15 - Bere

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Entrai nel mio monolocale con gli occhi sbarrati. Giotto mi venne incontro ed emise un miagolio rauco, lo presi e lo sollevai. Lo dondolai cercando di calmarmi: avevo un appuntamento con Zeno.
Niente panico.

Al solo pensiero divenni preda di una tachicardia incontrollata. Mi avvicinai al mucchio di vestiti buttati a terra e, tenendo il gatto con un braccio, cominciai a frugare con agitazione. Dovevo assolutamente portare un po' di panni in lavanderia nei prossimi giorni, prima che prendessero vita e decidessero d'andarci da soli.

Avrei indossato un paio di jeans ed una maglietta, niente di diverso, sia perché non avevo nulla di più sofisticato, sia perché mi sarei vergognata ad indossare qualcosa di più impegnativo.

Mi lasciai cadere sul materasso e presi il mio diario.

Scrissi: "Ho un appuntamento con Zeno. Sfarfallo tra il terrore e l'entusiasmo. Sono preoccupata". Mi faceva ancora male la gola.

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Respirai a fondo, controllai l'orario sul cellulare almeno cinque volte, non volevo rischiare di sbagliare, ma le 21.00 continuavano ad essere tali: non era un miraggio.
Non poter controllare l'orologio di mia madre mi sconfortava, ma cercai di non pensarci, non ora almeno. 21.01. Okay, potevo andare.

Feci un gesto a Giotto ed uscii di casa. Scesi le scale con lentezza, ero pronta a fuggire al primo segnale di pericolo, come un cerbiatto in allerta.

E se non si dovesse presentare? Che pensiero sciocco, mi aveva invitata lui.
Ma se ci avesse ripensato? Ridicolo, non era il tipo.
Lo conoscevo davvero così bene da poterlo dire? Certo, lo avevo osservato per anni, avrei potuto scrivere la sua biografia.
Ne ero sicura?

Aprii il portone con cautela e lo trovai lì ad aspettarmi. Mi fece un cenno, al collo aveva la sua macchinetta fotografica. In una mano aveva una busta piena di bottiglie.
Mi avvicinai e scrissi sul taccuino: "Ciao". Mi sorrise: «Ciao anche te». Mi mostrò le bottiglie: «Ho pensato di portarti al parco a guardare le stelle, piuttosto che in un locale con troppa gente».
"Ma non si riescono a vedere le stelle a Milano".
Deglutì e rise imbarazzato: «Sì, lo so. Però non so, pensavo potesse essere una serata alternativa più piacevole». L'idea in realtà mi piaceva, il silenzio dei parchi di notte era meraviglioso, qualche puntino luminoso si sarebbe visto.

"D'accordo. Ti serve una mano a portare la busta?".
«Per carità, non ti farei mai portare nulla. Ti va di andare a piedi? Altrimenti possiamo prendere la mia auto». Scossi la testa: "A piedi va bene, mi piace passeggiare quando non c'è nessuno".

Mentre camminavamo non fece altro che parlare, cosa che mi fece piacere, perché spesso la gente si fermava di fronte alla mia difficoltà nel rispondere.
«...ed insomma questa modella si era impuntata sul fatto che non potevo assolutamente farle foto in primo piano. Ma sant'iddio, perché vuoi fare dei provini per le pubblicità del dentifricio, se poi vuoi farti fotografare ad una distanza minima di tre metri?!».
Notò che stavo fissando la sua macchinetta fotografica. Eravamo quasi arrivati al parco, nella busta portava anche una coperta che avremmo usato poi, per stenderci. «Che c'è? Ti piace?». Mi avvicinai e la sfiorai con l'indice: "Sembra complicata da usare".
Ci sistemammo su una porzione di prato, vicino ad un lampione pallido. Mi sedetti accanto a lui, mi appallottolai e cercai di diventare il più piccola possibile: difficile considerando la lunghezza delle mie gambe.
Si tolse la macchinetta dal collo e me la porse: «Prova». Imbarazzata gliela sfilai dalle mani e la rigirai per capirne il funzionamento. Mi indicò qualche pulsante: «Con questo la accendi, poi prova a puntare e a scattare>>. La accesi e tenendo l'obbiettivo verso di me, scattai una foto. Il flash mi accecò. Mi coprii gli occhi, ma fu tutto inutile.
Non ci vedo un cavolo! 

«Attenta!». Sentii le sue mani poggiarsi sulle mie spalle: «Stai bene?». Avvampai di rossore e cercai di non svenire. Annuii velocemente e quando aprii gli occhi, tra le macchie di luce che mi oscuravano la vista, trovai il suo viso a pochi centimetri dal mio. Mi perlustrava con aria preoccupata: «Sbatti le palpebre e cerca di non muovere troppo lo sguardo. Dovrebbe passare presto>>.
Mi fu impossibile rimanere a fissare i suoi occhi, col cuore in gola mi scostai leggermente. Lui me lo lasciò fare e si rilassò. Prese a traccheggiare con quell'arnese, poi tornò a guardarmi. La sollevò fino a portarsela al viso e scattò. Il flash mi accecò nuovamente. 

«Scusami, ma non potevo non fotografarti». Gli lanciai un'occhiata perplessa e rimbambita. Controllò la riuscita del lavoro e sorrise: «Eri troppo carina».
La sua affermazione molestò il mio rossore e mi voltai di scatto dall'altro lato, nel tentativo di non incrociare il suo sguardo. Sarei potuta morire e non me ne sarei resa conto.

Decise di cambiare discorso, forse aveva colto il mio disagio. Mi raccontò di quando prese Google, cinque anni prima.

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«Aurora?». Mi stropicciai gli occhi, cominciavo ad avere sonno.
«Tu non hai davvero mai parlato?». Non mi ero mai chiesta come lui avesse saputo fin da subito del mio stato di mutismo, giustificai la cosa pensando che dovesse ricordarmi dal liceo. Era difficile passare inosservata quando si era l'unica ragazza incapace di parlare in un intero edificio scolastico.
"Da piccola ero più o meno normale".
«Perché? Ora non lo sei?».
"È stato impossibile non diventare strana".
Titubò, poi spostò lo sguardo dal cielo opaco a me: «Sai... io mi ricordo del giorno in cui accadde il tuo incidente. Tutti ne parlavano, sentii qualcosa anche ai telegiornali, ero davvero piccolo. Mia madre spense la televisione, mi disse di andare in camera e si mise a parlare con mio padre. Credo che andò anche ai funerali di tua madre e tua sorella. Non ti avevo mai notata prima a scuola, ma poi, dopo che sparisti per dei mesi, quando tornasti fu come se tutti si fossero accorti di te per la prima volta, me compreso».
Mi scoccò un sorriso: «Mi hai sempre incuriosito, ma non ho mai avuto il coraggio di rivolgerti la parola». Poi si rabbuiò un poco: «Vedevo nei tuoi occhi troppa sofferenza, troppo dolore, come potevo sperare di non essere investito da quello sguardo, parlandoti?».

Perché mi stava dicendo quelle cose? Perché stava rievocando quei giorni che avevo cercato di oscurare?
Ma soprattutto perché si era sempre trattenuto?
In una vita dove avevo dimenticato cosa fosse la felicità, dove i miei problemi mi avevano portata ad attaccarmi morbosamente allo sguardo di quel bambino che un tempo era stato, una sua parola sarebbe stata un balsamo fresco su una ferita aperta.
La mia esistenza sarebbe stata meno grigia, se lui mi avesse salutata anche solo una volta. Ma meglio tardi che mai.

Sorrisi.
"Mi puoi passare la bottiglia di acqua minerale?".

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Aurora - Silenzio e Voce [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora