anche se più acuti di quelli degli esseri umani, non riuscirono a bloccarla in tempo; così la vidi toccare terra e rompersi in mille pezzi, come fece il mio sorriso felice, che si sgretolò.

Ci misi qualche secondo per capire quello che era successo, come se mi stessi risvegliando da un bellissimo sogno. I miei occhi presero subito a riempirsi di lacrime. Scappai e mi nascosi un albero per consolarmi in solitudine, coccolata dal vento e dai rumori lontani delle auto. Singhiozzai a lungo, perché tutto il lavoro e l'impegno che ci avevo messo nel creare quella fragile tazzina era stato moltissimo e in pochi secondi mio fratello era riuscito a romperla completamente.

Era esattamente così che mi sentivo ora.
Un nodo alla gola e un vuoto nel cuore.

Avevo perso contatti con tutta la mia famiglia quando arrivai negli Stati Uniti, e di conseguenza anche con Sara, ma ciò non cambiava come mi sentivo. Anche se non l'avevo più vista o sentita, il mio affetto per lei non era scomparso. Mai. Le volevo tanto bene.

Gli occhi cominciarono a pizzicarmi per via delle lacrime minacciose, ma riuscii a mantenere l'autocontrollo. Non cominciai a piangere istericamente o a battere i piedi sul terreno come facevo da bambina.

Mi sarebbe piaciuto. Sarebbe stato liberatorio.

Ma ormai ero un'adulta. Ero cresciuta. Dovevo riuscire a mantenere la calma.

E non so come, ma lo feci. Ci riuscii.

« Stai bene, Carrie? » mi chiese Matt, scrutandomi in volto.

Evitai il suo sguardo e gli risposi semplicemente con un « Bene ».

Ma in realtà non era affatto vero. Non stavo bene. Anzi, mi sentivo esattamente l'opposto di 'bene'.

Tutte le mie emozioni e i sentimenti che avevo sempre cercato di nascondere e di ingabbiare dentro di me, ora avevano preso il sopravvento: la felicità nel aver incontrato Matt, la stanchezza nel aver girato tutta la notte, la tristezza nel aver sentito quelle parole uscire dalla bocca del mio amico più caro, la paura... La paura che avevo provato nell'immaginare il corpo senza vita e coperto di sangue di mia cugina.

Sarah.

Cominciai a tremare. Visibilmente.

« Carrie, va tutto bene? » domandò nuovamente Matt, avvicinandosi a me e appoggiandomi una mano sul braccio.

« Sì! » gridai scostandomi da lui, « Va tutto bene! »

E presi a correre, fuggendo e allontanadomi ancora una volta da tutto e da tutti: via dai problemi, via da Matthew, via dalla mia famiglia, via da mia cugina assassinata.

Segni nell'oscuritàWhere stories live. Discover now