Capitolo 6

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Andrea

Non mi ero ubriacato eppure mi sentivo brillo.
Dopo il concerto andammo in un bar/pizzeria di fronte al locale e prendemmo qualcosa da mangiare.
Le ragazze erano quelle messe peggio: avevano buttato giù i cocktail a stomaco vuoto e non erano abituate a bere così tanto.
Laura manifestava l'assunzione eccessiva di alcol con schiamazzi, urletti e risatine. Si buttava su Alberto appena poteva ed il mio amico era tutt'altro che schifato da quei contatti fisici.
Esmeralda, invece, faceva il contrario. Si era chiusa in se stessa, si era seduta su uno sgabello e si teneva la testa.
Cercavo di starle vicino il più possibile. «Non dici niente», le chiesi.
«Non riesco neanche a pensare», rispose.
Scoppiai a ridere, anche se non era affatto una situazione divertente per lei. Ci ero passato tante volte, ma di solito mi trovavo nel suo stato solo con il doposbronza.
Lei aveva cominciato ad abbattersi troppo presto.
«Sai, di solito, quando ci si ubriaca si fanno pazzie, si urla. Non si sta seduti su uno sgabello a mantenersi la testa per paura che cada».
«Ascolta, Andrea», inciampava nelle sue parole. «Stai facendo discorsi troppo... lunghi e... complicati e... non so più come descriverli».
Sorrisi e le accarezzai una guancia.
«Ti porto a casa, ti va?»
Lei annuì senza proferire parola.
Portare a casa quelle due ragazze, in quelle condizioni, era un rischio per la mia macchina. Avrei potuto trovarmi un mare di vomito sui sedili senza rendermene conto.
Le feci salire in auto e per tutto il tragitto cercai di evitare curve brusche o accelerate improvvise.
Portai a casa prima Alberto e poi Laura. Era tutto uno stratagemma per restare solo con Esmeralda.
La lasciai sedere dietro, senza chiederle di spostarsi. Sembrava quasi addormentata.
Quando arrivai sotto casa sua mi slacciai la cintura, scesi dalla macchina e ci rientrai dalle porte posteriori. Mi sedetti accanto a lei.
Il suo respiro era regolare, era caduta in un sonno profondo.
Non sapevo se avesse un coprifuoco, se i suoi genitori la stessero aspettando in casa svegli. Non sapevo se avrei dovuto lasciarla dormire o svegliarla. Avrei potuto senza problemi restare lì e dormire con lei, sotto il suo palazzo, ma non ero sicuro che lei volesse questo.
La ringraziai per ciò che aveva fatto per me quel giorno, senza saperlo.
Quella mattina mi ero alzato con il piede sbagliato, avevo litigato con mio padre perché avevo strisciato l'auto con un palo senza accorgermene, uscendo da un parcheggio, e avevo preso un voto non proprio felice ad un'interrogazione di storia.
Quando le avevo chiesto di uscire dalla classe, lei si era precipitata da me. Il solo vederla mi aveva calmato.
Esistono due tipi di persone: quelle che ti promettono la tranquillità e quelle che te la trasmettono senza dire una parola.
Esmeralda faceva parte della seconda categoria.
Le avevo chiesto di venire con me al concerto per continuare ad avere quella sensazione di pace per tutta la giornata, perché volevo stare con lei e con nessun altro.
Le toccai una spalla. «Esme», sussurrai.
Poi mi resi conto che, se era in un sonno profondo, non avrei mai potuto svegliarla con un sussurro.
«Esmeralda», dissi con voce normale.
Lei aprì gli occhi e si girò verso di me.
«Scusa, mi sono addormentata?», chiese con voce impastata dal sonno.
«Sì», risposi.
«Scusa».
«Siamo arrivati, sei a casa», le dissi a malincuore.
«Scusami», cominciò a stiracchiarsi.
«Hai già chiesto scusa, sei scusata, puoi smettere di dirlo», risi.
Lei mi guardò con uno sguardo dolcissimo.
Le ravviai i capelli dietro le orecchie e la guardai negli occhi. «Tutto bene? Ti viene da vomitare?»
«Un po'», socchiuse gli occhi. «Grazie della serata Andrea», si raddrizzò sul sedile, afferrò la borsa e si sporse a darmi un bacio sulla guancia.
Le poggiai una mano sulla vita e la trattenni in quella posizione. Le diedi un bacio sul lobo dell'orecchio e le augurai la buonanotte.
Poi uscì dalla porta e andò dritta verso il portone. Non suonò nessun campanello, immaginai avesse le chiavi.
Non si guardò indietro neanche una volta.
Io rimasi lì dieci minuti, prima di decidermi a tornare al posto di guida ed incamminarmi verso casa.

I miei momenti con lei, dopo quella serata, furono sempre bellissimi.
La sera successiva al concerto le chiesi di vederci di nuovo.
Volevo svelare il mistero che si nascondeva dietro i suoi comportamenti, dietro i suoi sguardi e dietro i suoi sorrisi, e pensavo che frequentarla fosse un passo in più verso la verità.
A volte non la capivo per niente.
C'erano giorni in cui passava dal parlare del suo gusto preferito di gelato – nocciola – ai suoi problemi con la scelta dell'università. Giorni in cui mi guardava con trasporto e giorni in cui sembrava che fossi solo un suo cliente. Poi c'erano giorni in cui un momento stava parlando della sua canzone preferita e quello successivo di quanto odiasse l'idea della morte. C'erano quelle volte in cui faceva dei discorsi profondi come pozzi.
«Chissà se c'è vita oltre quell'immensità di stelle», mi disse mentre eravamo stesi sul cofano dell'amore della mia vita: la mia auto.
La guardai come si guardano le cose piccole, indifese e preziose. Lei per me era quello.
«Non mi sono mai chiesto una cosa del genere. Forse a volte mi basta avere la mia, di vita», avevo esordito io stupidamente.
Lei mi fece uno sguardo quasi deluso e continuò, «Ma la nostra vita non è poi granché. Magari c'è qualcosa di meglio altrove». Sembrava persa. «Non può essere solo questo».
Non può essere solo questo.
«Non possiamo passare la vita a sgobbare per ottenere le cose sapendo che le perderemo tutte, un giorno, senza neanche rendercene conto»
Lì capii che Esmeralda non era contenta di ciò che aveva, voleva di più.
Io volevo darle di più.
Dopo averla lasciata a casa, entrai in auto ed accesi la radio. Mi ritrovai ad ascoltare "Straordinario" di Chiara Galiazzo ed a pensare a lei. Decisi che le avrei fatto una sorpresa.

Il giorno dopo invitai Esmeralda e Laura ad una partita di calcio.
Non le avevo mai detto che mi piaceva giocarci, non c'era mai stata occasione di parlarne.
Pensai che, se le avessi svelato una delle mie passioni, magari lei mi avrebbe ripagato con la stessa moneta.
Qualche giorno prima ero andato a casa sua ed avevo trovato aperto il cancello, ero arrivato alla sua porta ed avevo sentito il suono del pianoforte.
Avevo bussato e mi aveva aperto Esme.
In casa non c'era nessun altro.
Eppure lei mi aveva detto che il piano era di sua madre.
Quell'invito alla partita di calcio, quindi, era in realtà un invito ad aprirsi di più con me.
Cosa c'era di male nel confessarmi che le piaceva la musica?
Che le piaceva suonare il pianoforte?
Non lo capivo.
Le dedicai un goal ma, nonostante quel punto, perdemmo la partita.


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Neanche una nuvolaWhere stories live. Discover now